Nelle numerose discussioni sviluppatesi dopo la presentazione della lista elettorale Potere al Popolo, una gran parte delle critiche si è soffermata sull’uso della parola “popolo” da parte dei promotori.
Vi si è visto nel migliore dei casi una eccessiva genericità lessicale, un allontanamento dalle categorie tradizionali che formano la base teorica della sinistra marxista, un annacquamento ideologico. Si è arrivati anche a sostenere l’ambiguità del termine, fino a spingersi a rimarcarne un’identificazione con forze di stampo populista, non necessariamente di “sinistra”.
Naturalmente nella storia non mancano esempi con cui poter sostenere una tesi che apporti significativi correttivi a tali asserzioni. Solo a titolo di esempio, l’aggettivo “popolare” ha accompagnato il nome “Fronte” per identificare le alleanze elettorali di sinistra in Francia e Spagna durante gli anni ’30 (o nelle prime elezioni repubblicane in Italia), nonché quello che qualificava le “Repubbliche Democratiche” che si ispiravano ai principi del marxismo-leninismo. La discussione tuttavia, proseguendo su questa strada, non credo possa produrre significativi risultati.
Curiosamente, un’indifferenza di almeno pari grado rispetto all’attenzione destata dalla parola popolo, ha accompagnato l’altro sostantivo presente nel nome della lista, ossia “potere”, che di certo tout court, non desta meno suggestioni.
La pubblicazione del programma di Potere al Popolo ha suscitato un altro tipo di critiche da parte di militanti appartenenti all’area di maggiore contiguità politica e alle organizzazioni che hanno aderito alla proposta del Centro sociale Ex OPG Occupato - Je so' pazzo (tra i maggiori, Partito della Rifondazione Comunista, Partito Comunista Italiano, Sinistra Anticapitalista, Eurostop).
Nel suo complesso lo si è giudicato un programma sostanzialmente riformista, conferendo all’aggettivo un’accezione negativa.
Anche in questo caso, sarebbe possibile contrapporre una serie di argomentazioni a questa valutazione, a partire dal fatto che le profonde modifiche del quadro storico-politico, investono il senso stesso di categorie consolidate nel nostro sentire.
Se soffermiamo la nostra attenzione sui soli Paesi dell’Unione Europea negli anni successivi la caduta del muro di Berlino, ancor più che la marginalizzazione o la scomparsa di soggettività politiche capaci di catalizzare energie rivoluzionarie, a colpire è la trasformazione avvenuta nei partiti socialdemocratici.
All’interno di uno schema più o meno valido dalla fine del XIX secolo con la nascita e lo sviluppo del movimento operaio, i partiti socialdemocratici hanno rappresentato l’istanza associata alla graduale transizione al socialismo, senza discontinuità rivoluzionarie. I gradini, le tappe, di questo processo, sono stati incarnati dalle riforme. Ignorare, nella considerazione della loro portata, una “freccia del tempo” disposta in una ben determinata direzione, equivarrebbe ad una palese distorsione storica.
Le nazionalizzazioni dei settori strategici dell’energia, dei trasporti, del sistema creditizio, il progressivo rafforzamento dell’istruzione e della sanità pubblica, la regolamentazione garantista del rapporto di lavoro, prescindendo dalla pluralità dei fattori che hanno concorso al loro concretizzarsi, hanno costituito un insieme di riforme il cui senso complessivo è riassumibile nel generale miglioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice, nonché di una sua parziale emancipazione dal sistema del capitale.
Negli ultimi trent’anni la parola riformismo si è nutrita invece del vuoto lasciato dalla crisi delle organizzazioni del movimento operaio, assumendo tratti diametralmente opposti al suo significato consolidato.
La definizione del programma di Potere al Popolo come riformista, andrebbe quindi quantomeno accompagnata dalla non poco rilevante precisazione, di riferirsi ad una concezione di riformismo oggi non più rintracciabile in nessuno dei soggetti politici classificati come tali e interamente risucchiati dal gorgo neoliberista.
