La guerra in Siria ha inizio nel 2011 in seguito alla repressione governativa di alcune proteste causate dalle riforme indirizzate alla liberalizzazione economica del paese. Proteste ben presto egemonizzate, come avvenuto anche per le “primavere arabe” di Tunisia ed Egitto, dal partito politico più organizzato, quello della Fratellanza Musulmana, pronto fin dall’inizio a passare dalla protesta alla via armata. D’altronde un precedente tentativo insurrezionale dei Fratelli Musulmani era stato represso dal padre dell’attuale presidente siriano, Hafiz al-Assad, a cavallo tra gli anni settanta e ottanta.
Le posizioni di supporto acritico alla rivolta da parte di diverse formazioni della sinistra, anche radicale, hanno evidenziato tutta la loro astrattezza non cogliendo le reali forze in campo e quale direzione politica prendeva realmente la protesta. Infatti, sebbene la coalizione dell’opposizione avesse al proprio interno anche delle forze laiche, chi realmente muoveva le file dei gruppi armati in Siria erano le forze islamiste. Non a caso alcuni autori hanno sostituito al termine “primavere arabe” quello assai più realistico di “inverno islamico”.
Queste rivolte sono state fin da subito sostenute mediaticamente, militarmente ed economicamente dall’imperialismo occidentale e dai loro alleati regionali. Ciò avrebbe dovuto far riflettere i sostenitori di questi movimenti che si richiamano al marxismo. È evidente che i comunisti non possono che contrapporsi agli interessi del proprio imperialismo, perché ogni battuta di arresto che questo subisce altrove agisce a favore del movimento rivoluzionario nel proprio paese. L’imperialismo occidentale aveva da tempo pianificato la balcanizzazione e distruzione degli stati laici panarabi, trovando una convergenza di interessi con le potenze reazionarie locali interessate a contenere l’influenza iraniana. Proprio per il richiamo al nazionalismo laico arabo il governo siriano è sostenuto nella sua lotta per la liberazione del paese dalle milizie islamiste da una internazionale panaraba [1].
In passato erano stati rovesciati con interventi diretti i governi di Libia e Iraq, mediante la spregiudicata fabbricazione di prove false. La Siria doveva essere il passo successivo: era infatti già stata posta nel 2002 nell’Asse del Male da John Robert Bolton, l’attuale Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, non essendo tollerabile la sua posizione non allineata e di sostegno, con tutte le proprie contraddizioni, al movimento di liberazione palestinese. Sostegno che è stato ricambiato dai palestinesi, i cui principali partiti politici hanno condannato l’aggressione imperialistica alla Siria o, al limite, assunto una posizione neutrale [2]. Unica importante eccezione è stata quella di Hamas, la branca palestinese della Fratellanza Musulmana, che aveva in un primo momento sostenuto la rivolta, per poi cambiare posizione come evidenziato dal recente siluramento di Meshaal.
D’altronde i paesi governati dalla Fratellanza Musulmana, come Turchia e Qatar, erano stati tra i principali sponsor dell’insurrezione armata. Questi paesi avevano un evidente interesse economico in Siria nel passaggio di un gasdotto che collegasse i ricchi giacimenti dell’emirato del Golfo con la porta dell’Europa passando per il paese; tuttavia tale progetto era stato rifiutato da Assad che aveva invece optato per il passaggio di un gasdotto iraniano in concorrenza con il primo progetto.
La strada praticata fin da subito fu quella di aggressione per procura mediante l’armamento prima dell’Esercito Siriano Libero (ESL), a guida turca, e poi delle forze islamiste radicali. Ecco quindi il sorgere dell’ISIS mediante l’invio nel paese della internazionale della Jihad e l’arruolamento di ex-militari di Saddam Hussein, dismessi durante gli anni dell’occupazione americana. D’altronde i pick-up Toyota nuovi fiammeggianti usati dai seguaci del Califfo non potevano arrivare a destinazione senza il consenso e la logistica delle potenze imperialiste e dei loro alleati regionali.
