In seguito alle misure di contenimento del contagio da COVID-19 adottate dal governo Conte, la scuola italiana si è trovata in una situazione di emergenza mai sperimentata nella sua lunga storia: la chiusura prima parziale (per personale docente e studenti) e poi totale (anche per il personale ATA) delle scuole e università di ogni ordine e grado, per un periodo di tempo ad oggi ancora non determinato. È difficile fare previsioni su come possa terminare l’anno scolastico, esame di Stato compreso, dato che non si conosce ancora il possibile evolversi del contagio. La situazione è complicata, non ci sono precedenti a cui far riferimento, né modelli a cui ispirarsi, dato che il rischio di una pandemia non era mai stato preso seriamente in considerazione da chi ha preso le decisioni politiche ed economiche.
È troppo presto per valutare le prime misure prese dal MIUR (indicazioni ancora un po’ generiche sulla didattica a distanza e stanziamento di primi fondi per garantire il diritto allo studio); sarebbe facile ma anche inutile col senno di poi osservare che ci si sarebbe dovuti attrezzare per tempo a questa evenienza.
Le priorità in questo momento sono quelle di garantire il diritto allo studio tramite la didattica a distanza e il funzionamento degli istituti con il lavoro in remoto del personale amministrativo. Secondo le dichiarazioni della ministra Azzolina, circa l’80% degli studenti è stato raggiunto dalla DAD (didattica a distanza), ma non è chiaro di che tipo di didattica si parli. L’impressione delle famiglie è che la DAD consista perlopiù in uno scambio meccanico di compiti e videolezioni sulle più disparate piattaforme, dove spesso la reale partecipazione attiva degli studenti è molto difficoltosa se non impossibile.
Per cercare di capire le condizioni in cui oggi la scuola si trova ad affrontare questa emergenza, è utile ragionare su ciò che è avvenuto nel nostro paese negli ultimi vent’anni: la modernizzazione tecnologica nel settore dell’istruzione e la riforma nello stesso settore, che ha portato alla “autonomia scolastica”.
L’acquisto dei materiali necessari per l’informatizzazione e l’innovazione tecnologica delle scuole non è avvenuta con una programmazione ministeriale ordinata e coordinata, in modo da ottenere migliori prezzi dalle aziende, contenere le spese e rendere più semplice e fruibile l’utilizzo di tali mezzi da parte di lavoratori e famiglie. Al contrario, questa auspicata modernizzazione ha seguito percorsi diversi nelle singole scuole in regime di autonomia, spesso in competizione l’una con l’altra per ottenere finanziamenti. Ciò è avvenuto per scelta e non per caso, perché il ruolo previsto per la scuola era quello di sostenere il mercato, come suggerito dall’UE già ai tempi di Lisbona 2000, e denunciato in tempi non sospetti dai più attenti osservatori, uno fra tutti Nico Hirtt.
L’autonomia scolastica, intesa come deregolamentazione dei sistemi di insegnamento e decentralizzazione della gestione, ha portato infatti a una “flessibilità” specificamente pensata per rapportare l’istruzione con le imprese e il mercato. Si tratta di una scuola al servizio della competizione economica, la quale del resto regola tutte le attività umane. La flessibilità della scuola corrisponde alla flessibilità del mondo del lavoro, alla compressione dei diritti, alla precarizzazione del lavoro dentro e fuori dalla scuola.
Anche l’attrezzarsi digitalmente da parte degli istituti scolastici ha seguito questa tendenza. Sul piano economico generale il bisogno è stato quello di lavoratori sempre più adattabili, di risorse umane sempre più flessibili, di un capitale umano al servizio dell’accumulazione capitalistica. Il programma europeo “eLearning” che già nel 2000 prevedeva l’introduzione e la promozione nelle scuole di una cultura informatica era dichiaratamente motivato dallo “spirito d’impresa”, dalla necessità di essere competitivi sul piano dell’e-commerce. A questo dovevano rispondere i sistemi formativi, alleggeriti dalle “burocrazie” e rigidità di un controllo centrale. La Commissione Europea nel 2013 dichiarava che era necessario “tenere il passo con la società e l’economia digitali”. In Italia, il Piano Nazionale Scuola Digitale varato nel 2007 e rivisto nel 2015 ha lanciato una crescente infrastrutturazione digitale delle scuole in cui l’industria dell’EdTech (oltre ad altri soggetti di tipo imprenditoriale come consulenti e sviluppatori, e in generale attori di edu-business) ha goduto di un ruolo importante, rendendo evidente come l’uso delle tecnologie digitali ai fini educativi non è immune dalle pressioni di mercato, con i relativi risvolti politici e sociali.