Naturalmente, il fatto di porre attenzione ad una più adeguata contestualizzazione delle categorie politiche, non sottrae il progetto di Potere al Popolo ad una legittima critica, che poggi le sue argomentazioni sul convincimento che un programma minimo riformista non sia la strada giusta, né per risalire la china dopo decenni di distruzione del welfare e dei diritti dei lavoratori, né tantomeno per reindirizzarci sulla strada della rivoluzione.
È a questo punto dell’analisi che, a nostro avviso, va sottolineato l’utilizzo della prima parola che compare nel nome della lista. Non per riaprire una sterile discussione sul lessico politico. Ma per analizzare tale scelta terminologica in connessione con alcuni elementi che caratterizzano il progetto e che conferiscono allo stesso delle potenzialità non giustamente apprezzate, riaprendo dopo anni di latitanza, quello che potremmo chiamare il discorso sul potere.
Per addentrarci in una indagine siffatta, può essere utile operare una breve digressione.
Una delle discussioni che animò i Quaderni Rossi, vide contrapporsi Momigliano e Panzieri, sull’esistenza o meno di un contenuto politico dell’azione sindacale [1].
Momigliano negava tale contenuto, basandosi sul fatto che anche la più riuscita delle lotte sindacali, per tradursi in risultati concreti, era obbligata a rientrare nell’ambito della contrattazione, ripristinando di volta in volta la posizione dominante del capitale nei rapporti interni all’azienda.
Se trasferiamo il ragionamento di Momigliano allo scenario della lotta politica, si potrebbe obiettare che l’analogia è improponibile, in quanto in tale ambito lo scopo è rappresentato proprio dalla conquista di un potere in grado di mutare la struttura dei rapporti sociali. Ma se ci riferiamo ad una lotta politica che avviene nel quadro del sistema capitalistico, il ripristino di cui parla Momigliano, riferendosi al riconoscimento del potere di dominio della controparte padronale, non avviene anche nelle normali dinamiche democratiche che caratterizzano lo scontro politico? E questo “ritorno alla normalità”, non sarebbe l’inevitabile epilogo, anche per una forza politica dichiaratamente e genuinamente rivoluzionaria? (A meno che non si voglia sostenere che l’insieme delle contraddizioni del sistema e lo stato di coscienza collettiva delle classi subalterne, prefiguri in questo momento uno scenario prerivoluzionario).
Ma la rivoluzione è rottura, sembra quasi di sentire urlare. Quello che però dovremmo chiederci è: la rivoluzione è già rottura fin dal suo principio? Probabilmente può esserci di aiuto porre una adeguata enfasi sulla connotazione dinamica della rivoluzione, valorizzando il suo essere principalmente processo.
In realtà, tornando nuovamente sulla disputa Momigliano-Panzieri, le due tesi più che contrapporsi paiono integrarsi. Vero quanto afferma Momigliano, sulla inevitabile e implicita legittimazione politica del padrone. Ma non meno vero che la rinnovata accettazione dei rapporti di potere vigenti, avviene in un equilibrio nuovo, che non significa solo - per riprendere l’esempio di una riuscita azione sindacale -, il miglioramento delle condizioni dei lavoratori, ma anche la riduzione delle possibilità per il potere dispositivo padronale, di incidere sull’esistenza, sulla realtà materiale dei lavoratori. Lo spazio occupato dal potere non ha zone di nessuno. L’espansione del potere di una classe riduce complementarmente quello delle altre. E la situazione mutata è progenitrice di tante nuove possibilità, per quanti sono i momenti di relazione tra le classi, siano essi di scontro, tregua o collaborazione tattica.
