Secondo gli ultimi dati statistici l’economia statunitense sta attraversando la fase forse più prospera dopo la crisi del 2008-9. La crescita del PIL reale, stando agli ultimi dati ufficiali, nel 2017 si attesterebbe ad +3,4% annuo, che rappresenterebbe un record per gli ultimi anni. L’inflazione si mantiene relativamente bassa, i consumi interni crescono ad un ritmo costante, la disoccupazione scende ai livelli minimi di questo primo scorcio di secolo.
Inebriati da questi dati, i mercati finanziari vanno a gonfie vele, ovviamente a tutto beneficio soprattutto dei grandi gestori di capitali che lucrano rendite sempre più elevate. A coronamento di questo momento di apparente trionfo del capitalismo il 2017 si chiude con l’approvazione di una legge fiscale, fortemente voluta dall’Amministrazione Trump e dai repubblicani, che appare essere tra le più inique della storia americana, un vero e proprio colpo di frusta nella lotta che le classi ricche e padronali del paese stanno conducendo, con cinismo e determinazione senza precedenti, nei confronti di lavoratori e classi medie [1]. Per le imprese la griglia delle aliquote, già caratterizzata da una bassa progressività, viene del tutto abolita e si passa ad un’aliquota unica del 21% (in precedenza le aliquote per gli scaglioni più alti si attestavano al 37-39%). E il deficit di bilancio che tale operazione certamente comporterà diventerà poi lo strumento perfetto per giustificare tagli alle spese sociali, ed in particolare alla tanto odiata Obamacare.
Insomma un’America che, al di là dello scandalismo ipocrita e perbenista (pardon, oggi si dice “politically correct”) alimentato dai media mainstream e dalle élites intellettuali nei confronti degli eccessi e delle bizze del suo nuovo Presidente, è invece sempre quell’America pronta a riprendersi lo scettro imperiale di centro propulsore del capitalismo globale.
Di fronte ad una tale congiuntura è evidente che a farne le spese sono, come sempre, i lavoratori, peraltro a smentire l’assunto che in epoca di ciclo economico espansivo i rapporti di forza tra capitale e lavoro si possano riequilibrare in favore di quest’ultimo. Questo forse poteva essere vero in una fase storica differente, quando l’espansione del capitale coincideva con livelli di quasi piena occupazione e si verificava soprattutto nel settore manifatturiero, caratterizzato da una maggior intensità di lavoro rispetto ad oggi e da una maggior combattività e compattezza della classe operaia.
Ma questo non vale più nell’epoca del capitalismo globale e transnazionale, specialmente in un paese dove l’81% del PIL è rappresentato dai servizi, con un’industria al 18% e l’agricoltura all’1%. E dove l’affermazione dei settori delle nuove tecnologie, soprattutto digitale, ha accelerato il processo di riconversione tecnologica a tutto vantaggio di produzioni e servizi ad alta intensità di capitale. Eppure il dato sulla disoccupazione (4%, un livello minimo che non si toccava da prima della crisi) sembrerebbe smentire almeno questa affermazione.
Ma in realtà è noto che i dati sulla disoccupazione negli USA sono in parte bugiardi, o quantomeno fuorvianti, perché non rilevano alcuna forma di precariato e di discontinuità lavorativa, fenomeni che nella cultura americana sono considerati quasi naturali. Non vengono poi conteggiati gli inoccupati che potremmo definire cronici, cioè quei lavoratori non ricercano attivamente un posto di lavoro. E come potrebbero quando magari si tratta, ad esempio, di cinquantenni ormai espulsi da certi cicli produttivi e non considerati “utili” in altri settori? Nel medio-lungo periodo, se non riescono a trovare altri espedienti, sono destinati inesorabilmente ad ingrossare le fila dell’esercito dei senzatetto, i cosiddetti homeless. Una presenza, questa, sempre più ingombrante in tutte le grandi metropoli americane e che rende eloquente la contraddizione tra un’economia che inanella record statistici ed una società che continua invece a decomporsi in brandelli di umanità.
