Contesto
La controffensiva del capitale alla fine degli anni ’70, dopo un periodo di generalizzate conquiste della classe lavoratrice e uno spostamento degli equilibri politici a essa favorevole, si è espressa attraverso le forme di un intenso processo tecnologico, con l’introduzione massiva di innovazioni riguardanti l’automatizzazione e l’informatizzazione del processo produttivo.
Come noto, tutto ciò ha condotto alla frammentazione del modello fordista, e alla sua ricomposizione in un’organizzazione reticolare, la quale, rendendo meno necessaria l’unità fisica dei fattori produttivi, è andata a incidere profondamente sulla capacità di lotta delle organizzazioni dei lavoratori, che di quella centralizzazione (non solo produttiva, basti pensare al correlato processo di urbanizzazione), erano interfaccia speculare.
Tale dinamica ha condotto a una parcellizzazione della forza lavoro. La coscienza unitaria sviluppatasi con le lotte vittoriose dei tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale, è stata lacerata, frapponendo tra i lavoratori di una medesima impresa, paesi o interi continenti, attraverso le delocalizzazioni produttive. E quando non è stata adoperata la distanza geografica, si è provveduto con l’esternalizzazione di singole fasi produttive, alla scomposizione di quella unità, minata dalla diversificazione in termini di diritti e garanzie, che si accompagna a simili processi.
Lo sviluppo di mezzi di comunicazione di massa sempre più pervasivi, ha reso possibile l’accettazione sociale di queste trasformazioni, con una battaglia ideologica senza precedenti quanto a potenza. Ciò ha condotto non solo all’oscuramento dei riferimenti teorico-culturali della classe lavoratrice, ma anche a un più generale sterminio degli anticorpi sociali che si frappongono alla completa conformazione all’ideologia della classe dominante.
Le propaggini più insidiose di questa naturalizzazionedei valori che sorreggono e giustificano l’intera impalcatura del dominio, sono quelle meno visibili, che arrivano a intaccare l’impostazione teorico-politica dei soggetti politici e sindacali espressione della classe lavoratrice. Non solo di quelli che hanno abbandonato, in modo esplicito o implicito, la lotta di classe come perno del loro agire, ma anche di quelli che continuano a praticare un’opposizione ai dispositivi di comando del capitale, per cercare di modificare gli attuali rapporti di forza e ridare centralità a un disegno complessivo di trasformazione sociale.
In termini generali, di cui certo non ci occuperemo negli angusti spazi di questo articolo, si assiste alla tendenza a far propri gli schemi di pensiero propri della classe dominante, ancorché riempiti di contenuti alternativi. Conseguenza di questo approccio, è la propensione a suddividere la realtà in comparti stagni: i problemi.
Il problema diviene fenomeno scorporato dall’insieme, indipendente da una sua collocazione interna alle dinamiche sociali. E’ il tipico indirizzo che caratterizza le logiche sottostanti le modalità operative aziendali.
A ogni problema la sua soluzione. Che è specifica, e, si spera, efficace ed efficiente.
Ma, come anticipato, riteniamo più utile in tale ambito, occuparci di uno di questi problemi, per usare il linguaggio narcotizzante prevalente, aggiungendo solo la fin troppo ovvia considerazione che un tale orientamento, mina alla radice la possibilità stessa di una piattaforma che abbia un’anima politica, perché asseconda l’esigenza di trasformare l’esistente in una dimensione amministrativa, che va semplicemente governata con la migliore soluzione, senza più chiedersi a chi si riferisca il termine “migliore”, primo quesito di un qualsivoglia processo politico. Tutti fattori che si prestano magnificamente al protrarsi dello sfruttamento gentile che ci viene propalato dai fedeli servitori del capitale.
Il caso del trasporto pubblico
Il trasporto pubblico è uno dei settori maggiormente colpiti dalle politiche di privatizzazione connesse col più generale smantellamento dello Stato sociale.
La dialettica messa in atto dalle organizzazioni politiche e sindacali della classe lavoratrice, è stata di tipo resistenziale, come in altri ambiti. Ma non è questo ciò che limita la forza della risposta agli attacchi, essendo condizione che accomuna l’intero conflitto di classe.
L’approccio resistenziale basa la sua legittimità politica sul diritto a un servizio pubblico, di cui i lavoratori sono in larga parte gli utenti.
Il disfacimento del servizio pubblico danneggia gli utenti, che come abbiamo visto sono appartenenti alle classi subalterne, mentre le classi dominanti possono permettersi il ricorso ai mezzi privati.
Questa posizione, trova poi riscontro nelle piattaforme rivendicative che stabiliscono come punto strategico rilevante, l’unione degli interessi dei lavoratori del trasporto pubblico con quelli degli utenti.
La debolezza di questa posizione, è segnata già nel suo codice genetico, nel quale sono presenti elementi ideologici della classe dominante.
Si ha il massimo rispetto dei soggetti che elaborano piattaforme nel modo suindicato, che rappresentano comunque il punto più avanzato della lotta riguardante il settore.
Ma questo non può esimerci da un loro inquadramento politico più generale.
L’individuazione di un diritto dei lavoratori e di un diritto degli utenti, fa scivolare la questione in un ambito amministrativo, che non è evitato neanche dalla considerazione che far lavorare in condizioni migliori i lavoratori, convenga anche all’utenza, perché le maggiori risorse investite, si tradurranno, anche, in un miglior servizio.
