L’amministrazione Trump giunge alle soglie del suo primo anno di vita con un importante successo politico, il varo di una legge fiscale tra le più inique e classiste della storia americana. Negli stessi giorni il presidente presenta pubblicamente un documento predisposto dalla sua amministrazione, con la supervisione del suo consigliere per la sicurezza nazionale, il generale Mc Master [1].
Nel fascicolo di 68 pagine, frutto di un lavoro durato 11 mesi, sono quattro i concetti chiave contenuti nel primo documento di questo tipo elaborato dal presidente entrato in carica all’inizio del 2017: protezione della patria, sviluppo della prosperità, preservazione della pace attraverso la forza e una nuova spinta all’influenza americana a livello globale. Tutte idee in linea con il motto “America First” più volte ripetuto da Donald Trump nel corso della sua campagna elettorale nel 2016. Cina e Russia sono descritte come “potenze rivali” determinate a sfidare Washington e il suo ruolo di leader a livello internazionale [2].
Vengono quindi ribaditi, e lo fa soprattutto Trump nel suo intervento di presentazione alla stampa, quelli che sono stati i cavalli di battaglia del suo primo anno di presidenza in politica estera. In primo luogo il principio della ”America First” che riprende chiaramente il filo conduttore della campagna elettorale e che, in politica estera, si traduce, per Trump, nel rilanciare la politica di potenza americana, di fronte alla competizione posta da Cina e Russia, definite si’ come potenze “rivali” ma, importante precisazione dello stesso Trump, non “avversarie” [3].
Il rilancio, secondo Trump, deve avvenire in primo luogo con un rafforzamento dell’economia nazionale. Da qui i corollari: sostegno all’industria americana; far prevalere gli interessi degli USA rispetto agli obblighi imposti dai trattati internazionali (leggasi NAFTA); costruzione del muro al confine con il Messico; contrasto alla concorrenza “scorretta” della Cina e delle altre potenze economiche emergenti, anche con la salvaguardia della proprietà intellettuale; necessità di un piano nazionale di adeguamento delle infrastrutture, affidato però primariamente all’iniziativa privata; ed infine le misure fiscali per sostenere l’industria americana, recentemente adottate nell’ambito del “Tax Bill” (legge fiscale, o riforma, anche se di riforma non ha nulla, semmai sarebbe più corretto definirla controriforma) che pochi giorni dopo il Congresso ha definitivamente approvato dopo circa 2 mesi di iter parlamentare [3] [4].
È proprio alla legge fiscale che Trump fa riferimento nel suo intervento di presentazione del documento, avvenuto lo scorso 19 dicembre a Washington [4]. Si tratta infatti del primo vero provvedimento legislativo di successo della sua amministrazione, una legge che è riuscita temporaneamente a compattare la maggioranza repubblicana, dal momento che la riduzione delle tasse, soprattutto a beneficio di imprese e classi benestanti, è sempre stato uno dei capisaldi dell’ideologia e dell’azione di quel partito. Ed infatti la nuova legge introduce una nuova aliquota sul reddito delle imprese, che passa dal 35% al 21% [6], mentre sul piano delle imposte sul reddito degli individui, la revisione delle aliquote va a beneficiare soprattutto i redditi più alti, ma tocca anche diversi settori delle classi medie, sia pur con effetti che svaniranno poi nel corso degli anni successivi [7]. In realtà, nonostante i proclami, i settori che maggiormente beneficeranno di questi tagli sono la finanza, le banche e l’industria immobiliare, cioè quei settori che, apparentemente e populisticamente Trump aveva attaccato nella sua campagna elettorale. Mentre, secondo una fonte assolutamente allineata al grande capitale, come il Wall Street Journal, gli effetti tanto sbandierati a favore dell’industria manifatturiera, che già godeva da tempo di incentivi e agevolazioni fiscali, sono in realtà poco significativi [6].
