Le cancellerie europee stanno negoziando quali strumenti utilizzare per far fronte alla crisi economica. In tutto il mondo, le politiche monetarie da parte delle banche centrali - riduzione dei tassi di interesse e Quantitative easing - si sono dimostrate insufficienti, per cui i governi sembrerebbero intenzionati a rilanciare la spesa pubblica. Per finanziarla, le tasse che normalmente raccolgono non bastano. Né da un punto di vista quantitativo, in quanto le risorse da stanziare ammontano a qualche centinaio di miliardi di euro solamente in Italia e perché la crisi diminuisce la capacità contributiva dei lavoratori e delle imprese; né bastano da un punto di vista qualitativo, in quanto per le imprese le tasse rappresentano un costo che grava sulla loro competitività, riducendola ulteriormente.
Pertanto, per aumentare la spesa pubblica, occorre ricorrere al deficit, vale a dire a nuovo debito pubblico. Ma come finanziarlo? Sul tavolo al momento ci sono due opzioni: spingere i singoli paesi ad utilizzare il Mes, il cosiddetto fondo salva Stati, oppure far emettere alle autorità europee titoli di debito comunitari, i cosiddetti Eurobond. Queste due opzioni rappresentano due modi diversi di far pagare la crisi ai lavoratori. Ma un’alternativa per evitare di aumentare ancora di più il debito pubblico esiste ed è perfettamente legale sia sul piano internazionale che su quello della legislazione nazionale e si basa su: requisizioni, espropriazioni e moratoria sul debito.
Il Mes, Meccanismo europeo di stabilità, è un’organizzazione internazionale con sede in Lussemburgo che gestisce un fondo di investimento il cui capitale sociale è sottoscritto dagli Stati europei ed il cui scopo dovrebbe essere quello di garantire che eventuali difficoltà legate principalmente al debito di un singolo paese, divenuto insostenibile in quanto non più finanziabile sul mercato dei capitali, producano effetti contagiosi o di cosiddetto trascinamento per l’intera zona euro. Un po’ come fa il Fondo monetario internazionale a livello mondiale. Come già riportato su questo giornale (qui, qui e qui) chiedere soldi al Mes significa sottoporsi a pesanti condizionalità, vale a dire all’arrivo della Troika a Palazzo Chigi, se non subito sicuramente dopo qualche mese.
Il Mes, infatti, oltre a dover valorizzare il proprio capitale sociale, come qualunque altro fondo di investimento, lavora prestando (non regalando) soldi che raccoglie sui mercati finanziari internazionali, quindi provenienti da quei grandi capitalisti che poi hanno voce in capitolo quando si tratta di andare a negoziare con gli Stati i termini del prestito. E sappiamo bene cosa chiedono i capitalisti agli Stati e perché.
Tecnicamente, quando uno Stato chiede soldi al Mes, ad indebitarsi sul mercato è quest’ultimo, la cui affidabilità (ed il cui spread) è tanto più alta (basso) quanto maggiori sono le garanzie che esso fornisce ai capitalisti con cui si indebita. E queste garanzie consistono principalmente nella comprovata capacità di restituire il denaro ottenuto, quindi, a cascata, nella capacità di “spremere” lo Stato cui presta quei soldi. A questo servono le condizionalità di cui tanto si parla: a far sì che lo Stato sia obbligato ad adottare politiche economiche atte a creare quelle condizioni favorevoli alla ripresa della produzione, che è alla base dell’aumento della capacità contributiva. Pertanto, il Mes senza condizionalità, vale a dire senza contropartite in termini di contro-riforme strutturali, cioè peggioramento del mercato del lavoro, della sanità, della scuola, delle pensioni e più in generale del welfare è un non-senso logico, economico e giuridico.
Sottoscrivere il Mes, dunque, apre le porte ad uno scenario tipo quello greco, cui sono interessati tutti gli europeisti che vogliono basare l’unità dei paesi del vecchio continente sulla competizione tra gli Stati fondata sul ricatto del debito pubblico che meglio asseconda gli appetiti del grande capitale finanziario transnazionale. Lo Stato che si indebita col Mes, tra l’altro, vede crescere lo spread tra i propri titoli di debito pubblico e quello dei principali paesi (in europa quelli tedeschi) perché ricorrere al Mes dà un segnale di debolezza, come dire alla comunità internazionale dei grandi speculatori che si è arrivati alla frutta, che non si hanno alternative se non quelle di consegnarsi allo strozzino istituzionalizzato perché quelli sul mercato non ci prestano soldi o ce li prestano a condizioni ancora peggiori.