L’intreccio di questi fenomeni sta producendo, proprio in questi giorni, degli eventi che ci paiono particolarmente significativi. E in questa sede ne vogliamo riportare qualcuno.
Prendiamo ad esempio Walmart, la più grande catena della distribuzione alimentare (e non solo) negli Stati Uniti, uno dei giganti a livello globale nel settore e, soprattutto, il primo datore di lavoro privato negli Stati Uniti. Nei giorni scorsi abbiamo assistito ad una pantomima, che, se non ci fossero tragicamente di mezzo le esistenze di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie, apparirebbe farsesca e cinica allo stesso tempo, come l’ha definita un’istituzione non certo sospettabile di estremismo di sinistra, come il Council of Foreign Relations [2], e che ha visto come protagonisti il leader repubblicano del Congresso degli Stati Uniti, Paul Ryan, e i vertici del gruppo. Il primo ha dichiarato infatti in un tweet che grazie ai tagli sulle tasse previsti dalla nuova legge fiscale, la Walmart potrà aumentare i salari ai propri dipendenti. A fargli subito il verso è stato il CEO di Walmart, Doug McMillon, che ha trionfalmente annunciato che, grazie al Presidente ed al Congresso che hanno approvato una riduzione delle tasse, l’azienda avrebbe fatto salire il salario di base al livello di 11 dollari orari. Lo stesso articolo del Council of Foreign Relations, pubblica un grafico che mostra la crescita relativa dei salari (nominali) nel settore della grande distribuzione, svelando l’inganno. Si tratta infatti di un trend che interessa il settore e, secondo le leggi “sacre” della domanda e dell’offerta, è solo per questo motivo che i datori di lavoro sono costretti a trattenere i propri dipendenti offrendo aumenti salariali. Ma la cosa è stata utilizzata per fare un po’ di propaganda, a buon mercato si dovrebbe definire, a testimonianza di un fronte più che mai compatto tra grande capitale e vertici delle istituzioni. Ma la parte più disgustosa di questa storia è il suo epilogo. E infatti di pochi giorni l’annuncio, da parte della stessa Walmart, dopo alcune fughe di notizie che l’avevano preceduto, di un piano di chiusura dei 63 punti vendita della catena di proprietà, la “Sam’s Club”, con il conseguente licenziamento di ben 9.400 lavoratori [3].
Prendiamo poi Amazon, un autentico colosso ormai che potrebbe anche rappresentare il paradigma della forma che sta assumendo il grande capitale del prossimo futuro. Un’azienda di dimensione veramente globale e di natura profondamente transnazionale che tuttavia ha il suo baricentro a Seattle, quindi negli imperialistici USA. Una città, Seattle, che come riporta molto bene un articolo uscito di recente su Le Monde Diplomatique [4] sta sempre di più diventando un paradigma contemporaneo di uno sviluppo urbano plasmato intorno ai ritmi di crescita di una grande azienda transnazionale, e dove si determina una stratificazione sociale nel territorio assolutamente speculare alla stratificazione gerarchica delle funzioni economiche a servizio di quell’azienda. Dove quindi i lavoratori meno qualificati sono via via espulsi dal nucleo urbano principale, a causa dell’incremento del costo della vita e dei valori immobiliari, e devono andare a risiedere in aree suburbane periferiche che vivono lontane e non beneficiano affatto dei nuovi modelli, considerati progressisti, di vita urbana sostenibile di cui godono soltanto i livelli più qualificati, i manager e i creativi, che diventano un nuovo ceto di privilegiati. E si determina così un divario anche politico, dove i valori del progressismo e della sinistra vengono identificano con questi strati privilegiati delle classi medio-alte, orientate sui diritti civili, sull’eco-sostenibilità (ad orizzonte limitato), mentre i lavoratori degli strati inferiori finiscono per non trovare alcuna sponda politica a sinistra e diventano potenzialmente manipolabili da populismi o, il più dei casi, vivono in una dimensione di totale disimpegno politico e di totale assenza di coscienza di classe.