Di contro, la legge fiscale introduce invece un’importante disposizione che, di fatto, dovrebbe riuscire nell’obiettivo di paralizzare il funzionamento del sistema assicurativo sanitario introdotto dalla precedente amministrazione, la c.d. “Obamacare”, in quanto rimuove ogni sanzione rispetto al mancato rispetto dell’obbligo di stipulare un’assicurazione sanitaria, che è il caposaldo sul quale si basa il funzionamento della Obamacare. Si prevede quindi, come primo effetto, un decremento del numero di polizze assicurative, soprattutto da settori delle classi medie superiori, con conseguente aumento dei premi che graveranno invece su quei settori delle classi proletarie che possono avere convenienza ad attivare l’Obamacare. Anche questo viene considerato dalla cerchia del presidente e, piu’ in generale, dal fronte dei repubblicani, come un successo che finisce con il mettere alle spalle i due precedenti insuccessi registrati quest’anno al Congresso dei progetti di legge di modifica del sistema sanitario e di abolizione dell’Obamacare [8].
Tornando quindi al nuovo documento di strategia di politica estera e sicurezza, gli altri concetti contenuti appaiono in totale continuità con le azioni alle quali abbiamo assistito nel corso di questo ultimo anno. Il forte richiamo agli “stati canaglia”, principalmente Nord Corea e Iran, viene fatto per motivare la necessità di sostegno alla politica nucleare e, più in generale, di adeguamento tecnologico del potenziale bellico USA, anche in termini di cyber security, in questo caso per far fronte alla minacce poste da Cina e Russia. Come si è sopra accennato, queste ultime vengono definite come potenze rivali ma non avversarie, da una parte c’è quindi un richiamo ad una logica da guerra fredda, ma dall’altra Trump si preoccupa di ribadire che intende cercare la convergenza con queste potenze su fronti importanti quali la guerra al terrorismo, ma da posizioni di forza e sempre nel primario interesse degli USA che deve prevalere su tutto il resto [3] [4] [5].
Il documento, come è stato da più parti osservato, sembra un tentativo di sistematizzare e di armonizzare le numerose ed estemporanee uscite ed enunciazioni del presidente nel corso del primo anno del suo incarico, piuttosto che la definizione di una linea politica coerente da trasmettere alla complessa e poderosa macchina dell’imperialismo USA, dal corpo diplomatico alle forze armate, dagli apparati di sicurezza a tutte le altre branche dell’amministrazione coinvolte.
Molti osservatori hanno inoltre notato alcune contraddizioni tra le linee contenute nel documento e le enunciazioni del presidente, anche nel momento della presentazione, individuando in esse il sintomo di una dialettica interna non ancora risolta tra quest’ultimo e la sua cerchia ristretta, da un lato, e gli apparati federali che rappresentano comunque lo strumento indispensabile della sua azione, dall’altro.
In ogni caso, nonostante la corposità del documento, ci sentiamo di condividere il giudizio di molti commentatori, sia del mainstream ma anche di osservatori più indipendenti e antagonisti, nella considerazione che le enunciazioni in esso contenute non permettono di parlare di una “dottrina Trump”, nonostante qualche roboante annuncio da parte di esponenti dell’amministrazione.
Altri commentatori, soprattutto mainstream e di simpatie democratiche, come il New York Times o il Washington Post, hanno cercato in tutti i modi di evidenziare le differenze tra l’amministrazione Trump ed i suoi predecessori, accreditandolo quindi, involontariamente e, a loro modo di vedere, in termini negativi, di un ruolo storico di rottura della tradizione imperialista americana [3] [4].
A nostro avviso tuttavia, per il momento, così come non siamo di fronte ad una nuova dottrina, analogamente riteniamo che non esistano, ad oggi, i presupposti per individuare una marcata discontinuità storica. In primo luogo Trump, fin qui, non ha avuto, né negli annunci né nei fatti, alcun attitudine isolazionista, che alcuni osservatori hanno voluto attribuirgli in campagna elettorale. Il suo richiamo al concetto di “America First”, alla luce di decenni di consolidata tradizione imperialista a livello planetario, non rappresenta infatti una posizione isolazionista, politica che, di fatto, i repubblicani hanno abbandonato già prima della fine della seconda guerra mondiale. Anche il richiamo di Trump alle responsabilità dei propri alleati nel contribuire alla sicurezza garantita, fin qui, dalla presenza di truppe americane sui rispettivi territori, non ha per nulla messo in discussione né l’esistenza e la struttura attuale della NATO, né ha comportato alcun tipo di disimpegno effettivo, anzi [3].
