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Il risalire della tensione lungo il 38° parallelo ha riacceso i riflettori dei media internazionali sulla Corea del Nord. Salvo qualche eccezione, tuttavia, a prevalere sono gli argomenti di sempre: minaccia nucleare e (presunte) bizzarrie del regime. Beninteso: la corsa agli armamenti di Pyongyang è un dato reale, così come non mancano aspetti della società e del sistema politico nordcoreano che si prestano a sguardi sbalorditi ed a letture sensazionalistiche. Niente a che vedere, però, con bufale del tipo: tutti i coreani sono costretti a portare i capelli come Kim Jong Un. Ad ogni modo, quando si osservano determinati fenomeni, che siano di natura politico-sociale o culturale, religiosa o di costume, riconducibili a specifiche (e differenti) forme di civilizzazione o di modernizzazione di un paese, sarebbe buona regola togliere dagli occhi le lenti dei propri - altrettanto specifici e differenti - statuti identitari. Così, forse, si riuscirebbe a cogliere perfino quanto c’è di normale in una società oggettivamente lontana dai propri luoghi e dal proprio sentire.
Una “via nazionale” al socialismo
Quante volte abbiamo sentito parlare di “regime stalinista”, ovvero di “ultimo bastione marxista-leninista” a proposito della Corea del Nord? Sempre. Cosa c’è di vero? Poco. Nell’ambito del sistema dei paesi socialisti, la Corea si è sempre distinta per la sua peculiarità, oltre che per i successi conseguiti nel campo dell’industria e dell’agricoltura, della sanità e dell’istruzione, dopo la guerra del 1950-53 che aveva devastato il Paese, distrutto le sue infrastrutture di base, i suoi monumenti, quel che era rimasto dell’apparato industriale lasciato in eredità dai 35 anni di occupazione giapponese [1].
“Dei Paesi che ho visitato, la Corea è uno dei più straordinari”, dirà Ernesto Che Guevara, di ritorno da un viaggio nel 1961. Disciplinamento della società, culto della personalità, militarismo, ma anche una certa sicurezza economica per oltre 20 milioni di cittadini, in un Paese – bisogna ricordarlo - con scarse risorse primarie a disposizione (eccetto il carbone) ed un territorio per gran parte non vocato all’agricoltura. Corea socialista? Sì, ma seguendo una propria “via nazionale”, dove si sono mescolati marxismo-leninismo ed aspetti etico-valoriali (lealtà, onore, eroismo, famiglia, comunità), perfino religiosi (confucianesimo), della cultura tradizionale e popolare coreana. Un aspetto non secondario, per spiegare la “solidità” del regime nell’arco di quasi settant’anni (ideologia e senso comune).
Il Djoutché
Alla base della costruzione del socialismo in Nord Corea ci sono le Idee del Djoutché, simbolicamente rappresentate dalla fiaccola rossa che svetta su un obelisco di 170 metri nel cuore di Pyongyang. Sono le idee elaborate da Kim Il Sung, padre della patria e venerato alla stregua di un dio, indispensabili per capire la Corea del Nord, di ieri e di oggi. Djoutché è una parola composta da due radici, djou, che significa “maestro”, e tché, che sta per “corpo”. “Un corpo che è padrone di se stesso” [2], laddove per “corpo” si deve intendere il popolo (le masse popolari), la nazione. Tre sono, infatti, i pilastri fondamentali di questa dottrina: sovranità politica, indipendenza economica, “autodifesa in materia di sicurezza nazionale” [3]. Il fine ultimo è il Djadjouseung, la piena indipendenza creativa dell’uomo (e/o del popolo-nazione).
