Il Prof. Joseph E. Stiglitz, con quell’aplomb sornione e un po’ dimesso tipico dell’ambiente accademico della Columbia University dove insegna da anni, tiene banco da alcuni mesi negli ambienti accademici newyorkesi e non solo, partecipando a conferenze e seminari per esporre le sue tesi sulla crisi dell’Euro, recentemente pubblicate in un saggio [1] che traccia un’interessante analisi e mette a nudo le debolezze strutturali nonché alcune contraddizioni ideologiche di fondo che, sin dalla sua origine, hanno caratterizzato la costruzione della moneta unica europea, con tutte le conseguenti sovrastrutture istituzionali e finanziarie che ne sono derivate.
Il saggio di Stiglitz è sicuramente di impatto, soprattutto per essere stato capace, se non di aprire, almeno di amplificare un dibattito sul futuro dell’Euro negli ambienti mainstream economici e politici, dove fino a poco tempo fa imperava ancora il dogma della difesa ad ogni costo della moneta unica.
Il dibattito potrebbe apparire, anzi certamente lo è, di più facile accoglienza negli USA piuttosto che in Europa, ma il fatto che a condurlo vi sia, tra gli altri, un premio Nobel è un elemento importante che potrebbe approfondire certe contraddizioni in seno alle classi dirigenti europee.
È evidente che l’analisi di Stiglitz, vista la sua formazione accademica, non parte affatto da premesse marxiane e conduce quindi a conclusioni niente affatto rivoluzionarie, anzi impregnate di quel pensiero liberal tipico delle correnti neokeynesiane, che in questi ultimi anni stanno cercando di recuperare una propria egemonia all’interno del mondo accademico dopo un trentennio dominato dalle teorie monetariste e neoliberiste.
Nella sua analisi Stiglitz parte dalla premessa teorica, centrale in tutta la sua attività accademica, che la fede nel libero mercato come meccanismo superiore in grado di assicurare equilibrio economico e benessere sociale, tipica dell’ideologia neoliberista, è stata storicamente smentita dai fatti, e la vicenda dell’Euro ne rappresenta un esempio emblematico. Stiglitz ribadisce quindi la sua convinzione che il capitalismo, sin dalle sue origini, è intrinsecamente instabile e questa instabilità conduce naturalmente alle sue crisi cicliche.
La tesi centrale del saggio di Stiglitz sull’Euro è che una moneta unica introdotta in un contesto economico e territoriale caratterizzato da profonde differenze e senza un sistema di istituzioni centrali sofisticate e con politiche di accompagnamento armonizzate e solidali tra i vari paesi membri, è stato un errore storico che invece di contribuire all’integrazione europea ed alla convergenza tra i paesi dell’Unione, come nei proclami dei suoi padri fondatori, ne ha di fatto approfondito ed aggravato la divergenza economica e sociale, e quindi anche la coesione politica.
Secondo la ricostruzione storica di Stiglitz, all’origine di quella che lui definisce un’illusione collettiva, vi furono fattori politici e ideologici: erano gli anni successivi al 1989, subito dopo il crollo del muro di Berlino, le classi politiche ed imprenditoriali dell’Europa Occidentale vedevano davanti un’epoca di progresso economico e di definitiva affermazione delle leggi del libero mercato. In questo clima ideologico viene stipulato, nel 1992, il Trattato di Maastricht e viene lanciato l’obiettivo di una moneta unica come strumento e simbolo insieme del sogno di un’Europa Unita sotto il segno del capitalismo e del neoliberismo.
Il difetto d’origine va quindi individuato in una sorta di “fuga in avanti”, ideologica e politica, e questo atteggiamento portò, secondo Stiglitz, i fondatori della moneta unica a trascurare la necessitaà di costruire un sistema di regole e istituzioni adeguato ad affrontare le problematiche che un’unificazione monetaria avrebbe comportato in ragione della profonda diversità economica e politica tra i paesi dell’eurozona.
La situazione europea, per poter giungere alla moneta unica, continua Stiglitz, avrebbe comportato come minimo dei meccanismi di flessibilità e solidarietà. Invece è emersa ancora più stridente la contraddizione tra il principio di sussidiarietà, che demanda la responsabilità delle politiche di convergenza agli stati nazionali, e la centralizzazione della politica monetaria nella BCE.
La stessa visione ideologica ha determinato gli obiettivi, considerati assoluti, della politica monetaria: stabilità dei prezzi e pareggio di bilancio. Determinando, di fatto, l’impossibilità di alcuna politica fiscale, inesistente a livello centrale, e impotente a livello nazionale.
