Tutti gli occhi del mondo sono puntati sul possibile conflitto tra Israele e Iran. Il primo aprile gli F-35 israeliani hanno colpito il consolato iraniano a Damasco, uccidendo il generale Mohammad Reza Zahedi e altri ufficiali delle Forze Quds del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica. Israele da tempo accusa l’Iran di essere dietro a Hezbollah, ai gruppi palestinesi, alle milizie irachene scite e agli Houthi. Il generale ucciso teneva i rapporti proprio con Hezbollah. L’Iran ha risposto con circa 300 missili e droni, che avrebbero colpito la base israeliana di Nevatim nella parte nord del deserto del Negev, da cui pare siano partiti gli F-35 che hanno attaccato la struttura diplomatica iraniana, la base aerea di Ramon, nel Negev del sud, e una base sul Monte Hermon nelle alture del Golan, adoperata per le operazioni di intelligence e spionaggio utili per l’attacco al consolato. Secondo Israele i danni sono stati minimi, mentre l’Iran assicura di aver raggiunto tutti i propri obiettivi militari. Sarà impossibile sapere l’esatta entità dei danni, e quale dei due contendenti riporta dati più vicini al vero. I video e le immagini mostrate dagli israeliani mostrano danni di lieve entità, ma non sapremo mai se gli altri danni non siano stati ripresi. Alcune immagini satellitari della base di Nevatim confermano che ci sono stati danni alle piste per gli aeroplani, il che avvalora le tesi israeliane di danni minimi. È certo che la risposta iraniana è stata un attacco simbolico senza obiettivi civili, non mirato ad alzare ulteriormente la tensione nell’area, ma finalizzato a dimostrare le proprie capacità di colpire il territorio israeliano, bucandone le difese missilistiche. Le difese israeliane hanno lavorato notevolemente, anche con il supporto di altri stati, come Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Giordania che hanno intercettato una parte dei missili e droni iraniani. Si stima che la spesa sostenuta da Israele in missili della contraerea sia stata di più di un miliardo di dollari, sebbene una parte dei proiettili iraniani sia passata, dimostrando che l’Iran è in grado di saturare la difesa israeliana per poi colpire gli obiettivi di suo interesse. Pertanto l’operazione iraniana può essere considerata una dimostrazione di forza, finalizzata a mandare un chiaro segnale ad Israele e agli Stati Uniti.
Nei mesi che hanno preceduto questo caldo sviluppo del conflitto latente tra Stato ebraico e Repubblica islamica, l’Iran inutilmente ha tentato di tenersi fuori dal conflitto diretto con Israele, nonostante le continue provocazioni israeliane, che si sono ulteriormente intensificate proprio con lo scoppiare del conflitto con le formazioni combattenti palestinesi nella Striscia di Gaza. Israele ha accusato, in più occasioni, l’Iran di essere dietro alle azioni dei gruppi palestinesi, come Hamas e la Jihad Islamica, e soprattutto alle azioni del 7 ottobre dell’anno scorso, che hanno dato l’avvio alla campagna militare a Gaza. Non è una novità che Israele colpisca gli interessi iraniani in Siria, in spregio al diritto internazionale e nel silenzio degli Stati Uniti e dei loro alleati. L’operazione del 1 aprile rappresenta però un salto di qualità nel conflitto latente. Se fino ad oggi erano stati colpiti leader delle milizie vicine all’Iran o depositi di armi e infrastrutture logistiche per l’invio delle armi a questi gruppi, tra cui Hezbollah, in questa occasione gli israeliani hanno colpito direttamente un ufficio di rappresentanza iraniana in un paese non belligerante, la Siria, ignorando il diritto internazionale, che considera inviolabili le sedi diplomatiche.
Sembra che il governo Netanyahu, in evidenti difficoltà sul fronte interno e la cui campagna a Gaza non stia andando benissimo, abbia deciso di premere l'acceleratore su l'allargamento del conflitto per allontanare da sé le difficoltà che conducono verso imminenti elezioni, che potrebbero vedere una propria sconfitta. Nonostante gli israeliani abbiano danneggiato o distrutto il 35% degli edifici di Gaza e ucciso più di 32000 civili palestinesi, non sono ancora riusciti a piegare Hamas e a liberare il centinaio di ostaggi ancora in mano ai gruppi armati palestinesi. Questo insuccesso della campagna di Gaza, che si sta dimostrando più difficile del previsto sia sul piano internazionale che interno, anche per via degli elevatissimi costi umani, sta amplificando le crepe interne del governo. La protesta dei familiari degli ostaggi non si placa, mentre la pessima prevenzione e gestione dell’operazione palestinese ha aperto contraddizioni tra esercito e governo, che si sono accusati a vicenda dell’insuccesso. Il 2023 è poi stato un anno molto difficile per Netanyahu anche sul fronte interno, in quanto ha visto un ampio movimento della società civile israeliana contro la riforma della giustizia, voluta dal governo. L’opposizione a questa riforma è stata molto forte, tanto che proprio contro questa riforma si è rilanciato il movimento dei refusnik, con molti riservisti che hanno rifiutato di prestare servizio nei territori occupati. L’operazione di ottobre di Hamas è stata provvidenziale per il governo Netanyahu, che in questo modo ha potuto silenziare l’opposizione interna, ricompattando il fronte interno; tuttavia cresce l’isolamento internazionale e il malcontento interno. I guai per Netanyahu rischiano di amplificarsi, poiché l’asse con le formazioni politiche della destra religiosa è a rischio, con la possibile fine dei vantaggi degli ebrei ortodossi rispetto agli obblighi di leva. Una spaccatura con la destra religiosa potrebbe determinare la caduta del governo e nuove elezioni, con l’ex-generale Gantz favorito nei sondaggi; tuttavia un allargamento del conflitto all’Iran potrebbe salvare Netanyahu dalle elezioni anticipate, rendendo per la destra religiosa la fase inopportuna per rompere con il Likud.