Ad influire su questa costruzione ideologica, oltre agli aspetti culturali tradizionali già richiamati, sono state, a ben vedere, le specifiche vicissitudini del Paese, a cominciare dalla dominazione giapponese. Poi, in un secondo momento, la catastrofica guerra con gli Stati uniti (la Corea è ancora formalmente in guerra con gli Usa). Va detto, in ogni caso, che nel 1948, anno della fondazione della Repubblica, proprio in virtù di alcuni postulati ideologici che esaltavano i concetti di “autonomia” ed “indipendenza” nazionale, non era affatto scontato che nel destino di questo Paese ci fosse il modello economico e politico che prenderà piede negli anni a venire. È sufficiente ricordare che la costituzione del ’48 propugnava una democrazia avanzata, fondata sul pluripartitismo e non la dittatura del proletariato [4]. Essa, peraltro, riconosceva “la proprietà privata individuale, costituita dalla terra dalle piccole e medie industrie, dalla imprese commerciali di piccole medie dimensioni, dalle materie prime dai prodotti manifatturieri, dalla rendita e dal risparmio”. Non solo: incoraggiava esplicitamente “la libera iniziativa creatrice dell’economia privata”. In fondo, la “creatività delle masse popolari che fanno la storia” era uno dei concetti chiave del Djoutché: l’uomo, in quanto essere sociale, è padrone di se stesso e “crea” il suo destino. Dunque, se da un lato va chiarito che la direzione in senso socialista dello Stato era implicita nelle scelte politiche della nuova leadership del Paese (un’accelerazione si ebbe dopo la guerra del 1950-53), la totale statizzazione e collettivizzazione dell’economia verrà costituzionalizzata soltanto nel 1972. Chiaro a tal proposito l’art.20 della nuova costituzione varata il 27 aprile di quell’anno: “Nella R.P.D.C. i mezzi di produzione appartengono esclusivamente allo Stato o alle organizzazioni cooperative”.
I “trent’anni gloriosi”
Anche a proposito dell’economia coreana, si può parlare di “trent’anni gloriosi”, quelli che vanno dalla fine della guerra a quasi tutti gli anni ottanta. Anni in cui la crescita è avvenuta a ritmi molto elevati, consentendo al Paese di ricostruire ed ampliare il suo apparato produttivo, sviluppare la sua forza militare, assicurare un certo grado di benessere alla popolazione, ben oltre gli standard che si registravano, nello stesso periodo, nella gran parte dei paesi dello scacchiere asiatico (fino al 1972 l’economia nordcoreana era più sviluppata di quella del Sud). Basti pensare che tra la fine degli anni sessanta e la metà degli anni ottanta la produzione industriale crebbe ad un tasso medio annuo del 16%.
Nel 1984, rispetto al settennio precedente, la produzione di elettricità e quella del carbone raggiunsero, rispettivamente il 78 ed il 50%. Nello stesso periodo, la produzione di acciaio crebbe dell’85%, quella delle macchine utensili del 67%, quella dei trattori del 50%, delle automobili del 20%, dei concimi chimici del 56%, del cemento del 78%, dei tessuti del 40%, dei prodotti alimentari del 120% [5]. Furono costruite dighe (più di 200), scuole, asili nido, case, ospedali (il numero dei posti letto aumentò del 60% tra il 1977 e il 1984, mentre quello dei medici per ogni mille abitanti arriverà a 3 unità, come in Francia, Danimarca, Israele e Finlandia [6]).
Nel complesso, il reddito nazionale aumentò di sei volte (rispetto al 1977), portandosi nel 1986 a 2.500 dollari per abitante. Un confronto: nel 2009, in Paesi come l’Egitto, il Perù, le Filippine, il Paraguay e alcune Repubbliche dell’Asia Centrale, il reddito pro-capite non andava oltre i 1.500 dollari. In tutta l’Asia, la media era di 1.700 dollari per abitante. [7] Si tenga conto, ad ogni modo, che stiamo parlando, per il periodo in esame, di un’economia rigidamente controllata dallo Stato, che provvede, col concorso delle unità produttive, a dettare gli indirizzi e a definire i programmi pluriennali, ad organizzare sia la produzione che la distribuzione di beni e servizi, al quale compete perfino l’erogazione di beni di prima necessità (cibo e vestiario) ai singoli cittadini.