La prova del nove di tutta la costruzione dell’Euro è arrivata con la crisi del 2008. E la risposta fu altrettanto errata: le politiche di austerità. Politiche frutto dello stesso approccio ideologico che aveva motivato i fondatori dell’Euro: un fondamentalismo di mercato, lo definisce Stiglitz, e cioè la cieca fiducia nella capacità di autoregolazione dei mercati. Questo approccio continua tuttora a dominare i governi dell’eurozona ed i sostenitori dell’Euro portandoli, secondo Stiglitz, anche ad un’errata interpretazione della crisi del 2008. I sostenitori dell’Euro ritengono infatti che fino a quel momento la valuta comune aveva determinato effetti positivi, di convergenza delle economie dell’eurozona, in particolare favorendo i flussi di capitali verso le economie considerate allora emergenti (es. Spagna, Irlanda, Portogallo, Grecia). Le cause delle crisi vengono quindi tutte imputate alle perturbazioni esterne, ossia all’instabilità dei mercati finanziari dall’altra sponda dell’Atlantico.
In realtà, sostiene Stiglitz, se è vero che la crisi è partita dagli USA, i suoi effetti sull’eurozona sono stati aggravati proprio a causa dell’Euro e del sistema delle istituzioni monetarie creato con l’Unione Economica e Monetaria. Soprattutto sono state sbagliate le risposte alla crisi, insistendo sul rispetto dei parametri di Maastricht, con una linea di austerità che ha agito in funzione pro-ciclica e non anti-ciclica, impedendo peraltro l’adozione di politiche fiscali espansive proprio nei paesi in cui maggiormente si sono sentiti gli effetti della crisi.
Stiglitz a questo punto traccia un’interessante e corretta analogia tra l’atteggiamento della Troika rispetto ai paesi europei in crisi di indebitamento, con quella adottata dal FMI negli anni settanta e ottanta con tutti quei paesi, soprattutto in America Latina e Africa, in crisi a causa del debito estero. Le ricette imposte, tutte ispirate ad assunti ideologici di stampo neoliberista, hanno sempre fallito nell’obiettivo di determinare la ripresa economica, e, con essa, la capacità di quei paesi di ripagare il proprio debito. Con analoga dinamica di quanto si verificò in quell’epoca, queste ricette hanno prodotto anche nei paesi dell’eurozona sottoposti a tali cure, dei disastri sul piano sociale.
Fin qui l’analisi di Stiglitz. Che si avventura infine anche nell’ipotizzare alcune vie di uscita dalla crisi dell’Euro. In particolare il premio Nobel definisce tre possibili scenari, con il presupposto di partenza che i governi e i responsabili delle istituzioni europee abbandonino l’atteggiamento ideologico fin qui seguito di difesa a spada tratta dell’impianto creato da Maastricht in poi e della cieca fiducia nell’infallibilità dei mercati. In sintesi, i tre scenari vengono definiti da Stiglitz: 1) “più Europa”, 2) “meno Europa” 3) “Europa a più velocità”.
Il primo scenario, secondo Stiglitz, è percorribile solo a patto che si abbandonino, da un lato, le politiche di austerità sostituendole, a livello europeo, con politiche fiscali espansive, investimenti pubblici, flessibilità e solidarietà, e, dall’altro, che si adottino meccanismi come i depositi monetari comuni, che consentano interventi di politica monetaria a compensazione degli squilibri tra i vari paesi membri. Con professione di realismo condivisibile, Stiglitz ritiene molto difficile che questo scenario si possa verificare con le attuali classi dirigenti al potere in Europa.
Il secondo scenario invece comporterebbe, più pragmaticamente, l’uscita di alcuni paesi dalla moneta unica, che rimarrebbe quindi in vigore tra un nucleo di stati più omogenei tra loro. Addirittura, secondo Stiglitz, la misura forse più efficace potrebbe essere proprio l’uscita della stessa Germania, per prima. Questo scenario, analogamente al precedente, non sembra politicamente percorribile al momento attuale, almeno non in termini di pura scelta economica così come auspicata da Stiglitz. Più probabile che possa avvenire, sulla scia di Brexit, come effetto di scelte politiche nazionali dei singoli paesi, senza quindi alcuna pianificazione razionale.
Infine, il terzo scenario ipotizza una sorta di ritorno ad un sistema di valute fluttuanti tra loro in misura controllata, come era il famoso “serpentone monetario” degli anni settanta e ottanta. Ma si tratterebbe chiaramente di un palliativo fondato su una situazione economica e politica molto instabile.