Ma nel frattempo anche le mistificazioni del populismo, che si sono personificate negli USA nella campagna presidenziale del multimiliardario Donald Trump, cominciano ad essere svelate e a rendere i lavoratori una nuova consapevolezza del conflitto di classe in atto ai loro danni. Accade, ad esempio, a Indianapolis, ai lavoratori dello stabilimento produttivo della Carrier, grande gruppo manifatturiero nel settore degli elettrodomestici, uno dei casi simbolici che Trump aveva utilizzato in campagna elettorale per la sua promessa lotta alle delocalizzazioni, impegnandosi a mantenere aperto lo stabilimento di cui la proprietà aveva già ventilato una chiusura per spostare la produzione in Messico. Ed invece, ad un anno di distanza, lo scorso 11 gennaio sono stati effettuati gli ultimi 600 licenziamenti. E questo nonostante, nei mesi precedenti, un’altra azienda del gruppo, la UTC, avesse ottenuto una commessa da parte dell’amministrazione federale, pari a oltre 2 miliardi di dollari. In vista del prossimo discorso sullo Stato dell’Unione, il primo per il Presidente Trump, che verrà pronunciato il prossimo 30 gennaio, i lavoratori della Carrier di Indianapolis hanno dato vita ad una manifestazione di protesta, guidati da un ex leader del sindacato dei lavoratori dell’acciaio (USW), Chuck Jones, in un evento che si è significativamente definito “Lo stato della classe operaia”. [5]
Jones ha ricordato ai lavoratori presenti che Trump e il suo Vice, Mike Pence, poco prima di assumere l’incarico presidenziale alla Casa Bianca, avevano stipulato un accordo con la Carrier per mantenere a Indianapolis, per almeno 10 anni, i posti di lavoro che si stavano per delocalizzare in Messico. Come controparte di questo accordo, l’azienda ha quindi ricevuto un contributo pari a 7 milioni di dollari in incentivi statali e crediti per la formazione. Nonostante le promesse e l’accordo, quindi, l’azienda già dal mese di maggio del 2017 ha rilanciato i suoi piani di progressiva smobilitazione dello stabilimento di Indianapolis, con l’ultimo licenziamento avvenuto ai primi del 2018, come sopra ricordato. Jones, di fronte alla folla dei lavoratori in protesta, molti dei quali sono stati elettori di Trump nel 2016, ha definito quest’ultimo il vero “nemico dei lavoratori americani”. I lavoratori della Carrier pretendono che Trump si pronunci sul loro caso nel prossimo discorso sullo Stato dell’Unione [6]. Ma non si fanno grandi illusioni.
Questi, e tanti altri, lavoratori americani imparano così sulla propria pelle che non è corteggiando il capitale, offrendo incentivi e agevolazioni fiscali, che si riesce a modificarne le decisioni che sono sempre e comunque basate sulla massimizzazione dei profitti. Se la delocalizzazione garantisce comunque migliori profitti non ci sono incentivi e regalie che tengano, e se invece, di converso, le aziende dovessero decidere di rimanere, il motivo sarà che si saranno ricreate le condizioni per un livello di sfruttamento dei lavoratori che riesca a generare i livelli di profitto richiesti e desiderati da finanziatori, azionisti e dirigenti, cioè dal capitale.
Note:
[1] https://socialistworker.org/2017/11/21/the-tax-cut-weapon-in-their-one-sided-class-war
[2] https://www.cfr.org/blog/did-tax-reform-really-give-walmart-employees-raise
[3]https://www.workers.org/2018/01/16/walmart-lays-off-11000-under-smokescreen/
[4] Benoit Brèville, Amazon: grandes villes et bons sentiments, Le Monde Diplomatique, Novembre 2017 https://www.monde-diplomatique.fr/2017/11/BREVILLE/58080
[5] http://www.peoplesworld.org/article/carrier-worker-to-trump-you-robbed-me-after-i-helped-you-win/
[6] L’articolo è stato scritto in data precedente al discorso all’Unione (ndr)