Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi sembra aver sparato praticamente tutte le cartucce a sua disposizione per tentare di avere la maggioranza degli elettori dalla sua parte, il prossimo 4 dicembre. I sondaggi, da tempo, vedono il fronte del No in vantaggio sul Sì al referendum ed a circa due settimane soltanto dal voto, a Renzi cominciano a tremare le vene e i polsi. Perciò non perde occasione per usare lo spread che sale per la sua campagna referendaria: "Con le riforme sale il Pil, senza riforme sale lo spread", ha affermato il presidente del Consiglio in un incontro pubblico a Bergamo. “Non è una minaccia ma è una constatazione", aggiunge Renzi.
Intanto, però, Renzi brandisce lo spread come un’arma politica intimidatoria per raccogliere consensi intorno alla sua controriforma costituzionale. Ma questo atteggiamento è abbastanza indicativo dei timori del presidente del Consiglio di perdere questa importante partita.
Lo spread che sale per l’incertezza politica dovuta al referendum è usato dal governo e dalla sua velina, L’Unità per ripetere una sorta di tormentone elettorale: “I mercati non ragionano per partito preso. È inevitabile, infatti, che il voto popolare darà un giudizio sulla credibilità (e quindi sulla stabilità politica) del nostro paese”. Insomma, siamo alle solite: il mondo ci guarda; l’Europa chiede riforme; i mercati vogliono stabilità.
Poi butti un occhio alla Spagna e noti che non solo è cresciuto il differenziale tra Btp italiani e Bund tedeschi, ma che la forchetta con il titolo italiano si allarga anche nel confronto con i Bonos spagnoli. Eppure per la Spagna non si può certo parlare di stabilità politica rassicurante, dal momento che il governo Rajoy ha avuto la fiducia solo pochi giorni fa, dopo due elezioni e tentativi di formare un governo andati a vuoto per quasi un anno.
Solo che l’economia spagnola segna una crescita di oltre il 3%, mentre il Pil italiano non arriva all’1%. Quindi, a ben vedere, lo spread che cresce come non si vedeva da due anni, indica sì un’incertezza, ma soprattutto quella sulle sorti dell’economia italiana, segnando, tra l’altro, il fallimento della politica del governo Renzi. Non è un caso che le agenzie di rating stiano dando un peso relativo al referendum sulla controriforma costituzionale.
Moody’s afferma che “L'outlook stabile dell'Italia, riflette i piani del governo di affrontare le sfide strutturali tramite ulteriori riforme strutturali”, le quali solo in parte dipenderanno “dal risultato del referendum costituzionale”. Standard & Poors è ancora più esplicita, quando sostiene che la tenuta creditizia dell’Italia in caso di sconfitta del Sì “non dovrebbe essere significativa ... a meno che porti a un'inversione di rotta delle riforme strutturali”. Insomma, le agenzie di rating non sembrano troppo preoccupate per una vittoria al No al referendum costituzionale. Nei loro pensieri c’è la necessità di continuare con le riforme strutturali, quali quelle sul lavoro, sull’istruzione e via su questo filone. Tanto che Standard & Poors mostra apprezzamento per “la determinazione dell'amministrazione del presidente del Consiglio Matteo Renzi sul piano del programma di riforme”. Come a dire, i mercati apprezzano la determinazione con la quale il governo Renzi ha approvato Jobs act, Buona scuola, riforma delle pensioni.
Perché, allora, tanta frenesia intorno al referendum costituzionale? Perché una vittoria del Sì darebbe uno strumento in più alla “determinazione” del governo per tenere fede agli impegni a questo affidati dalla Troika. Guarda caso, il governo italiano che finge di fare la voce grossa in Commissione europea sul bilancio pluriennale dell’Unione Europea, non si sogna di mettere mano a quelle riforme che hanno precarizzato il lavoro, che stanno riducendo la scuola ad un ente di formazione per precari e che ricattano i pensionati che vorrebbero vedersi restituire il loro salario differito: la pensione. Insomma, Renzi ed il suo governo non mettono affatto in discussione ciò che all’Unione Europea ed ai mercati interessa per spostare reddito dal basso verso l’alto e per sottrarre diritti alle classi popolari per accrescere i privilegi di quelle dominanti.
Le agenzie di rating non potevano essere più chiare: la riforma costituzionale deve servire ad accelerare quelle riforme che indeboliscono ulteriormente le classi sociali più deboli rispetto a quelle più forti; che indeboliscono i lavoratori, gli studenti, i pensionati rispetto ai centri di potere che continuano ad imporre le loro ricette di austerità, di lacrime e sangue si diceva in maniera più efficace qualche tempo fa. In fondo, il senso della lotta di classe è proprio questo e sarà bene che non si lasci che a condurla siano, indisturbate, le classi dominanti.
È per questo che il No del 4 dicembre non deve ridursi ad una croce su una scheda ma deve assumere un significato sociale. Significa che da quel No si riparte per una lotta politica e sociale per recuperare diritti alle classi sociali più deboli e quindi per lavorare meno e lavorare tutti, per una scuola di qualità e non classista, per la difesa del territorio da devastanti speculazioni, per il diritto alla pensione, per mettere un contrappeso sulla bilancia dei rapporti di forza, così sbilanciati a favore delle classi sociali più forti.