Il governo di Assad deve la propria sopravvivenza al consenso conservato tra la maggioranza della propria popolazione e all’intervento dei propri alleati nell'area, il così detto Asse della Resistenza, un crogiolo di forze antimperialiste che vanno da Hezbollah all’Iran passando per le milizie sciite irachene. Un ruolo importante l’ha giocato anche l’amnistia e la pacificazione offerta a coloro che avevano imbracciato le armi tra le file dei ribelli, nonché il processo di riconciliazione avviato con le forze di opposizione, le quali avevano inizialmente sostenuto la protesta, al fine di dare una soluzione politica alle ragioni del conflitto. È evidente che la soluzione del conflitto non può che essere politica; infatti i numerosi anni di guerra e la distruzione del paese hanno raffreddato gli animi di molti oppositori, che, sebbene non gradiscano il governo Assad, tengono assai alle sorti del proprio paese e non hanno intenzione di consegnarlo alle forze reazionarie islamiste.
Un ruolo determinante nel conflitto l’ha avuto l’ingresso in guerra della Russia, la quale ha messo a disposizione del governo siriano la propria superiorità militare e le migliori abilità nella gestione del conflitto. Il comando integrato russo ha permesso di dare quella razionalità prima assente all’offensiva governativa, liberando numerose sacche dai ribelli, una dopo l’altra, e rendendo disponibili per le successive operazioni militari sempre maggiori forze. Ormai ciò che resta dell’ESL e del Fronte Al-Nusra è confinato unicamente nella sacca a nord di Idlib, dove è insediata anche la coalizione islamista filo-turca [3]. L’assalto finale sembrava imminente, ma la Turchia, mediando con Russia ed Iran, è riuscita politicamente ad arrestare l’offensiva, prendendosi l’arduo compito di risolvere il problema delle frange più estremiste che non vogliono nessuna soluzione politica. Non è detto che la mediazione resista a lungo, ma la maggior parte delle fazioni coinvolte nel conflitto hanno tutto l’interesse ad evitare un bagno di sangue ed una recrudescenza delle tensioni. Sullo sfondo rimane la possibilità di un intervento diretto della NATO qualora si registrasse, da parte dell’Occidente, l’utilizzo di armi chimiche in Siria.
Al di là di ogni visione ideologica sul conflitto siriano, la Russia è intervenuta in Siria non di certo per altruismo ma per difendere i propri interessi. Non si può confondere l’attuale Russia capitalista con l’Unione Sovietica e il campo socialista. L’obiettivo primario era senz’altro quello di mantenere a Damasco un governo amico. Questo proposito sembra completamente raggiunto, essendo ormai del tutto irrealizzabile una rimozione di Assad per una soluzione politica del conflitto. Le basi russe dislocate in Siria, tra cui quella fondamentale di Tartus, unico porto russo direttamente sul Mediterraneo, hanno ottenuto un prolungamento delle loro concessioni, nonché sono aumentate di numero. Quindi anche l’obiettivo di mantenere avamposti militari nell'area è stato completamente conseguito da Putin.
L'obiettivo di impedire la formazione di un focolaio jihadista in Siria, avamposto per la futura destabilizzazione dell’Asia Centrale e della Russia stessa, è stato sostanzialmente raggiunto. Certo una parte rilevante dei quadri jihadisti è stata trasportata dagli Stati Uniti altrove, ma l’intervento militare russo ha impedito l’ulteriore destabilizzazione dell’area. Inoltre il morale delle truppe jihadiste è ai minimi storici e non si riorganizzeranno rapidamente, considerando le sconfitte conseguite anche in Libia per mano del generale Haftar, sostenuto per motivazioni diverse sia dalla Russia che dalla Francia.
La Russia intervenendo direttamente in Siria ha potuto testare in guerra una serie di armi mai utilizzate in un conflitto reale. Ciò ha permesso di correggere gli errori di progettazione rendendo il proprio armamento assai più efficiente. I risultati ottenuti sono stati anche un volano per le vendita di armamenti a paesi terzi, che nel 2017 hanno permesso alla Russia di ricavare 15 miliardi di dollari. Vendita a cui gli Stati Uniti, pur restando i più grandi venditori di armi al mondo, hanno risposto con arroganza e prevaricazione anche nei confronti dei propri alleati, imponendo sanzioni per l’acquisto delle armi russe. Si pensi alle sanzioni minacciate alla Turchia e all’India in risposta all’acquisto dei sistemi di difesa missilistica S-400. Tale comportamento prevaricante è sempre meno tollerato dagli alleati degli Stati Uniti, e a lungo andare potrebbe influire assai negativamente nei rapporti reciproci.
