Da Assange a Satnam, liberiamoci dalle nostre catene

Cosa hanno in comune Julian Assange e Satnam Singh? Entrambi sono stati vittime dell’ingiustizia e della violenza del sistema capitalistico in cui viviamo. Non c’è più tempo da perdere, uniamoci, da schiavi non vogliamo viverci più.


Da Assange a Satnam, liberiamoci dalle nostre catene

Sembrava impossibile ormai ma, dopo ben 1901 giorni di carcere nella prigione di massima sicurezza inglese Belmarsh, lottando per evitare l’estradizione negli Stati Uniti, il fondatore di Wikileaks Julian Assange è stato liberato, ha lasciato il Regno Unito e raggiungerà la sua famiglia in Australia.

Ovviamente per quanto questa sia un’ottima notizia purtroppo il calvario dell’antimperialista più perseguitato al mondo non finisce qui, dal momento in cui questo risultato è stato possibile solo perché Assange ha patteggiato con l’accusa, il Dipartimento di Giustizia americano, ed ha accettato di dichiararsi colpevole di uno dei 18 reati a lui imputati ossia quello di complotto per ottenere e divulgare documenti coperti da segreto in violazione dell’Espionage Act; in conseguenza di ciò Assange viene liberato ma “da colpevole” e la sua battaglia legale (e soprattutto politica) con gli Stati Uniti proseguirà ancora nelle aule giudiziarie, per quanto senza ulteriori periodi di reclusione, poiché un giudice federale dovrà approvare l’accordo di ammissione di colpevolezza. Chiaramente il fatto che la sua liberazione sia stata possibile solamente a condizione di piegarsi ad ammettere una simile accusa ai propri danni, dopo anni di persecuzione, false accuse e reclusione, dà ampiamente la misura di che cosa sia in realtà la blasonata “giustizia” a stelle e strisce che, in ultima istanza e come sempre accade nelle sedicenti democrazie occidentali, altro non è che un ulteriore strumento posto al servizio dei governi guerrafondai.

Grazie a WikiLeaks il mondo intero è venuto a conoscenza della vera natura dei governi imperialisti, corrotti, autoritari e responsabili di gravissime violazioni dei diritti umani, chiedendo ai potenti di rispondere delle loro azioni. Il prezzo pagato da Assange è stato enorme, la sua libertà è stata a lungo corrotta ma non certo la sua integrità e la grandezza delle sue azioni che hanno ispirato e mobilitato nel mondo migliaia e migliaia di persone, la cui lotta ha contribuito notevolmente a produrre le pressioni necessarie ad ottenere il risultato odierno. A ridosso della pubblicazione dei documenti riservati del Dipartimento di Stato americano nel novembre del 2010, la reazione spaventata e violenta da parte dei maggiori leader del mondo occidentale lascia ancora oggi molto su cui riflettere in relazione alla sempre più profonda crisi di credibilità in cui versa il sistema imperialista. L’allora ministro degli esteri italiano Franco Frattini commentò addirittura, dopo la notizia dell’arresto di Assange per un presunto stupro (inchiesta poi archiviata nel 2017 dagli stessi pubblici ministeri svedesi che lo avevano incriminato e fatto arrestare con mandato di cattura europeo): “era ora, per fortuna l’accerchiamento internazionale ha avuto successo”. Ed in effetti non è un caso, credo, che ad oggi, non abbia ancora avuto il piacere di leggere alcuna dichiarazione sulla liberazione di Assange da parte delle autorità del nostro splendido Paese.

Tajani però ha twittato poche ore fa quanto segue: “ho chiesto ai nostri uffici consolari in India di attivarsi per rilasciare i visti d’ingresso in Italia per la madre e la sorella di Soni, la vedova di Satman, il bracciante morto nell’Agro Pontino. Speriamo possano arrivare presto per sostenerla in questo difficile momento”.

Cosa c’entra?

C’entra eccome. Perché Assange è ed è stato una vittima suprema dell’ingiustizia del sistema in cui viviamo, sperimentando sulla propria pelle la violenza scatenata dai fautori dello sfruttamento mondiale nel momento in cui tutto questo veniva messo a nudo grazie al suo lavoro e al suo coraggio. Ma ci sono moltissime altre vittime che, a differenza di Julian, non hanno potuto giovarsi di alcun lieto fine (per quanto amaro), non hanno un movimento di sostegno, non hanno in realtà niente, un documento, un’identità, un futuro credibile, niente, se non la loro mera esistenza gettata sull’ultimo dei gradini. E sono certa che è anche e soprattutto per queste persone che il sacrificio degli Assange debba e possa avere un senso. 