Carestie e crisi di sistema
Questo, fino all’inizio degli anni novanta. La caduta dell’Urss e dei paesi socialisti nell’Europa orientale e, di conseguenza, la fine del regime di “mutua assistenza” tra gli stessi (l’interscambio nel COMECON, sebbene la Corea non ne fosse un membro effettivo [8]), infatti, provocò un crollo verticale dell’economia nordcoreana, vieppiù aggravato da una violenta carestia che si abbatté sul paese proprio in quegli anni, a seguito di una serie di piogge torrenziali e di inondazioni senza precedenti [9]. Sono gli anni delle foto dei bimbi scheletrici che girano su giornali e tv di tutto il mondo, dei visi emaciati di donne e uomini delle periferie urbane e rurali, dei campi alluvionati.
Il sistema va in crisi, non regge più: il numero dei cittadini cui lo Stato non riesce ad assicurare nemmeno il minimo vitale cresce ad un ritmo insostenibile. Mancano cibo e carburante, quest’ultimo necessario anche per approvvigionare le città. La corrente elettrica è garantita per poche ore al giorno, si fermano le macchine negli stabilimenti industriali ed i macchinari negli ospedali. Le cifre ufficiali parlano di 200 mila morti, in Occidente questa cifra viene moltiplicata per dieci. Di certo si trattò di un grande disastro, di una grande tragedia, che le autorità (e il popolo) riusciranno ad addomesticare solo grazie agli aiuti internazionali. E a un nuovo corso che sarà impresso all’economia, con significative “aperture” al mercato.
Riforme col freno a mano
Ritorno allo spirito della costituzione del ’48? Non proprio. Piuttosto una presa d’atto di una situazione determinatasi spontaneamente, nella società, alla quale sono seguiti, nel 2002, alcuni provvedimenti volti a regolarizzarla (e a tenerla sotto controllo). Riecheggiando un concetto chiave del Djoutché, di cui già abbiamo accennato, potremmo dire che il popolo, di fronte all’emergenza, per sfuggire alla fame, ha fatto leva sulla sua “creatività”, in modo da “modificare la realtà e (ri)modellare il proprio destino” [10]. Paradossi. Ovviamente, non stiamo parlando di riforme economiche ad ampio spettro (eviterei di parlare di “mercatizzazione” dell’economia), ma semplicemente dell’ammissione di piccole nicchie di mercato, in cui confluiscono, principalmente, prodotti agricoli in eccedenza, quello che rimane ai contadini dopo aver assolto al proprio dovere nei confronti dello Stato (oggi i contadini trattengono fino al 70% del raccolto).
Tra l’altro, a dimostrazione di come le autorità del regime fossero preoccupate di questo nuovo corso, valga l’esempio della riforma monetaria varata sette anni dopo, nel 2009. Il won (KPW) venne drasticamente svalutato, con effetti tutt’altro che positivi sull’economia e, soprattutto, sul potere d’acquisto dei cittadini. Il ragionamento delle autorità di Pyongyang: le aperture al mercato comportarono la formazione di profitti privati, incompatibili con il socialismo. Non solo: la moneta, da mero strumento di circolazione, diventa una riserva di valore, un bene capace di mantenere il suo valore inalterato per un certo periodo di tempo. Per stroncare sul nascere questa dinamica (tesaurizzazione), l’unica soluzione è la svalutazione della moneta. Se fino a quel momento per un dollaro ci volevano 2,15 won, dopo la riforma ce ne vorranno 150. La conseguenza di questa scelta sarà una contrazione del mercato libero, in forza del crollo del potere d’acquisto delle famiglie. Nei decenni precedenti i coreani del nord avevano conosciuto l’unica forma di inflazione possibile in una economia centralizzata, totalmente controllata dallo Stato: un po’ di fila davanti ai negozi statali, quando l’offerta di beni era insufficiente, al di sotto del fabbisogno reale [11]. Con la svalutazione, per la prima volta, dovranno fare i conti con un aumento generalizzato dei prezzi. Salari fermi, prezzi verso l’alto. Un dato su tutti, per rendere l’idea: un chilo di riso arrivò a costare 5 mila won, a fronte di un salario medio di circa 20 mila won al mese [12].
