Trump e il cesarismo regressivo

La pretesa statunitense di esportare la democrazia è ideologica e nasconde la volontà di imporre la propria democrazia, quella per il popolo dei signori.


Trump e il cesarismo regressivo

Gli Stati Uniti, a forza di “esportare la democrazia”, hanno finito per rimanerne privi. Peraltro, fin dalle sue origini, la democrazia degli Stati Uniti è stata essenzialmente una democrazia per il popolo dei signori. Sin dalla guerra d’indipendenza, una delle rivendicazioni principali degli insorti era la possibilità di proseguire la colonizzazione con il conseguente genocidio dei nativi, cui aveva posto un limite, intollerabile per i coloni in rivolta, il re d’Inghilterra. Così, appena conquistata l’indipendenza, la condizione degli amerindi è divenuta disperata, non essendoci più limiti all’espansionismo genocida della “democrazia” per il popolo dei signori statunitense. 

Senza dimenticare che alcuni dei più importanti esponenti della guerra per l’indipendenza nazionale erano proprietari di schiavi e non a caso quasi tutti i primi presidenti della storia degli Stati Uniti saranno proprio proprietari di schiavi. Tanto che anche nelle più “democratiche” proclamazioni, ai tempi della lotta per l’indipendenza, non vi sarà mai spazio per la questione dell'emancipazione della schiavitù. Su tale questione o si stende un velo pietoso o al massimo si mira a una regolamentazione dello schiavismo. In ogni caso, anche per i “democratici” padri della patria, non solo i popoli originari, ma tutti gli schiavi erano “naturalmente” esclusi dalla democrazia per il popolo dei signori. 

Allo stesso modo, dalla “democrazia” erano escluse le donne, anch’esse, come schiavi e amerindi, non riconosciute come esseri umani a tutti gli effetti, ma come esseri sostanzialmente subumani. Discorso analogo per i coolies cinesi, per cui gli emigrati asiatici erano generalmente ridotti a uno stadio di completo asservimento ed erano “naturalmente” esclusi dalla democrazia per il popolo dei signori.

In altri termini, la democrazia moderna sorta negli Stati Uniti poco si differenziava dalla democrazia ateniese, dal momento che era una democrazia in primo luogo per padroni di schiavi, maschi, caucasici e possidenti da cui, al contrario che in Grecia, non erano esclusi i non nati nella polis, ma erano tagliati fuori proprio i nativi. Inoltre la “democrazia” americana non supera mai realmente le tre grandi clausole di esclusione liberali, nei riguardi delle donne, delle “razze inferiori” e dei lavoratori poveri

Peraltro, proprio al contrario dei giacobini francesi, gli statunitensi saranno i più fieri nemici degli afroamericani emancipatisi dalla schiavitù a Haiti. Senza contare che, proprio il partito democratico, a differenza di quello liberale, era il più strenuo difensore della schiavitù, in questo caso come istituzione indispensabile a tenere uniti i padroni di schiavi per meglio continuare a dominare sugli afroamericani, gli amerindi, le donne, i coolies cinesi e i più poveri lavoratori immigrati

Peraltro anche le radici calviniste della democrazia statunitense ne facevano una democrazia per la sola comunità dei fedeli che escludeva non solo atei, esponenti di altre religioni, ma anche i fedeli di altre confessioni cristiane, a partire dai cattolici. Così ebrei, cattolici, per non parlare dei musulmani, sono per moltissimo tempo rimasti cittadini di serie B.

Inoltre, non bisogna mai dimenticare che i princìpi democratici della Prima costituzione confederale, furono quasi subito rovesciati da un colpo di Stato istituzionalizzato dei cittadini più abbienti che, temendo che nei singoli Stati i lavoratori immigrati potessero, crescendo di numero, mettere in questione la democrazia dei signori, la trasformarono rapidamente in una repubblica presidenzialista in cui il capo di Stato aveva più potere dei monarchi europei e il parlamento perdeva sempre più d’importanza. 