Stiglitz conclude infine, saggiamente a nostro avviso, che se le premesse sulle quali si è basata la costruzione dell’Euro si sono rivelate fallimentari alla prova della storia, la conclusione più giusta sarebbe quella di abbandonare questa esperienza, perché il perseverare potrebbe condurre ad un aggravarsi della situazione. Sarebbe preferibile rilanciare una prospettiva di integrazione europea concentrandosi su obiettivi quali la coesione sociale, la solidarietà fiscale, gli investimenti in infrastrutture, la formazione, l’innovazione. Per perseguire questi obiettivi la moneta unica non è necessaria e quindi può essere lasciata al corso della storia, così come avvenne per il sistema di Bretton Woods, trent’anni dopo la sua adozione, con la fine della convertibilità del dollaro negli anni ’60.
L’evidenza storica dimostra in effetti la correttezza dell’analisi di Stiglitz. Tuttavia non possiamo non evidenziare alcuni aspetti che appaiono trascurati da quest’analisi. La prima considerazione, sempre fondata sull’evidenza dei dati e dei fatti storici, è che l’adozione dell’Euro, consentendo una maggiore mobilità dei capitali interna all’eurozona grazie all’assenza del rischio di cambio, ha facilitato le ristrutturazioni interne al grande capitale finanziario e industriale europeo ed ha favorito i grandi gruppi che sono ovviamente presenti nei paesi economicamente più forti. Dal loro punto di vista quindi l’Euro non e’ stato affatto un errore.
L’aumento della disuguaglianza è un processo avvenuto anche altrove, ed è effetto dell’evoluzione del capitalismo attraverso i processi di globalizzazione. In questo contesto l’adozione dell’Euro può essere inquadrata nel tentativo del capitale europeo, in particolare di quello franco-tedesco-renano (cioè del principale baricentro economico-finanziario europeo), di difendersi e rafforzarsi nel quadro di una competizione globale sempre più spinta. La maggiore mobilità dei capitali all’interno dell’eurozona, facilitata dall’assenza del rischio di cambio, avrebbe facilitato i processi di concentrazione e centralizzazione dei capitali. Questa considerazione non è esplicitata nell’analisi di Stiglitz, anche se in qualche passaggio appare emergere implicitamente.
Ma ciò che più conta è che Stiglitz, dalla vicenda dell’Euro, o caso di studio come lo definisce lui stesso, giunge a conclusioni sostanzialmente conservatrici: ammette che il sistema capitalista, lasciato funzionare liberamente, porta a crisi e squilibri continui, e tuttavia, come soluzione, si inserisce di fatto nel solco del compromesso keynesiano o neo-keynesiano in termini di teoria economica e socialdemocratico in termini politici, della necessità di un capitalismo controllato dalle istituzioni, e di politiche redistributive che vadano a compensare parzialmente gli squilibri sociali e le disuguaglianze sempre piu’ profonde prodotto dal funzionamento del “libero mercato”.
Insomma, come sempre, manca quel passaggio finale che non permette di vedere, o perche’ non lo si vuol fare vedere, che alla base di tutto c’e’ sempre la tendenza del capitale a creare ed accumulare profitto tramite l’estrazione di plusvalore dal lavoro dei salariati e consolidarsi attraverso i processi di concentrazione e centralizzazione. Il sistema capitalista si era trovato, dopo il 1989, il campo libero da ogni ostacolo rappresentato dalla presenza di aree economiche, come quella dei paesi socialisti, non assoggettate all’economia di mercato. La competizione tra i grandi capitali e’ diventata a quel punto veramente globale.
La globalizzazione ha sancito l’entrata del capitalismo nella sua fase transnazionale. Una fase in cui sempre meno gli stati nazionali, e persino le istituzioni sovranazionali come l’UE, possono rispondere efficacemente alle esigenze del grande capitale transnazionale, uscito vincente dalla feroce competizione degli ultimi trent’anni. Ecco quindi che l’Euro viene messo in discussione negli ambienti mainstream, perché ha di fatto storicamente esaurito lo scopo a cui é realmente servito: favorire la concentrazione e la centralizzazione del capitale europeo.
Non é possibile ancora prevedere quali, tra gli scenari descritti da Stiglitz, si verificheranno. Dipenderà da quali settori del capitale europeo e transnazionale riusciranno ad imporre la propria egemonia e su una classe politica e dirigente sempre piu’ assoggettata ai loro interessi. Questo almeno finché le classi subalterne europee non saranno capaci di prendere coscienza della realtà economica e sociale e ad organizzare quindi, a livello politico e sociale, forze autonome e capaci di reale antagonismo.
Note
[1] The Euro: How a Common Currency Threatens the Future of Europe, by Joseph E. Stiglitz. W. W. Norton & Company, New York-London, 2016.