Chi ha ucciso la stampa di sinistra

Alla notizia che il giornale fondato da Antonio Gramsci finirà probabilmente nelle mani di un editore di riviste di gossip, qualcuno ha commentato: «Finalmente potrò leggere l'Unità dal parrucchiere». Magari (magari) non finirà così, ma è un (l’ennesimo) segno dei tempi. E c’è poco da ridere.


Chi ha ucciso la stampa di sinistra Credits: @zak_says

 di Romina Velchi

Alla notizia che il giornale fondato da Antonio Gramsci finirà probabilmente nelle mani di un editore di riviste di gossip, qualcuno ha commentato: «Finalmente potrò leggere l'Unità dal parrucchiere». Magari (magari) non finirà così, ma è un (l’ennesimo) segno dei tempi. E c’è poco da ridere.

Con la chiusura dell’Unità si può dire conclusa l’offensiva contro l’informazione di sinistra (intesa in senso largo), con l’unica eccezione del Manifesto (quasi un miracolo). Perché di questo, a ben vedere, si è trattato: un vero e proprio assalto al diritto all'informazione alternativa che va di pari passo con il motto della Trilaterale secondo cui troppa democrazia fa male: per lorsignori anche troppa informazione fa male, specie se è finalizzata a disturbare il manovratore. Molto più comodo avere masse disinformate e passive, chiamate a dire la loro una volta ogni tanto, cioè alle elezioni, cioè giusto per acclamare il leader che si autoproclama capo del Partito della Nazione.

Una vera e propria censura, fatta con altri mezzi. Sottile. Silenziosa. Non traumatica. Il tutto è avvenuto nel giro di pochi anni, sotto il titolo "lotta alla casta" e agli "sprechi della politica". La mazzata è arrivata con il taglio, anzi di fatto l'azzeramento, dei finanziamenti pubblici all'editoria di partito e cooperativa, a bilanci già approvati e dunque a soldi già spesi. Guarda caso, però, a rimetterci sono stati soprattutto i giornali di sinistra (Liberazione, lo stesso Manifesto, l'Unità, Europa, il Riformista, Avvenimenti), quelli, cioè che non hanno alle spalle editori forti, dotati di capitali. Mentre, e questo è forse il paradosso più evidente, la “stampa borghese” (tanto per capirci), quella stessa che «è il mercato, bellezza», continua ad usufruire di sostegno pubblico indiretto, sotto forma di cassa integrazione e prepensionamenti per stati di crisi più o meno veri.

Il tutto, vale sempre la pena ricordarlo, avviene in un paese che non conosce editori puri, cioè che “producono” e “vendono” esclusivamente notizie, ma solo proprietari di giornali o tv che hanno i propri interessi altrove: sanità, costruzioni, assicurazioni eccetera. Tanto che se il Messaggero spara a tutta pagina che «mai come in questo momento i mutui sono favorevoli» è lecito chiedersi se sia proprio così oppure se, per caso, all’editore, tal Caltagirone (noto costruttore romano) non interessi piuttosto spingere verso la compravendita di immobili. Non per nulla, l’Italia si trova al 57esimo posto nella classifica della libertà di stampa, dopo la Moldavia e l’Ungheria e molto dopo il Costa Rica e la Namibia (Reporter senza Frontiere, 2013). E così scopriamo (si fa per dire) che per oltre vent’anni ci siamo accapigliati sull’unico conflitto di interessi di Berlusconi, mentre di conflitti di interessi, nel campo dell’editoria, ce ne è a bizzeffe.
Nell’epoca dei rottamatori e del “cambiare si deve a prescindere”, pare brutto parlare di finanziamenti pubblici all’editoria, tanto più se di partito. Sono decisamente fuori moda. Eppure l’informazione, come la salute, la casa, l’istruzione, il lavoro, è un diritto e può a buona ragione essere considerato un bene comune. Uno stato moderno e realmente democratico dovrebbe considerare il pluralismo un valore da difendere e l’accesso all’informazione un diritto per tutti i cittadini, per garantire uno sviluppo armonico ed aumentare le possibilità di crescita economica e sociale, secondo lo slogan, sempre attuale, «conoscere per deliberare».

Questo anche per salvaguardare la qualità dell’informazione e dunque la sua stessa sopravvivenza.

Perché se la stampa di sinistra piange, quella borghese non ride. Il crollo delle vendite dei giornali sembra ormai inarrestabile e anche la televisione sta perdendo inesorabilmente ascolti, specie nella fascia di età sotto i 30 anni. Lettori e telespettatori, piuttosto nauseati da stampa embedded, bugie palesi propalate come verità, talk show rumorosi, retroscena inutili, e afflitti da una crisi economica che morde sempre di più, stanno scappando sulla rete (dove l’informazione è sì gratuita, ma non sempre all’altezza), decretando così la crisi anche dei giornaloni: secondo gli ultimissimi dati della Federazione degli Editori, per dire, il Corriere della Sera vende appena 300mila copie, che arrivano a 377mila con le edizioni digitali (un anno fa erano rispettivamente 319mila e 400mila). Un calo di lettori progressivo e costante negli anni (in un paese che già legge poco e dove le tirature dei quotidiani sono sempre state basse se paragonate ad altre nazioni, come Francia e Gran Bretagna), cui gli editori cercano di fare fronte investendo (poco) sulla rete, da un lato, e dall’altro sul taglio (drastico) dei costi, che, manco a dirlo, si sta traducendo in una inesorabile precarizzazione delle redazioni (che a sua volta ha il corollario dell’ulteriore scadimento della qualità dell’informazione: un giornalista sempre sotto la minaccia del licenziamento o pagato cifre ridicole, difficilmente si sentirà libero di cercare o trattare le notizie in un modo che non piace all’editore). Con il che gli editori stessi si danno la zappa sui piedi da soli (perché la rete ancora non offre ricavi), ma poco importa, visto che comunque (come per l’economia più in generale) quello che interessa è massimizzare subito i profitti e non certo essere di qualche utilità alla collettività.

D’altra parte, bisogna dirlo, è anche andato disperso quel patrimonio che era la vera ricchezza della stampa di sinistra e che oggi, nella grave crisi attuale, sarebbe di aiuto decisivo: l’esistenza di una comunità di lettori, che si riconosceva nel proprio giornale, lo comprava e lo diffondeva, considerandolo strumento di lotta per far sentire la propria voce e migliorare la propria condizione materiale, perché quel giornale offriva una diversa visione del mondo e della società; era, insomma, di parte. “Dalla rotativa al popolo” si intitola il bel documentario girato nel 1957 sul lavoro dei diffusori dell’Unità in Friuli Venezia Giulia presentato qualche giorno fa a Roma, nei locali dell’Archivio Audiovisivo del movimento operaio e democratico. Nel dibattito che è seguito alla proiezione è stato più volte notato come le rotative non ci sono più, ma non c’è più nemmeno il popolo. O meglio non c’è più un’informazione che possa e voglia rappresentarlo (quello in carne e ossa, non la caricatura che ne fanno i Renzi di turno), perché, ci hanno ripetuto, la storia è finita e con essa le ideologie.

O magari no. E allora possiamo ancora evitare che l’Unità&co finiscano nel mucchio delle riviste da parrucchiere.

12/11/2014 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: @zak_says

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Romina Velchi

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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