Gli Stati Uniti furono anche gli alfieri della difesa della schiavitù in epoca moderna, arrivando ad aggredire imperialisticamente il Messico e a occuparne tutta la zona nord, al confine con gli Usa, in quanto la rivoluzione anticolonialista messicana aveva abolito la schiavitù. Tanto che, fino alla metà degli anni Sessanta, gli afroamericani rimarranno di fatto esclusi dal diritto di voto

Peraltro ancora oggi – visto l’enorme numero di afroamericani che, a causa di una condanna hanno perso il diritto di voto e considerate le sistematiche campagne portate avanti dai governatori repubblicani per impedire di fatto ad afro discendenti e ai lavoratori più poveri di votare – tale esclusione è ancora in parte in vigore.

Senza contare che, sempre più spesso, tende a vincere le elezioni il candidato che, come Trump, riceve il numero minore di voti popolari, quasi tre milioni meno di HIllary Clinton. Discorso analogo vale per il senato dove gli Stati più popolosi che votano democratico hanno lo stesso numero di rappresentanti dei “borghi putridi” degli Stati del Midwest con un numero limitatissimo di elettori che votano a destra. Tanto più che i governatori repubblicani ritagliano costantemente i collegi elettorali, per dare meno rappresentanza alle popolose città che votano democratico, rispetto alle spopolate campagne che votano a destra

Peraltro, visti i poteri enormi di cui gode il presidente, per dirla con il padre della democrazia moderna Rousseau, la democrazia è reale solo una volta ogni quattro anni, nel momento in cui si mette una croce su un foglio e il modo in cui vota la popolazione statunitense è, generalmente, quanto di meno democratico sia immaginabile.

Pensiamo all’ elezioni di un presidente spudoratamente imperialista, oligarca, razzista e sessista come Trump, di un individualismo egoista estremo, che non solo è stato eletto presidente nelle penultime elezioni, ma dopo aver governato nel modo più sfacciatamente antidemocratico ha ricevuto quasi settantacinque milioni di voti, risultando nelle scorse elezioni il secondo candidato più votato di sempre. Per altro è stato sconfitto da un esponente “democratico” dell’oligarchia, ossia a contendersi la decisiva presidenza degli Stati Uniti vi erano due candidati, al solito, espressione dello stesso partito oligarchico, ossia quanto di più distante dalla democrazia, che significa potere delle masse popolari.

Del resto, se dal punto di vista del marxismo non esiste una pura democrazia non classista, la pretesa statunitense di esportare la democrazia è ideologica e nasconde la volontà di imporre la propria democrazia, effettivamente reale solo per chi è parte della classe dominante, mentre ne sono ancora oggi completamenti esclusi gli afroamericani, i popoli originari o i più recenti immigrati latinos, nei confronti dei quali il sistema statunitense è una forma di dittatura delle classi possidenti. Non a caso, come ricordava Fidel Castro agli statunitensi – che gli rimproveravano la mancata apertura al sistema multipartitico – nel sistema degli Usa. si confrontano due fazioni di uno stesso partito, quello della borghesia.

Ora, la reale novità introdotta dalla presidenza Trump e dai suoi comportamenti dopo la sconfitta al parlamento – fino all’assalto a Capitol Hill dei suoi supporters – non rappresenta la presunta crisi della democrazia statunitense, che in quanto tale non è mai esistita, ma la profonda crisi della democrazia borghese che costituisce, da sempre di fatto, una dittatura nei confronti delle classi subalterne e non possidenti. In altri termini, con Trump è venuta meno anche la democrazia interna alla classe dominante, funzionale alla sua egemonia a livello internazionale e sulle classi subalterne. 

Questo spiega come diversi uomini politici ultra conservatori abbiano pesantemente criticato questa attitudine “antidemocratica” di Trump, in quanto mette in discussione la necessaria unità della classe dominante per poter fare fronte comune contro le classi subalterne e contro i paesi antimperialisti. Questo spiega anche perché diversi sostenitori dello Stato statunitense, pur decisamente di destra, hanno preferito sostenere alle elezioni Biden, che si è costantemente presentato, al contrario di Trump, come un presidente “unitario”, ossia in grado di tutelare gli interessi delle classi dominanti nel loro insieme, rispettando le gerarchie al loro interno e promettendo, in politica estera, di difendere – al contrario di Trump – gli interessi dei paesi imperialisti nel loro complesso, accrescendo l’aggressività verso i paesi antimperialisti. Dunque, al contrario di quanto sostengono persino gli esponenti della sinistra radical in Italia, a essere entrata in crisi non è la fantomatica democrazia americana o l’antidemocratica presunzione di esportarla, con ogni mezzo necessario, all’estero, ma è la democrazia formale borghese. Anzi sarebbe decisamente più corretto parlare di liberaldemocrazia formale borghese, in quanto il sistema statunitense non ha certo i tratti della democrazia diretta, ma piuttosto nasce da un compromesso imposto alle classi dominanti liberali che, pur mantenendo il loro sistema fondato sulla delega della rappresentanza, hanno dovuto accettare, almeno formalmente e per mantenere l’egemonia sui ceti subalterni, la parola d’ordine democratica del suffragio universale. 