Indietro non si torna
Il dado, comunque, era tratto. Ben presto la fiammata inflazionistica andrà scemando, i prezzi si stabilizzeranno, l’economia, nel complesso, riprenderà a crescere (dati del Programma alimentare mondiale raccolti in loco confermano che il Paese ha raggiunto ormai l’autosufficienza alimentare, riportandosi ai livelli degli anni '80 [13]).
Interessante, in questo quadro, il ruolo delle donne. Sono loro le principali protagoniste del nuovo corso nazionale (spesso anche il barbiere è donna!). Più “libere” dei cittadini maschi, che per la maggior parte sono addetti dell’industria, del settore militare, dell’agricoltura statale, le donne, spesso registrate come casalinghe, sono state le pioniere del commercio al dettaglio di prodotti agricoli, anche quando questo era ancora illegale, e di quello transfrontaliero con i vicini cinesi.
Quest’ultimo fenomeno, in particolare, ha consentito a chi ne è stato artefice di portare a casa valuta pregiata (yuan e dollari), quanto mai utile per far fronte ai bisogni della propria famiglia e per sviluppare ulteriormente la propria attività, sebbene dal 2003 l’unica moneta straniera ufficiale, ammessa, fosse l’euro. È da qui che inizia il cambiamento, prima spontaneo, di necessità, poi governato, che sta modificando il volto della Corea del Nord. Rapidamente, “con lo spirito di Chollima”, come si direbbe laggiù [14]. Dal piccolo contrabbando di frutta e verdura si è arrivati alla gestione profittevole da parte di privati di miniere e industrie, di ristoranti e parrucchieri, che, tuttavia, rimangono pur sempre di proprietà dello Stato. Le nuove imprese create con capitali privati, invece, vengono registrate come aziende di Stato, ma, di fatto, appartengono a chi le ha messe in piedi. Come nel caso delle imprese di trasporto, sempre più numerose da qualche anno a questa parte, un settore in rapida espansione.
Uno dei problemi che ha afflitto il Paese nel recente passato, come abbiamo visto, è stato quello del collegamento tra centro e periferia, che ha pregiudicato l’approvvigionamento alimentare delle città nel momento di maggiore crisi del Paese. Ora questoproblema è statoquasi del tutto risolto, grazie a quei contadini che, investendo i loro risparmi nell’acquisto di un camion o di un trattore di fabbricazione cinese, stanno integrando il deficitario sistema di trasporto pubblico. In sintesi: tra gestioni “privatistiche” e nuove imprese, per lo più individuali, le stime più attendibili parlano di un 40% della popolazione coinvolto in questa speciale economia di mercato.
Opportunità e problemi
A partire dal 2010-11, soprattutto nella capitale, ma anche nelle altre città, i segni di questo cambiamento, e del miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini, iniziano a diventare molto palpabili. Nuovi negozi, ristoranti, scaffali pieni, automobili (in Corea del Nord c’è una casa automobilistica, la Pyeonghwa Motors, che fino al 2012 ha prodotto anche alcune vetture su licenza Fiat) e biciclette elettriche, cellulari, una varietà di merci mai vista prima.
Oggi l’80% dell’approvvigionamento di beni di prima necessità passa dai mercati privati. I mercatini periodici (Golmikiang) sono ormai tollerati e, sotto sotto, incoraggiati. Crescono pure gli investimenti esteri (sono ormai decine le aziende europee che hanno investito in Nord Corea in questi anni, bilanciando il declino delle vecchie “zone economiche speciali” sorte sulla base di investimenti cinesi e sudcoreani [15]), nonostante l’embargo americano.