Quello che si cerca è la migliore soluzione, che dia un risultato a tutti, nei loro differenti ruoli. Questo posizione è permeata della logica delle compatibilità. In questo caso rendere compatibili due diritti. Ma se i due diritti devono essere resi compatibili, significa che nella loro essenza essi non lo sono.
E’ per tale motivo che anche se si raggiungesse un’unità di forze tra lavoratori e utenti (scenario tutt’altro che a portata di mano, come sanno i compagni napoletani che hanno raccolto sul “campo” le invettive degli utenti, aventi come bersagli prediletti proprio i lavoratori, durante i recenti disservizi dovuti ai tagli), il risultato raggiunto sarebbe precario, non tanto per una sua generale appartenenza ai fenomeni umani, tutti precari e dipendenti da fattori storicamente determinati, ma per l’impostazione politica sottesa alla piattaforma.
Vi saranno sempre esigenze diverse, dei lavoratori e degli utenti, da far quadrare, cercando di resistere ai tagli propinati come essenziali dalle politiche neoliberiste.
La questione, così impostata, ha già perso lungo la via la propria anima politica. Ha già inglobato delle risposte, che sono quelle della classe dominante, senza più sentire la necessità di porsi le relative domande.
E la prima domanda, per riappropriasi della dimensione politica è: perché quelli che vengono denominati utenti, hanno necessità di spostarsi, di viaggiare?
Nella posizione di chi si prefigge l’unità di lavoratori e utenti, è giustamente presente la consapevolezza che i secondi sono in gran parte lavoratori o familiari degli stessi, che utilizzano il servizio pubblico, che ha un costo individuale minore rispetto all’utilizzo dei mezzi privati.
Ma perché questi lavoratori hanno bisogno di spostarsi?
Il loro bisogno di mobilità in quanto lavoratori, consegue la necessità di raggiungere il posto di lavoro.
Ma questa necessità è dipendente da una loro libera scelta?
La qualifica di utenti, maschera la motivazione sostanziale del loro spostamento, che è sottratta a una scelta libera.
In tal senso anche chi parla di diritto alla circolazione, pur avendo condivisibili intenti, rischia di depotenziare la politicità della questione, che trova la sua massima espressione quando si evidenzia che la mobilità del lavoratore risponde a una esigenza del capitale, che ha bisogno di riunire fisicamente la forza lavoro in un determinato luogo, la cui collocazione è anch’essa sottratta, a parte residuali garanzie contrattuali, alla libera scelta del lavoratore [1].
Il trasporto pubblico allora, almeno per quanto riguarda i flussi determinati dal cosiddetto pendolarismo (che comunque rappresenta la parte maggiormente significativa del totale) [2] , deve essere assimilato al trasporto delle materie prime, dei beni strumentali e di tutti gli altri fattori produttivi, di cui il capitale sostiene integralmente il costo, in quanto trattasi di attività funzionali ai suoi scopi.
La falsa libertà di un generico utente che viene affibbiata al lavoratore, va allora rigettata al mittente. In tal senso, l’unità dei lavoratori del settore trasporti e dei cosiddetti utenti, è già nei fatti, non va perseguita come istanza ideale, in quanto tutti i soggetti interessati agiscono sulla base dei bisogni dettati dal capitale e in contrapposizione a essi devono fare fronte comune.
Un punto dirimente per una piattaforma che voglia affrontare politicamente la questione, è la imprescindibile premessa che il costo del trasporto pubblico sia interamente a carico del capitale, per gli spostamenti determinati dalla necessità dei lavoratori di raggiungere il luogo in cui il capitale ha bisogno di concentrare i fattori produttivi.
Obiettivo minimo. Perché sviluppando coerentemente l’approccio politico che si è sopra delineato, si addiverrebbe a conclusioni che riguardano il proletariato nella sua interezza, senza distinzioni tra chi è impiegato o meno nel processo produttivo.
La legittimità politica di un costo del trasporto pubblico a carico del capitale, può infatti essere ampliata a studenti, pensionati, disoccupati, ecc…i quali hanno bisogni di mobilità determinati dalla struttura di una organizzazione fisica dell’ambiente che è frutto delle esigenze funzionali allo sviluppo capitalistico (con tutte le devastazioni ecologiche e le brutture estetiche dei luoghi in cui si ammassa la classe lavoratrice).
Tutto questo per tacere dell’evidente connessione del trasporto e dei tempi di percorrenza della distanza tra l’abitazione e il posto di lavoro, che attraverso la fittizia dicotomia lavoratori-utenti, vengono considerati come tempo rientrante nella disponibilità del lavoratore, laddove invece andrebbero conteggiati come parte dell’orario di lavoro (con conseguente riduzione dell’orario direttamente collegato alla produzione), in quanto appunto discendenti dalle esigenze di collocazione della forza lavoro espresse dal capitale.
Ma questa è un’altra storia.
NOTE
[1] Di grande utilità, per una riappropriazione di adeguati strumenti di analisi, può essere la lettura de “Il trasporto della forza-lavoro nel processo capitalistico di produzione”, Dario Lanzardo, in Quaderni rossi n.2.
[2] Secondo i dati contenuti nel 15° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni dell’Istat, sono quasi 29 milioni (48,6% della popolazione residente) le persone che ogni giorno effettuano spostamenti. Circa due terzi di questi, ossia il 66,4%, lo fanno per motivi di lavoro. Fonte Istat http://www.istat.it/it/files/2014/08/Pendolarismo.pdf