Per altro, non a caso, persino ora che l’attitudine contraria alla democrazia anche all’interno della classe dominante è emersa nel modo più sfacciato e mentre per salvare le apparenze gli esponenti del suo stesso partito si stracciano le vesti e reclamano a gran voce l’impeachment, Biden non fa altro che gettare acqua sul fuoco e minimizzare, pur di non accentuare lo scontro interno anche con i settori più apertamente reazionari della classe dominante. Anzi Biden non fa altro che parlare della necessità di ricostruire l’unità e di voler essere un presidente non di parte, ma il più possibile unitario, un presidente di tutti. In tal modo, pur lasciando per sottinteso che l’unità di cui si fa portavoce è solo l’unità fra la grande borghesia e gli imperialisti, sottolineando costantemente di voler essere il presidente di tutti, assume in modo più o meno consapevole una posizione antidemocratica, visto che la democrazia nasce proprio in opposizione e in lotta contro l’oligarchia. Per altro Biden è preferito a Trump dai sostenitori dello Stato profondo (imperialista) statunitense, in quanto non utilizza le posizioni populiste tipiche della destra sociale di Trump, ma porta avanti la classica posizione liberale filo-oligarchica. Non è, dunque, un caso che paradossalmente sia proprio il miliardario Trump a rappresentare, agli occhi dei settori più reazionari della piccola borghesia, del sottoproletariato e persino del proletariato totalmente privo di coscienza di classe, il candidato anti establishment.

Proprio, perciò, nel momento decisivo in cui si sarebbe dovuta certificare la vittoria di Biden, a scendere in piazza sono stati esclusivamente i settori più reazionari della popolazione statunitense, mentre non vi sono state mobilitazioni a difesa del risultato del suffragio universale, sebbene fossero state sempre chiarissime le intenzioni di Trump di non prenderlo in considerazione nel caso non fosse stato favorevole ai suoi interessi. Del resto, mentre Trump ha fatto costantemente appello alla mobilitazione dei settori più reazionari della popolazione, al contrario Biden ha fatto di tutto per evitare la mobilitazione degli stessi “sinceri democratici”, proprio per sottolineare la sua fedeltà al principio liberale e antidemocratico della delega del potere ai “professionisti” della politica.

Egualmente paradossale è il fatto che, a dover temere il contatto diretto con la popolazione in mobilitazione, non sono i repubblicani che hanno sostenuto sino all’ultimo le posizioni spudoratamente bonapartiste di Trump, ma coloro che non si sono sentiti di difenderlo nella sua messa in discussione della democrazia all’interno della classe dominante. Non è, dunque, un caso che negli Stati Uniti sono definiti liberal i rappresentanti della sinistra, mentre il populismo, il libertarismo e persino l’anarchia sono generalmente espressione di settori oltranzisti della destra.

Per altro niente di più sbagliato sarebbe considerare queste problematiche come tipiche dei soli Stati Uniti ed estranei ai paesi europei. Quasi che queste tendenze dei settori della destra a un cesarismo regressivo fossero l’eccezione e non piuttosto la regola del capitalismo imperialista in crisi di sovrapproduzione. In effetti la politica populista filo-imperialista, funzionale alla formazione dell’aristocrazia operaia, è un’invenzione dei conservatori inglesi, mentre il sistema liberal-democratico dotato di un sedicente “Stato sociale” è una “invenzione” dello Junker Bismarck. Per altro lo stesso Napoleone III, prototipo della deriva bonapartista, aveva esordito restaurando la “democrazia”, ovvero il suffragio universale, dopo che i liberali lo avevano oligarchicamente abolito.

15/01/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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