Gran fermento anche nel settore delle costruzioni. Dal 2012 ad oggi, nella sola Pyongyang, sono sorti 18 nuovi grattacieli di 50 piani l’uno e sono stati costruiti migliaia di nuovi alloggi per i cittadini. Tra questi, quelli riservati a tecnici e operai coinvolti nella costruzione di veicoli spaziali Unha (Unha Scientists Street) e di satelliti Kwangmyongsong (Wisong Scientists Street) [16]. Non solo appartamenti, comunque. Nello stesso periodo sono state realizzate anche nuove opere pubbliche di un certo rilievo, come il Mansudae People's Theatre e lo spettacolare parco acquatico Munsu, l'aeroporto Sunan (è stato ristrutturato e ammodernato)e l’avveniristico Centro di Scienza e Tecnologia a forma di atomo, il modernissimo ospedale pediatrico della capitale.
Dove prende i soldi Kim Jong Un per queste realizzazioni? Se l’economia di questo Paese è un colabrodo, com’è possibile che i suoi dirigenti possano destinare, contemporaneamente, tante risorse allo sviluppo di nuove e più sofisticate tecnologie militari, al potenziamento e all’ammodernamento dell’edilizia residenziale e sanitaria, alla scuola, all’aumento delle strutture per lo svago dei cittadini? Alcuni osservatori propendono per una lettura che tenga conto del ruolo dei “nuovi ricchi”, detti donju (padroni del denaro), coloro che hanno saputo approfittare delle “riforme” dei primi anni duemila: collaborazione finanziaria con lo Stato in cambio di maglie più larghe per le loro attività, compresa quella di compravendita dei “diritti di residenza”, un fenomeno in crescita secondo molti analisti [17].
In realtà, negli ultimi tre anni si è assistito ad un incremento importante della spesa statale per nuove infrastrutture, che va da un +4,3% nel 2014 ad un +13,7% nel 2016. Dati da leggere insieme a quelli sull’andamento del Pil (+3,9% nel 2016, il più alto degli ultimi 17 anni, secondo la Bank of Korea) e della bilancia commerciale, più dinamica che in passato. L’interscambio con la Cina – principale partner economico del Paese – nel 1999 valeva appena 0,37 miliardi di dollari, ora tocca i 6 miliardi. Più facile riconoscere che l’economia va meglio, quindi, con conseguente espansione del bilancio statale (nuove e maggiori entrate), che cercare risposte in chissà quali inconfessabili intrecci tra burocrati, donju, contrabbandieri, affaristi locali e stranieri. Senza trascurare il fatto che il calcolo dei costi di realizzazione di un’opera in un paese come la Corea del Nord non può essere fatto come per un qualsiasi paese capitalista. A parte l’utilizzo di materie prime provenienti da stabilimenti e miniere statali (il paese è un grande produttore di cemento), bisogna considerare il lavoro civile che svolgono i soldati e quello “volontario”, degli studenti e dei giovani della Lega della Gioventù, l’organizzazione giovanile del partito.
I principali problemi di questo nuovo corso si chiamano: crescita della disuguaglianza, disparità nell’accesso ai beni di consumo, allargamento della forbice tra città e campagna. Per un paese capitalista niente di strano, per i coreani una situazione del tutto sconosciuta fino a due decenni fa. Lo Stato, con i suoi prezzi simbolici, non è in grado di soddisfare tutto il fabbisogno di prodotti alimentari e di prima necessità. Ma al mercato semiufficiale (Golmikiang) alcuni beni possono arrivare a costare anche 100 volte tanto [18]. Un problema ben presente nei documenti ufficiali del governo e del partito, dai quali traspare la consapevolezza che lo Stato dovrà fare di più nei prossimi anni nel settore alimentare.
In occasione dell’ultima sessione del parlamento (aprile 2017), il primo ministro Pak Pong-ju, oltre che sulla “scarsità acuta di elettricità”, che imporrà un aumento della produzione di carbone, nuove e più efficienti centrali idroelettriche ed un’espansione della produzione di energia da fonti alternative [19], si è soffermato sulla necessità, ora che l’autosufficienza cerealicola è stata di nuovo raggiunta, di migliorare lo standard di vita dei cittadini, aumentando la diversità e la qualità dei prodotti disponibili per il consumo di massa, “a cominciare da carne, latte, frutta, funghi e verdure” [20].