Non a caso, il PD è il partito che in Italia più spinge per il ricorso al Mes, in quanto è il partito che più coerentemente rappresenta gli interessi dei grandi capitalisti senza patria. Chi vi si oppone, però, come il M5S, lo fa guardando ad un rafforzamento dell’alleanza atlantica con gli Stati Uniti e non alla creazione di nuove relazioni internazionali con i paesi che più ci stanno aiutando in questa emergenza come Cina, Cuba e Russia.
L’alternativa al Mes sul tavolo dei governi europei è quella dei Recovery bond, una specie di Eurobond o Corona bond, come sono stati inizialmente ribattezzati sull’onda dell’emergenza causata dal Sars-Cov-2. Questi dovrebbero servire a raccogliere denaro sui mercati finanziari e farlo convergere dentro un ennesimo fondo, ribattezzato Fondo per la ripresa (Recovery fund) iscritto nel bilancio europeo, che a sua volta dovrebbe andare a finanziare gli Stati. Ma come? I paesi con le finanze pubbliche più in difficoltà spingono per trasferimenti a fondo perduto, gli altri per i prestiti, quindi per la creazione di nuovo debito nazionale. In ogni caso, ad immettere titoli di debito pubblico sul mercato sarebbero le istituzioni europee (probabilmente la Commissione, ma non è escluso che a farlo sia lo stesso Mes, secondo una iniziale proposta del governo italiano) che si accollerebbero l’onere di doverlo ripagare sebbene siano garantite dai bilanci dei singoli paesi europei. Altrimenti bisognerebbe finanziare questo fondo direttamente coi trasferimenti provenienti dagli Stati.
Questo debito non verrebbe iscritto a bilancio dei singoli Stati ma al bilancio europeo ma se passa la versione “rigorista” al bilancio dei singoli Stati dovrebbe comunque iscriversi il debito contratto nei confronti di questo nuovo fondo. Comunque sia, avremmo, per la prima volta, l’emissione di un debito comune europeo, con relativo spread che però non andrebbe a costituire arma di ricatto nei confronti dei singoli paesi ma dell’Ue nel suo complesso, e che sarebbe tanto più basso quanto maggiore è l’affidabilità dell’istituzione che lo emette e che dipende, anche qui, da quanto l’Ue saprebbe spremere direttamente i lavoratori europei e/o gli Stati dell’Unione.
A pagare, come nel caso del debito nazionale, sarebbero comunque in ultima istanza le classi lavoratrici, sia pure in termini solidaristici fra i lavoratori delle diverse nazioni, chiamate a saldare il debito con le proprie tasse, che però vengono raccolte un po’ dappertutto in maniera più regressiva che progressiva e trasferite all’Ue in maniera più o meno proporzionale alla quantità di ricchezza prodotta (o consumata) nei singoli Stati. A guadagnarci, invece, sarebbero i grandi capitalisti, prima creditori solo degli Stati e ora anche dell’Unione. Ma non tutti in maniera uguale. A guadagnarci sarebbero soprattutto quelli dei paesi con un saldo netto positivo tra l’afflusso di denaro dal Recovery fund e il deflusso di tasse per ripagarne i debiti, vale a dire i paradisi fiscali, quelli dei paesi meno ricchi o quelli più colpiti dall’emergenza.
Questo è il primo motivo per cui i governi dei paesi più ricchi e con i redditi pro-capite più elevati - che sono anche quelli meno colpiti da questo nuovo Coronavirus perché più preparati oltre che più spregiudicati - sono favorevoli al Mes mentre sono contrari a finanziare il Recovery fund tramite Eurobond o, ancora peggio, tramite trasferimenti diretti dai bilanci nazionali e ad essi proporzionali. I loro lavoratori, infatti, si troverebbero a pagare più di quanto ricevono ed i loro capitalisti a guadagnarci meno degli altri, senza poter utilizzare lo spread come arma di ricatto nei confronti dei loro fratelli-nemici. Quest’ultimo, infatti, è utilizzato dai grandi speculatori per misurare l’affidabilità di un paese e quindi viene da questi manovrato per correggere, ex-ante o ex-post, le decisioni politiche non gradite, indipendentemente dal reale stato di salute dell’economia. Ma in questo caso non sarebbe utilizzabile in quanto sarebbe tutta l’Ue ad indebitarsi sul mercato.