Proprio la maggiore influenza politica acquisita con l’intervento in Siria è stato forse il più importante successo ottenuto dalla Russia. Ciò ha determinato un consistente avvicinamento all’Iran e alla Turchia, anche per i gravi errori politici commessi dagli Stati Uniti. La Russia è tornata ad essere un attore internazionale fondamentale ed è ormai imprescindibile per ogni soluzione politica del conflitto, nonché il principale mediatore delle posizione contrastanti delle potenze regionali; infatti essa si è anche offerta come possibile mediatore delle controversie tra Israele e Iran, nonostante le bravate sioniste.
Il tentativo israeliano di provocare un incrinarsi dei rapporti tra Russia e Siria è miseramente fallito. La Russia ha accusato Israele di essere direttamente responsabile con le proprie mosse provocatorie dell’abbattimento dell’aereo russo Ilyushin Il-20 da parte della contraerea siriana e della conseguente morte dei 15 militari a bordo dell’aereo. La risposta russa non si è fermata a ciò, ma con la consegna degli S-300 e di complessi per la guerra elettronica, ha determinato un consistente miglioramento delle difese siriane, rendendo ogni futura azione sionista contro la Siria assai più complessa e rischiosa. La Russia fino ad oggi era stata molto compiacente verso Israele, consentendo al governo sionista di effettuare sulla Siria oltre 200 attacchi, giustificati con il pretesto della presenza iraniana ai propri confini da eliminare. Ciò era stato reso possibile dal lungo rapporto amichevole che Israele ha con la Russia, risalente ai tempi dell’Unione Sovietica. Ora la Russia sembra essersi stancata delle continue provocazioni, che hanno determinato la morte dei propri militari, e ha deciso che i tentativi israeliani di causare una escalation del conflitto non saranno più tollerati.
L’Occidente è risultato sostanzialmente sconfitto poiché il suo obiettivo di rimuovere Assad, sulla falsariga di quanto fatto in Libia con Gheddafi, non è più raggiungibile. Tuttavia esso ha archiviato un parziale successo nella partizione della Siria. È del tutto evidente che gli americani non andranno via dalla Siria, mantenendo le basi installate nel nord-est, nei territori amministrati dalla coalizione di forze a guida curda, e a sud-est ad al-Tanf. Hanno infatti posto come pretesto della loro presenza l’espulsione degli iraniani dal paese, che non avverrà mai. Analogamente i turchi non sembrano intenzionati a rinunciare facilmente alla zona cuscinetto occupata nel nord-ovest della Siria. Certo l’occupazione prolungata avrà dei costi notevoli, in quanto si sta sviluppando una guerriglia sia nel cantone curdo occupato di Afrin che nelle zone sotto occupazione curda ed americana nella provincia di Raqqa.
Gli Stati Uniti hanno inoltre minacciato la Siria di praticare una guerra economica per rendere la ricostruzione un miraggio. L’ONU ha già recepito le direttive a stelle e strisce sottoponendo gli aiuti per la ricostruzione alla transizione politica. La ricostruzione del paese distrutto dalla guerra è già iniziata ma sarà un processo lungo e costoso; si stima infatti che saranno necessari almeno 400 miliardi di dollari e un tempo tra i 10 e i 15 anni. Non tutti gli alleati statunitensi sembrano condividere la posizione imposta dal capo banda e si stanno muovendo per rientrare nella partita. La parte del leone sarà svolta dalla Cina, che ha la capacità economica per rendere le minacce statunitensi minacce di una tigre di carta. Altri paesi come Russia, Iran e Venezuela parteciperanno alla ricostruzione, mentre le offerte saudite condizionate alla rottura dei rapporti con l’Asse della Resistenza sono state rifiutate da Assad. Il governo siriano, ormai vicino alla vittoria militare, non ha assolutamente intenzione di cedere su questo punto, che è stato una delle cause del conflitto.
Note
[1] Nicolas Dot-Pouillard, La guardia panaraba di Bashar al-Assad, Le Monde Diplomatique, Gennaio 2018
[2] Per un’analisi dettagliata delle posizioni dei partiti politici palestinesi si consiglia l’ottimo documento del 2015 del Comitato del Martire Ghassam Kanafani, che evidenzia bene anche le fazioni coinvolte nel conflitto.
[3] Questa coalizione, Jabhat Tahrir Suriya o Fronte di Liberazione della Siria, si è formata dalla confluenza di numerose formazioni islamiste, da Ahrar al-Sham a Nour al-Din al-Zenki. Queste milizie islamiste hanno avuto il ruolo fondamentale di fanteria nell’attacco turco al cantone curdo di Afrin.