Satnam Singh veniva dall’India, a 31 anni aveva un lavoro in nero come bracciante a Borgo Santa Maria (Latina) presso l’azienda agricola di Renzo Lovato e figlio, da anni indagati per caporalato, che è quel reato per cui i padroni delle aziende reclutano personale illegalmente, senza pagarlo, senza garantire alcun diritto, sfruttando fino al midollo i lavoratori ridotti in condizione di schaivitù e dipendenza. Chi di voi vorrebbe lavorare normalmente così? Chi di voi, sapendolo, comprerebbe i prodotti di un’azienda simile che fa profitto sul lavoro non pagato di decine di persone, alcune addirittura morte per raccogliere la loro frutta? Quante aziende o sedicenti tali sfruttano illegalmente la manodopera? Perché non lo sappiamo? Perchè i loro nomi non vengono resi noti e costretti a pagare per quello che hanno fatto? Che differenza c’è tra questo - in piccolo, diciamo - e la denuncia delle violazioni di diritti umani ai danni di interi popoli rivelate dai fondatori di Wikileaks?

Satnam non è “un bracciante morto nell’Agro Pontino”, caro Tajani. Satnam è stato ucciso perché il suo datore di lavoro lo sfruttava nella sua azienda senza paghe decenti, senza orari e senza diritti, senza sicurezza sul lavoro e senza la parvenza di alcuna cosa possa anche solo lontanamente definire civile un rapporto di lavoro dipendente. Per salvare i propri profitti Renzo Lovato e suo figlio Antonello - perchè a un certo punto i nomi dei responsabili vanno anche ripetuti perché tutti sappiano e non possano dire di non sapere - nel momento in cui Satnam ha perso il braccio per colpa di un macchinario avvolgiplastica hanno lasciato che morisse dissanguato senza chiamare i soccorsi, buttandolo letteralmente davanti alla propria abitazione assieme alla moglie disperata (anche lei sfruttata nei campi) e al proprio braccio amputato dentro a una cassetta della frutta. L’autopsia ha rivelato che la morte è avvenuta per emorragia e che l’uomo poteva essere salvato: quindi questo, fino a prova contraria, si chiama omicidio colposo e omissione di soccorso.

Non solo Satnam è stato quindi ucciso, per quanto si merita anche lo scherno del padrone dell’azienda, che dà a lui la colpa dell’incidente nonostante fosse stato “avvertito” di non avvicinarsi al macchinario; si guadagna poi la piena ipocrisia delle istituzioni che  lo piangono da morto mentre hanno fatto di tutto, finchè era in vita, per impedirgli l’accesso ad una vita normale, libera, eguale, alla capacità di autodeterminarsi attraverso il lavoro regolare, a possedere un motivo valido e certificato per trovarsi qui con la moglie, senza costringerlo a ricorrere a sottostare al caporalato come milioni di altre persone nella sua condizione. Le stesse istituzioni che promettono “tolleranza zero” verso lo sfruttamento di manodopera irregolare; peccato che (fonte Istat dell’ottobre 2023): “nel 2021 il valore dell’economia non osservata raggiunge 192 miliardi di euro. L’economia sommersa si attesta a poco meno di 174 miliardi di euro, mentre le attività illegali superano i 18 miliardi. Rispetto al 2020, il valore dell’economia non osservata cresce di 17,4 miliardi, la sua incidenza sul Pil resta del 10,5%. Le unità di lavoro irregolari sono 2 milioni 990mila, con un aumento di circa 73mila unità rispetto al 2020”.

I Satnam devono continuare a morire come cani perché ci garantiscono i profitti e oltre il dieci per cento del PIL - cifre necessariamente al ribasso trattandosi dell’analisi di attività che “non emergono”. Ecco la verità sulla sua morte, e il suo mandante è il sistema capitalistico. 

Non riesce a non venirmi in mente proprio il caso più noto, forse, diffuso da Wikileaks, quel video dell’ “omicidio collaterale” in cui è possibile vedere e sentire l'uccisione indiscriminata, divertita, insensata, gratuita, da parte di unità dell’esercito americano, di oltre una dozzina di civili nel sobborgo iracheno di Nuova Baghdad, tra cui due giornalisti della Reuters: dall’elicottero si fa fuoco una prima volta e poi una seconda proprio nel momento in cui un furgone si avvicina sui feriti per prestare soccorso. Qualcosa di letteralmente agghiacciante, un pò come un braccio staccato dal tuo corpo e buttato vicino a te mentre muori dissanguato senza che nessuno chiami i soccorsi, davanti a tua moglie e ai tuoi compagni di lavoro a cui il padrone ha sequestrato il telefono per evitare che ogni possibile problema in grado di rovinargli gli affari emergesse a causa della tua insulsa persona.

Lo vedete che non ha alcun senso celebrare Assange e indignarsi - giustamente - per i massimi sistemi se poi non si è capaci di metterli in correlazione con le atrocità e le ingiustizie della vita quotidiana e di chi ci è più prossimo, se non si è capaci di mettere da parte le sottigliezze, le differenze, e creare un movimento sempre più ampio, sempre più forte, dal basso, che gridi a gran voce che noi da schiavi non ci vogliamo vivere più? Per evitare che quello che oggi capita (soprattutto) ai Satnam domani diventi la regola? Non c’è più tempo da perdere, perchè dopo Julian anche noi è ora che ci liberiamo dalle nostre catene.

28/06/2024 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Leila Cienfuegos

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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