Mentre in Iraq, a Mosul, la bandiera nera dello Stato islamico giace sotto le rovine della moschea di Al Nuri, a Raqqa in Siria si combatte strada per strada per scacciare il Califfato dalla sua ultima capitale. In questo contesto, la questione curda riemerge con forza e assume il carattere di variabile centrale nelle dinamiche politiche del Medio Oriente. E così è perché i combattenti delle YPG (Unità di protezione del popolo) e delle YPJ (Unità di protezione delle Donne) che si battono a Raqqa sono costituite da curdi legati al PYD (Partito dell’Unione Democratica) insieme ai loro alleati arabi e di diverse minoranze etniche delle FDS, le Forze Democratiche Siriane.
Diciamolo sinceramente: la questione curda ora come ora getta in ambasce e in confusione la Sinistra internazionale, frammentandola ancor di più tra i tifosi acritici dell’autodeterminazione dei popoli (in primis quello curdo) e i nostalgici della tradizionale politica estera dell’Unione Sovietica (che andrebbero informati della sparizione dell’URSS avvenuta nel secolo scorso) con i suoi capisaldi intoccabili e “sacri”: la Damasco baatista degli Assad, l’Iran sciita e gli Hezbollah libanesi in qualche modo (controverso) eredi della Sinistra libanese. Sarebbe il caso, pertanto, di abbandonare le posture da sostenitori di una squadra piuttosto che di un’altra e sostituirla con l’analisi della situazione concreta.
Il fatto incontrovertibile è che la Sinistra curda (il PYD appunto, formazione vicina al PKK turco) è stata protagonista (e lo è tuttora) di uno straordinario processo di emancipazione popolare avvenuto nella regione settentrionale siriana della Rojava a partire dal 2011, nel contesto della guerra civile siriana. Ovvero, nell’ambito di un conflitto sanguinoso e settario che ha superato le 400mila vittime e che ha visto l’affermarsi della barbarie dell’Isis e più in generale dello jihadismo islamista, i curdi sono riusciti a mettere in piedi un esperimento di democrazia partecipativa ispirato a valori femministi, ecologisti e di redistribuzione sociale. Un esperimento che ha trovato il suo simbolo più evocativo nell’eroica resistenza della città di Kobane assediata dai tagliagole dello Stato islamico a partire dal 13 settembre 2014. Alcuni vi hanno visto l’avvento di un nuovo socialismo e ovviamente costoro si sono sbagliati: nelle premesse ideologiche del Confederalismo Democratico di Ocalan non sono rintracciabili immediatamente i caratteri di un sistema socialista e nelle stesse potenzialità economiche della Rojava non è pensabile una costruzione statuale (che infatti i curdi rifiutano) con caratteri socialisti. Tuttavia, la democrazia di base praticata al di là di criteri etnici e religiosi, la valorizzazione delle energie e delle risorse femminili, sono caratteri che dovrebbero avere un peso determinante nella valutazione politica della situazione da parte del movimento comunista internazionale.
Il problema è che il movimento di liberazione curdo sottoposto dapprima al tentativo di strangolamento dell’Isis e poi direttamente a quello da parte della Turchia di Erdogan con l’operazione militare “Scudo dell’Eufrate” dello scorso anno, si è sempre più avvicinato e appoggiato all’intervento militare statunitense. In effetti, la copertura aerea assicurata dagli Usa e la presenza di unità militari speciali dell’esercito americano sono probabilmente determinanti anche nella attuale battaglia per Raqqa.
Inoltre, l’atteggiamento del governo siriano di Assad nei confronti del movimento curdo è stato piuttosto altalenante nel corso degli anni di guerra civile. All’inizio è stata messa in atto dal governo siriano un’alleanza di fatto con le YPG-YPJ dinanzi all’aggressività dell’invasione terroristica e jihadista. Poi lo scorso anno è prevalsa la preoccupazione di Damasco dinanzi all’aumentato peso politico e militare dei curdi che ha portato al confronto militare di Hasaka e a un’accettazione dell’intervento militare turco successivo. È realistico pensare che Assad abbia avuto modo di pentirsi di quelle scelte: la Turchia del regime parafascista di Erdogan è ora stabilmente presente e in armi nel nord della Siria.
Anche l’Iran si è contraddistinto, non da ora, per un duro atteggiamento repressivo nei confronti delle aspirazioni dei curdi presenti sul proprio territorio e per un’accentuata avversione verso l’esistenza e il rafforzamento della Rivoluzione politica in Rojava.
Più realistica è sempre stata la politica curda della Russia. Putin sta tentando di svolgere un ruolo di mediazione tra gli altri attori (Damasco, i curdi, l’Iran, la Turchia e gli Stati Uniti) riconoscendo il peso e l’autorità del movimento della Rojava: il PYD non per niente ha aperto lo scorso anno un suo ufficio di rappresentanza a Mosca.
La chiave è proprio questa: se si vuole almeno limitare l’interventismo militare statunitense in Siria e l’aggressività del regime autoritario di Ankara, è necessario riconoscere l’esperimento politico della Rojava democratica e multietnica. I curdi siriani, da parte loro, devono essere coscienti (e certamente lo sono) del pericolo che corre la loro causa se esposta a una prolungata ed esclusiva alleanza con l’amministrazione Trump. L’esempio del governo regionale del Kurdistan iracheno è sotto gli occhi di tutti. L’alleanza con la maggiore potenza imperialistica risulta naturalmente vantaggiosa per un potentato locale a base familistico-feudale, molto meno se si ha l’ambizione di dare voce alle aspirazioni di libertà e di pace dei popoli della regione.
La Siria deve cambiare se vorrà risorgere dopo questa orribile guerra civile impostale dall’alleanza tra le forze più reazionarie della regione e gli imperialismi occidentali. Se la Siria cambierà, tutto il Medio Oriente avrà una possibilità in più per la pace e lo sviluppo dei popoli che vi vivono.