Ma la prospettiva che apre Potere al Popolo è inquadrabile in tal senso? O meglio, l’ipotizzato discorso sul potere, per quali motivi dovrebbe essere riconducibile a tale progetto? I punti che a nostro avviso avallano tale ipotesi, sono i seguenti:
1) Il richiamo alla Costituzione, che è stato da alcuni individuato come punto debole, va inquadrato in un contesto in cui il capitale internazionale ha dichiarato in modo espresso [2] la necessità di modificare radicalmente le Costituzioni nate dalla vittoriosa lotta al nazifascismo, concependo tale passaggio come snodo cruciale per la subordinazione di qualsiasi diritto, compresi quelli fondamentali, alle compatibilità finanziarie dei bilanci pubblici. Ossia, tradotto nella sua sostanza, alla garanzia di una regolarità permanente del flusso della rendita finanziaria percepita. La strategia è quella di un disciplinamento globale, che riesca a scaricare solo ed esclusivamente sul fattore lavoro e sull’ambiente, le conseguenze delle crisi generate dall’intrinseca anarchia del sistema capitalistico, preservando un costante tasso di estrazione del plusvalore.
2) La combinazione del rifiuto del Fiscal Compact e della costituzione di un Audit sul debito pubblico, in funzione della sua rinegoziazione e ristrutturazione, rappresenta il fulcro di una qualsiasi strategia di reale destrutturazione del potere del capitale internazionale, il quale filtra i dispositivi di comando, attraverso l’attuazione delle politiche austeritarie e il ricatto del debito, vero strumento di dominio, nascosto sotto una coltre di falsa neutralità tecnica (in modo quanto mai opportuno nel programma è evidenziato il fatto che “il rapporto tra entrate e uscite dello Stato è in attivo, al netto degli interessi, da circa 25 anni (per 672 miliardi dal 1980 al 2012)”, ma che l’indebitamento, per tali motivi è cresciuto per pagare alla finanza privata, 2.230 miliardi di interessi a tassi di usura.
3) La pratica del mutualismo esercitata unitamente al progetto di porsi in funzione rappresentativa degli esclusi, conduce ad una interpretazione della lotta politica come contemporaneo agire sia nella cornice legalitaria delle istituzioni democratiche, che nell’allargamento progressivo di forme di esercizio diretto del potere in ambiti vitali per le classi subordinate.
Si tralasciano qui altri punti del programma che pur vanno a confliggere in modo netto con gli indirizzi politici dominanti negli ultimi decenni (il ripristino delle tutele piene in caso di licenziamento illegittimo, l’abolizione delle forme di lavoro precario, la riduzione dell’orario di lavoro per estendere i benefici dell’impetuoso progresso tecnologico all’intera collettività, ecc) non certo per la loro irrilevanza, ma perché ci premeva porre in evidenza la sottovalutazione di quella combinazione di fattori che possono non solo condurre alla riacquisizione di spazi di rappresentanza politica da parte delle classi popolari (elezioni come mezzo e non come fine), ma anche e soprattutto a riannodare i fili di una storia interrotta con la fine degli anni ’70 del secolo scorso, in cui il corpo a corpo ingaggiato con le classi dominanti, produsse uno scintillio che non divampò nell’incendio rivoluzionario, solo perché vinto da una delle più brutali repressioni avvenute in uno Stato di diritto.
La carica anticapitalista del progetto di Potere al Popolo è in conclusione insita negli elementi evidenziati ed andrà valutata dinamicamente, grazie anche alla auspicabile qualità dialettica, che caratterizzerà il rapporto tra le componenti che hanno deciso di percorrere questa strada.
Note
[1] Possibilità e limiti dell’azione sindacale, Franco Momigliano, in Quaderni Rossi n. 2 – La fabbrica e la società, Edizioni Avanti, pag. 103.
[2] The political systems in the periphery were established in the aftermath of dictatorship, and were defined by that experience. Constitutions tend to show a strong socialist influence, reflecting the political strength that left wing parties gained after the defeat of fascism. (J.P. Morgan, The Euro area adjustment: about halfway there, 28 may 2013, pag. 12).