La tendenza di fondo era già stata messa nel conto, ma la misura del sommovimento scaturito dalle elezioni tedesche ha superato le previsioni.
Dell'entrata per la prima volta nel Bundestag di una formazione xenofoba e neonazista, così come dei mutati equilibri politici e delle possibili coalizioni governative, tratta in questo numero Guido Tana.
Qui intendiamo rivolgere uno sguardo a questi risultati da una diversa angolazione, quella delle prospettive dell'Europa di Maastricht.
L'antefatto da considerare è che ovunque i popoli dell'Europa siano stati chiamati ad esprimere la loro opinione sui trattati europei, attraverso consultazioni sia elettorali che referendarie, il malessere si è espresso puntualmente. La Brexit non è altro che la più recente conferma di questa regola. Per ben 2 volte, nel 1972 e nel 1994, i norvegesi respinsero l'adesione all'Unione Europea. Nel 1992 la maggioranza dei danesi si oppose all'adesione al trattato di Maastricht e fu necessario un secondo referendum l'anno successivo per ribaltare di poco quel risultato. Tuttavia nel 2000 il 53,2 per cento dei danesi disse No all'adozione dell'Euro, così come il 55,9 per cento degli svedesi 2003. Nel 2005 furono i francesi a respingere con il 55 per cento dei voti la Costituzione Europea e fu necessario ricorrere alla consulenza di Azzeccagarbugli per superare con un artificio l'impasse: l'espediente fu quello di non chiamare più Costituzione il trattato che sostituì quello bocciato, ricalcandone però sostanzialmente i contenuti. Nel 2001 furono gli irlandesi a respingere un emendamento alla propria costituzione che intendeva permettere l'adozione delle regole europee, così come respinsero nel 2008 un altro emendamento. Anche il 61,5 per cento degli olandesi, nel 2005 si oppose alla costituzione europea e una identica percentuale respinse, nel 2016, l'annessione dell'Ucraina all'Europa.
È vero che altrettanti referendum hanno promosso l'Europa, ma, ove si faccia eccezione di alcuni paesi dell'Est europeo, l'artiglieria pesante della retorica europeista messa in campo dai governi e dai media, ha sempre ottenuto risultati risicati.
Le elezioni politiche per il rinnovo degli organi legislativi, sempre di più hanno messo in difficoltà le forze europeiste, spesso, purtroppo, a vantaggio dei populismi xenofobi e di destra. Ma in diversi casi i risultati delle forze di sinistra critiche (sia pure con livelli di coerenza differenziati) di queste regole europee, sono stati significativi, per esempio in Spagna, Portogallo, Irlanda, Grecia e Inghilterra.
Io motivi di questa sofferenza li abbiamo già illustrati su questo giornale. Il trattato di Maastricht che istituisce la moneta unica prevede che la banca emittente, la BCE, sia indipendente rispetto ai governi, che vengono così estromessi dall'uso della leva monetaria per azionare la politica economica. La leva fiscale invece è bloccata dai parametri stringenti in termini di rapporto debito/Pil e deficit/Pil cuciti addosso, con precisione millimetrica, al corpo tedesco e che hanno obbligato i governi a percorrere la strada dell'austerità, quindi del contenimento della domanda pubblica, anche quando sarebbero state utili politiche espansive, col bel risultato di peggiorare ulteriormente la situazione debitoria. In un quadro in cui le economie nazionali sono sempre più condizionate dai conti con l'estero, la moneta unica, e quindi l'impossibilità di procedere alla svalutazione della moneta nazionale in confronto con quella dei partner europei più competitivi, ha obbligato a competere quasi unicamente sul terreno del costo del lavoro, che difatti è precipitato, contribuendo così ad approfondire la recessione, senza peraltro impedire che si verificasse una progressiva divaricazione fra i PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) e i paesi “virtuosi” (leggasi forti), primo fra tutti la Germania.
Anche la dinamica del debito pubblico risente dell'andamento dei conti con l'estero, in quanto i cosiddetti “mercati” (leggasi speculatori), stanno scommettendo sul rischio che i singoli paesi escano dall'euro e rinominino in valuta nazionale l'attuale debito espresso in termini di moneta europea. Ne consegue che la Germania può ottenere tassi sul proprio debito pubblico del 0.01% annuo, mentre la Grecia deve sopportare il 4.62%. Si arricchiscono quindi le banche e i paesi già ricchi a discapito delle finanze e del tenore di vita di quelli più poveri.
Ma anche nel paese che ha dominato l'economia europea, che ha assoggettato ai propri interessi i sistemi produttivi sia della ex Germani dell'Est, sia quelli dei paesi satelliti, come il nostro, la popolazione sta peggio di prima. Le riforme imposte a tutti sotto pena di sanzioni o addirittura di fallimento, che hanno dilapidato il welfare, precarizzato il lavoro, privatizzato tutto il privatizzabile, hanno, sia pure in misura alquanto inferiore, eroso il tenore di vita dei lavoratori. L'economia “tira”, però solo a vantaggio del capitale.
Ma la vera notizia è che ora, perfino il paese che si è sempre opposto a dare ossigeno ai propri partner europei e che in una buona misura ha goduto delle disparità approfondite dalle regole europee, registrando copiosi avanzi della bilancia dei conti con l'estero, e patendo meno di tutti le conseguenze della crisi economica mondiale, non regge più al malessere diffuso. I due partiti della Grosse Koalition, cioè i maggior paladini dell'Euro, SPD e CDU/CSU, registrano un tracollo impressionante. I socialdemocratici sprofondano al 20,5 per cento dei consensi, perdendo oltre il 5 per cento, mentre i democristiani perdono l'8 per cento passando dal 41 al 33 per cento. In tutto la coalizione perde un elettore su 5 del proprio elettorato, che fanno grosso modo 5 milioni di voti.
La sconfitta della SPD, che con Shulz si era candidata addirittura a sostituire la Merkel alla guida della Grosse Koalition, è talmente clamorosa da indurre quel partito a porsi all'opposizione. La Merkel, che diversi commentatori si ostinano a descrivere ancora come la vincitrice del torneo (talvolta concedendo a denti stretti che trattasi di “vittoria a metà”), dovrà mettere insieme una maggioranza, annettendovi probabilmente verdi e liberali, tra i quali non pochi sono gli euro scettici. È probabile che subisca una battuta d'arresto il progetto di ulteriore rafforzamento delle istituzioni europee, entro il quale figurava anche l'ipotesi di un'Europa a più velocità, e che il malessere e le disparità si diffondano ulteriormente. C'è da capire poi cosa succederà quando verrà messo in soffitta il Quantitative Easingdi Draghi, cui succederà probabilmente l'attuale governatore della Deutsche Bundesbank, Jens Weidmann, e se torneranno a dilatarsi gli spread fra i tassi dei debiti degli stati nazionali, destabilizzando così diverse regioni economiche europee. Insomma sembra possibile che anziché un rafforzamento si assista a uno sbriciolamento delle istituzioni del'UE.
Se Mao poteva dire “c'è grande confusione sotto il cielo, quindi la situazione è favorevole”, non altrettanto possiamo dire oggi noi, per la semplice ragione che in Europa non c'è ancora un partito comunista forte e coeso, che i consensi delle destre xenofobe sono preoccupanti e che le armi a disposizione dell'establishment sono ancora potenti e magari non disdegnano di utilizzare il populismo di destra per continuare a dominare e impedire una reale alternativa economica, politica e sociale.
In una situazione così in movimento più che mai urgono idee chiare per costruire questa alternativa.