Dove va la Corea del Nord?
Nel complesso, parliamo di un Paese, che, nonostante l’isolamento e l’embargo, al netto delle necessità del sistema di difesa (la quota del bilancio statale destinata alla difesa è pari al 15,8% [21]), sta molto meglio che nel passato, soprattutto recente, e continua ad investire molto nella ricerca e nella scuola, nella sanità, nel futuro dei giovani. Alcuni esempi: Il numero di medici e di posti letto ospedalieri per ogni mille abitanti nel 2003 era rispettivamente di 3,29 e 13,2 (in Corea del Sud era di 1,96 e 12,3 nel 2008), numeri sovrapponibili, e in alcuni casi perfino superiori, a quelli di alcuni paesi occidentali (in Germania è, rispettivamente, di 3,53 e 8,17) [22]. La speranza di vita alla nascita (70 anni) è più bassa che nei principali paesi occidentali, ma in linea e, in alcuni casi, superiore a quella di alcuni, importanti, paesi asiatici.
La spesa per l’istruzione e la cultura (e le arti) occupa, rispettivamente, il 9,2 e il 6,8% del bilancio statale (in Italia nel 2014 era del 7,9 e 1,4%), a testimonianza di un’attenzione particolare per le future generazioni. Recentemente, l’educazione obbligatoria, interamente gratuita, è stata portata a 12 anni (era di 11 anni), tra scuola elementare, media e superiore, con relativo incremento della spesa per l’edilizia scolastica e l’acquisto di computer, software, nuove apparecchiature meccaniche e di precisione. La scuola e i giovani. Forse è proprio da qui che bisogna partire per comprendere quanto sia reale il consenso verso il regime e il nuovo leader, il “Brillante compagno” Kim Jong Un, e dove sta andando la Corea del Nord.
Sebbene i toni appaiano più accesi, lo scontro con l’America di Trump fa tornare in mente quello con Bush all’inizio degli anni duemila. Un film già visto, comunque uno scenario pericoloso. Dietro l’escalation militare, nondimeno, c’è un Paese in movimento, con più opportunità, più ricchezza e, entro i limiti del sistema, più libertà. Tra il 2010 e il 2012, un professore di storia australiano, Stewart Lone, ebbe l’opportunità di insegnare inglese in due scuole di Pyongyang. Leggendo il suo bel racconto di quell’esperienza, estremamente umano, mi hanno colpito tre passaggi, che racchiudono a mio avviso il senso di quel che sta accadendo da quelle parti [23]. Il primo: “I ragazzi amavano ascoltare le storie personali e, quando li invitai a raccontarmi dei loro eroi molti parlarono della madre”. Il secondo: “Mentre facevamo una passeggiata in centro, proposi a Maestro Kim di entrare in un negozio che vendeva un po’ di tutto: cibo bevande, arredamento, grandi e piccoli elettrodomestici. Mentre davamo un’occhiata agli oggetti in vendita, Maestro Kim mi disse che il giorno dopo sarebbe stato il compleanno di Manager Kim. Proprio in quel momento, Manager Kim stava accarezzando una bottiglia di Chivas Regal e commentava ad alta voce: “Yes, Chivas Regal – very good, very fine!”». Il terzo: “Tutti i ragazzi nella mia classe avevano un computer a casa. Giocavano a video-game, e il gioco preferito era FIFA World Cup. Quando andavamo in gita molti portavano macchine fotografiche digitali e tanti ragazzi avevano il cellulare. La differenza è che i giovani di Pyongyang non sono schiavi delle mode, non chiedono di avere l’ultimo modello di un oggetto per buttare via l’acquisto dell’anno precedente”.
Il peso sostenuto dalle donne durante la crisi e il loro ruolo attuale nella società; la maggiore disponibilità di beni di consumo, compresi prodotti occidentali e griffati che però non sono alla portata di tutti; la “normalità” (e la vivacità) dei bambini, dei giovani, degli studenti, che però (ancora) non sono sopraffatti dalla cultura consumistica. La nuova Corea del Nord in tre scatti. Un Paese sui generis, ma non l’inferno che in tanti si affannano a dipingere.