Gli esempi pratici di applicazione di questa logica sono innumerevoli. Il passaggio dall’uso dei registri cartacei ai registri elettronici, per dirne uno: esso è avvenuto in tempi diversi nei vari istituti e con scelta di gestori diversi da parte delle singole scuole con evidenti aggravi di costi da parte dell’istituzione pubblica. Lo stesso meccanismo si è verificato sull’acquisto di LIM, computer, tablet ecc.
Oggi ci troviamo in una situazione di grande disomogeneità di risorse tecnologiche tra diversi istituti e zone geografiche, alcuni già attrezzati da tempo, altri ancora in grande difficoltà. In questa nuova situazione emergenziale, nel rispetto dell’autonomia, ogni singolo istituto si è mosso scegliendo modalità di didattica a distanza diverse tra di loro, in base a ciò che decidevano il dirigente scolastico o gli organi collegiali convocati in riunioni in remoto, quando ciò è stato possibile. Nella maggior parte dei casi i docenti non sono stati formati in precedenza per la didattica a distanza, e si stanno auto-formando sull’uso delle svariate piattaforme didattiche che sono state sviluppate in questi anni, anch’esse in concorrenza tra di loro benché in realtà molto simili (Google Classromm, WeSchool, Padlet, Moodle, Edmodo, Zanichelli, solo per citare alcune delle più note). Gli studenti si trovano quindi nella paradossale situazione di dover usare magari contemporaneamente quattro o cinque piattaforme didattiche e le famiglie con più figli diversi registri elettronici per comunicare con i docenti, con le evidenti difficoltà che ne conseguono per chi ha meno risorse e strumenti a disposizione.
La scuola italiana è all’avanguardia per la normativa che riguarda gli studenti DSA, DVA e con bisogni educativi speciali (BES). Tra i bisogni educativi speciali purtroppo sono ancora drammaticamente attuali quelli di tipo economico. Lo scenario imposto dal diffondersi del virus ha evidenziato che con la didattica a distanza è impossibile garantire uguali condizioni per il diritto allo studio agli studenti con situazioni di disagio economico.
Secondo i dati ISTAT, nel 2019 il 95% delle famiglie con almeno un minorenne dispone di collegamento a Internet con banda larga. Questo dato non deve ingannare. Il “digital divide”, ossia il divario fra chi ha o meno accesso alle nuove tecnologie digitali, non si è estinto, bensì si è evoluto nella “digital inequality”. Questa disuguaglianza digitale, evidenziata in diverse indagini (si vedano gli studi di Hargittai e Hinnant [1], o a livello italiano di Gui e Micheli [2] ha come elemento discriminante non più la semplice possibilità di connessione al web bensì il tipo di utilizzo che se ne fa. È emerso per esempio che gli studenti con genitori con titolo di studio più elevato e in generale in un contesto sociale più avvantaggiato utilizzano di più il web per la ricerca di informazioni. In generale, la disuguaglianza riguarda le capacità e possibilità di interazione e comprensione degli strumenti digitali, e il solo accesso a Internet non determina le competenze necessarie per farne l’uso che adesso, con la situazione emergenziale, è necessario perché si possa parlare di didattica.
Nella speranza che l’emergenza finisca presto, ma anche con la consapevolezza che in futuro la scuola potrebbe di nuovo trovarsi in situazioni che richiedono interventi rapidi e decisioni coordinate (anche per cause diverse, considerando anche il contesto climatico attuale) per garantire a tutti il diritto allo studio, forse sarebbe utile ripensare e rimettere in discussione l’autonomia scolastica. Negli ultimi anni in Italia questo dibattito è praticamente scomparso, purtroppo anche in campo sindacale, ma scenari nuovi anche se drammatici come quello attuale ci pongono nuovi interrogativi a cui forse una gestione più centralizzata e coordinata della scuola potrebbe rispondere in modo più tempestivo ed efficace.
Note:
[1] Hargittai E. (2002), Second-level digital divide: differences in people’s online skills, «First Monday», 7, 4; Hargittai E. E Hinnant A. (2008), Digital inequality differences in young adults’ use of the Internet, «Communication Research», XXXV, 5.
[2] Gui M. e Micheli M. (2011), I giovani e la disuguaglianza digitale. Il dibattito e la situazione in Italia, «Città in controluce», 19-20.