A frenare l’accelerata di Netanyahu c’è però l’amministrazione Biden che non vuole assolutamente un allargamento del conflitto all’Iran, almeno fino alle elezioni presidenziali di novembre. La situazione internazionale, con l’Ucraina in pesante difficoltà rispetto all’avanzata russa, rende non auspicabile in questo momento una guerra con l’Iran per gli Stati Uniti, anche se non verrebbero coinvolti direttamente nelle ostilità, sebbene Israele tenterà di coinvolgerli. Non a caso all’indomani dell’attacco iraniano, gli USA si sono affrettati a dichiarare che non parteciperanno a un eventuale attacco di risposta israeliano. Un conflitto con l’Iran potrebbe avere anche pesanti ripercussioni economiche per gli Stati Uniti. L’Iran è perfettamente in grado di bloccare il transito navale nel Golfo Persico, da dove passa il 40% del greggio mondiale, determinando un notevole aumento del costo del petrolio. Non a caso pochi giorni prima dell’attacco, l’Iran ha sequestrato nello stretto di Hormuz una nave mercantile portoghese, la MCS Aries, accusata di essere “legata ad Israele”. Una forte ripresa dell’inflazione potrebbe mettere una pietra tombale sulla possibile elezione di Biden alla Casa Bianca. L’elettorato democratico, in particolare la comunità musulmana, è molto sensibile al tema palestinese, e sono in corso fin dall’inizio della campagna israeliana proteste negli Stati Uniti contro l’attacco a Gaza. Se nel Congresso sono i repubblicani a bloccare il finanziamento del riarmo di Kiev, ad opporsi al finanziamento di Israele slegato da quello all’Ucraina sono invece i democratici. Cresce nel Partito Democratico l’insoddisfazione verso il governo Netanyahu che si sta alienando il consenso internazionale con l’operazione a Gaza, indebolendo l’influenza statunitense sugli stati arabi della regione, la cui popolazione è schierata a favore della causa palestinese.
Proprio l’opposizione delle popolazioni arabe all’aggressione israeliana mette in cattiva luce i governi dell’area che non stanno facendo assolutamente nulla per i palestinesi, quando non sono addirittura in affari con Israele. L’Iran sta abilmente sfruttando questa situazione per aumentare la propria influenza nell'area, conscio che “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”. La Repubblica islamica prima di passare all’azione ha provato a far condannare in sede internazionale l’operazione israeliana, legittimando la propria risposta con l’inerzia dell’ONU. Lo Stato ebraico ha minacciato una rappresaglia, che però è assai improbabile si verifichi nell’immediato, per tenere l’Iran sulle spine. L’attacco fatto nella notte di giovedì alla base di Isfahan è stato meramente simbolico e determinato a salvare la faccia, tanto che l’Iran non ha minacciato rappresaglie. Questo evento non ritengo metterà fine al confronto tra i due stati, che vedrà sicuramente altri tentativi israeliani di alzare la tensione con rappresaglie più sostanziose. Il momento più propizio per Netanyahu sarebbe quello poco prima delle elezioni americane per agevolare il candidato repubblicano, più schierato a favore del suo governo, e dopo aver chiuso la questione di Rafah, la cui invasione di terra è imminente. L’Iran ha avvertito Israele e gli Stati Uniti che in caso di attacco al suo territorio la prossima sua risposta non sarà simbolica, ma molto più devastante di quella della notte tra il 13 e il 14 aprile. Teheran ha inoltre minacciato di colpire gli stati della regione se permettessero a Israele di usare il loro spazio aereo per un attacco contro il proprio territorio. Le minacce iraniane sembrano aver sortito i loro effetti poiché Turchia, Qatar, Giordania e Kuwait hanno negato agli Stati Uniti la possibilità di usare le basi nei loro paesi per attaccare l’Iran. I problemi per gli stati arabi della regione non sono solo di natura militare, sebbene indubbiamente presentino difficoltà molto maggiori rispetto ad Israele nel difendersi da un’eventuale rappresaglia iraniana, ma soprattutto politici. Un’eventuale accondiscendenza a Israele, dopo la mattanza a Gaza, avrebbe serie ripercussioni sul consenso popolare ai rispettivi governi. Sicuramente un attacco all’Iran, ora con la questione palestinese aperta, metterebbe la parola fine per i prossimi decenni alla normalizzazione dei rapporti con Israele intrapresa da diversi stati dell’area, bruscamente interrotta dagli eventi del 7 ottobre. Il piano americano di normalizzare i rapporti tra gli stati dell’aerea, tradizionalmente suoi alleati, ed Israele potrebbe essere messo definitivamente in crisi, sopratutto dopo il veto degli Stati Uniti al riconoscimento dello stato palestinese nella riunione del Consiglio di Sicurezza.