A Trump viene imputata inoltre un’attitudine militarista che sicuramente è nei fatti, ma non va neanche esagerata nel tentativo di dimostrare una discontinuità di fondo con l’amministrazione Obama che invece non c’è stata. Anzi, nel 2011 il budget della difesa era stato persino superiore a quello stanziato nel primo anno di amministrazione Trump [3].
Trump sta dimostrando, come abbiamo già in precedenza evidenziato su queste pagine, un atteggiamento tendenzialmente opportunista, che sa leggere e muoversi nell’attuale dinamica delle relazioni internazionali e dei conflitti imperialisti, cercando di ottenerne dei vantaggi sia in termini di consenso che di salvaguardia di una serie di interessi economici e geopolitici che fin qui ha perseguito con un misto di pragmatismo e spregiudicatezza, ponendosi di fatto in continuità rispetto all’imperialismo USA che abbiamo conosciuto in questa fase storica della globalizzazione capitalistica.
Se si vogliono individuare dei cambiamenti, rispetto alle precedenti amministrazioni, ed in particolare rispetto al doppio mandato di Obama, questi sono sicuramente nei toni, nello stile, nella scelta di alcuni temi più sostanziali (sicurezza, interesse economico) rispetto ad altri ideologici e strumentali che appaiono adesso marginali (diritti umani, democrazia). È evidente anche un più marcato approccio bilaterale ed un sostanziale e più radicale rigetto della diplomazia multilaterale e di una concezione multipolare del mondo, aspetto che non a caso è stata sottolineato nei primi commenti ufficiali usciti da parte dei governi cinese e russo. Le autorità cinesi si sono anche spinte a condannare il documento come espressione di una “mentalità da Guerra fredda” [2].
In linea con questo approccio pragmatico, ed in significativo parallelismo con il documento strategico di politica estera, il varo della nuova legge fiscale permette all’amministrazione Trump, per il momento, di consolidare il proprio consenso in quasi tutti i settori del capitale e delle classi superiori, e rientra a pieno titolo nel rilancio di una strategia imperialista per la quale Trump non ha bisogno di ricorrere ad una vera e propria dottrina, ma può continuare ad affidarsi a slogan e banalizzazioni senza analisi delle implicazioni e, nel contempo, a seguire l’istinto opportunista attraverso il perseguimento degli interessi prioritari per quei settori del capitale USA e dagli apparati interni che continuano quindi ad essere fattori trainanti nel perpetuare l’imperialismo americano nonostante un contesto internazionale in costante mutamento.
Note:
[1] Michael R. Gordon, Trump Plans Security Shift, The Wall Street Journal, 18 dicembre 2017
[2] La Cina contro la nuova strategia di sicurezza nazionale di Trump: “Mentalità da Guerra fredda”
https://www.tpi.it/2017/12/19/cina-usa-strategia-sicurezza-nazionale/#r
[3] Mark Landler e David E. Sanger, Trump Offers Security Policy, Mixing Signals, The New York Times, 19 dicembre 2017
[4] Michael C. Bender, Trump’s Vision: Economy Is Strenght, The Wall Street Journal, 19 dicembre 2017
[5] http://www.peoplesworld.org/article/china-and-russia-hit-back-at-imperial-u-s-security-strategy/
[6] Jim Tankersley e Ben Casselman, Republican Tax Cuts Would Benefit Some Industries More Than Others, The New York Times, 19 dicembre 2017
[7] Siobhan Hughes e Shayndi Raice, Middle Class Gets 10% of Cut, The Wall Street Journal, 19 dicembre 2017
[8] Robert Pear, Without the Insurance Mandate, Health Care’s Future May Be in Doubt, The New York Times, 19 dicembre 2017