NOTE:
[1] Tra il 1950 e il 1953, gli aerei statunitensi sganciarono oltre 600 mila tonnellate di bombe sulla parte settentrionale della penisola, 100 mila in più rispetto a tutte le bombe sganciate nell’area del Pacifico durante la Seconda guerra mondiale. Tra queste oltre 30 mila bombe al napalm.
[2] Dino Fiorot, Il sistema politico della Repubblica popolare democratica di Corea (R.P.D.C.), CEDAM, Padova, 1994
[3] Kim Jong Il, Sul socialismo coreano, Laboratorio politico, Napoli, 1994.
[4] All’art. 13 della costituzione del 1948, comma 2, si legge: “Il cittadino può organizzare partiti politici democratici, unioni sindacali, organizzazioni cooperative e associazioni sportive, culturali, tecniche, scientifiche, ed ha il diritto di parteciparvi”.
[5] Dino Fiorot, Il sistema politico della Repubblica popolare democratica di Corea (R.P.D.C.), CEDAM, Padova, 1994
[6] Fonte: CIA (Central Intelligence Agency) World Factbook
[7] World Bank, World Development Indicators, anno 2009
[8] Consiglio di mutua assistenza economica (abbreviato COMECON), istituito nel 1949 e sciolto nel 1991.
[9] Il periodo più duro è quello che va dal 1995 al 1997, ma gli effetti della carestia si faranno sentire anche negli anni avvenire, per una buona parte degli anni duemila.
[10] Kim Jong Il, Sul socialismo coreano, Laboratorio politico, Napoli, 1994.
[11] John Kenneth Galbraith definì questo fenomeno «inflazione socialista».
[12] Piergiorgio Pescali, Corea del Nord: quale società lascia Kim Jong Il? (Http://pescali.blogspot.it/).
[13] Food and Agricultural Organization, World Food Programme, Crop and Food Security Assessment Mission to the Democratic People’s Republic of Korea, November 28, 2013, http://documents.wfp.org/stellent/groups/public/documents/ena/wfp261353.pdf
[14] Chollima è un cavallo alato imprendibile della mitologia coreana. La metafora fu coniata da Kim Il Sung nel 1956 per incoraggiare il lavoro di ricostruzione del Paese, dopo le distruzioni subite durante la guerra.
[15] Per il 2017, i ricavi delle zone economiche speciali dovrebbero crescere solo dell'1,2 %, molto meno del 4,1 % dello scorso anno.
[16] Oliver Wainwright, The Pyonghattan Project: How North Korea’s Capital Is Transforming Into a ‘Socialist Fairyland’, Guardian, September 11, 2015.
[17] In Corea del Nord non è ammessa la proprietà della casa, quindi il mercato immobiliare riguarda il diritto a risiedervi. È come se in un paese capitalista anziché vendere la “nuda proprietà” venisse venduto il “diritto di usufrutto”.
[18] Piergiorgio Pescali, In Corea del Nord, «popolare» grazie al mercato, Il Manifesto, 12 maggio 2017
[19] L’obiettivo è quello di una riduzione significativa nei prossimi anni della dipendenza dalla importazioni di petrolio.
[20] Ruediger Frank, The North Korean Parliamentary Session and Budget Report for 2017, http://www.38north.org, april 28, 2017
[21] Dopo la morte di Kim Il Sung, nel 1994, la priorità assegnata allo sviluppo della capacità difensiva diventa un principio ideologico: il “Songun” (Prima l’esercito). In base a tale principio le forze armate diventano ancora di più il fulcro del potere politico della Repubblica ed hanno assoluta priorità nel bilancio statale.
[22] Fonte: CIA (Central Intelligence Agency) World Factbook.
[23] Stewart Lone, Pyongyang Lessons: North Korea from Inside the Classroom, CreateSpace Independent Publishing Platform, 19 aprile 2013.