Un altro motivo che rende indigesti i Recovery bond è che essi costituiscono un pericoloso precedente. Se per l’emergenza si potrebbero utilizzare le istituzioni europee così come sono, incluso il Mes, salvo dover aumentare le garanzie nazionali al bilancio comune europeo, attualmente troppo esiguo, in prospettiva gli Eurobond favoriscono il rafforzamento e la crescita del bilancio comune europeo. Come ad un lavoratore la banca accende un mutuo che sia proporzionato al suo reddito col quale dovrà ripagarlo e alla ricchezza di cui dispone per garantirlo, qualcosa di simile accade alle imprese, agli Stati o alle unioni di Stati. Quindi lo sviluppo degli Eurobond necessita della trasformazione dell’Unione europea in una specie di Stati uniti d’Europa, un’entità politica con un grande bilancio federale e trasferimenti fiscali dalle zone più ricche a quelle più povere per compensare, in parte, la maggior accumulazione delle prime rispetto alle seconde. Quindi non più l’arrivo della Troika a Palazzo Chigi per qualche mese/anno ma la definitiva esautorazione delle autorità nazionali costituite, in particolare quelle dei paesi relativamente più poveri, che sarebbero ancora più impotenti nei confronti di Bruxelles e Francoforte.
In questo caso, dunque, il ricatto dello spread tra i singoli Stati sarebbe progressivamente limitato, un po’ come avviene tra i singoli paesi che formano una federazione, quindi via-via più limitato rispetto ad oggi ma comunque meno limitato rispetto a quello che oggi è esercitato nei confronti delle singoli regioni italiane che si indebitano sui mercati obbligazionari. Ovviamente il ricatto dello spread rimarrebbe per il governo di questi fantomatici Stati Uniti d’Europa nel suo insieme, esattamente come oggi avviene per il governo di un qualunque paese capitalistico, il che riprodurrebbe su scala continentale i problemi di agibilità politica che oggi troviamo su scala nazionale.
Il ricorso agli Eurobond, dunque, è una soluzione che potrebbe essere più conveniente nel breve periodo per le classi lavoratrici più povere ma solo e soltanto nella misura in cui riceverebbero in termini di spesa sociale di più di quello che pagherebbero in termini di maggior pressione fiscale e contro-riforme strutturali, e questo è tutto da vedere; ma più pericolosa sul lungo periodo in quanto costituirebbe un precedente che verrebbe utilizzato per provare a forzare la mano verso la costituzione di una Europa più unita sul piano del bilancio ma maggiormente competitiva e frammentata, come contropartita, per quanto riguarda le condizioni di sfruttamento del lavoro e dell’ambiente.
Esisterebbe anche una terza possibilità, quella cioè che gli Eurobond non vengano collocati sui mercati finanziari ma sottoscritti direttamente dalla Banca Centrale Europea con relativa emissione di moneta. Tale pratica, in ossequio alle raccomandazioni della teoria economica monetarista, è proibita dal Trattato di funzionamento dell’Ue sebbene le regole europee non proibiscono l’acquisto diretto di titoli di Stato da parte degli enti creditizi di proprietà pubblica che, tra l’altro, hanno diritto ad accedere alla liquidità delle Banche centrali e della Bce al pari degli enti creditizi privati. Il che comporta, ad esempio, il diritto di rivendergli quei titoli tramite il Quantitative easing, come fanno le banche pubbliche tedesche, finendo per far rientrare dalla finestra ciò che è voluto cacciare dalla porta. Tuttavia, se l’emergenza della pandemia ha permesso di derogare dal rispetto dei parametri di Maastricht (rapporto deficit/Pil e rapporto debito/Pil), il rifiuto di sviluppare queste possibilità si spiega solo con la volontà politica di tenere comunque le autorità pubbliche alle dipendenze del capitale finanziario.
Ciononostante, l’acquisto diretto dei titoli non sarebbe esente da limiti. Laddove la quantità di moneta a corso forzoso immessa nell’economia eccede la quantità di merce-denaro necessaria a far circolare, data la sua velocità media, il valore delle merci presenti sul mercato in quel determinato momento, si determina, a parità di altre condizioni, inflazione, rigonfiamento di bolle speculative e svalutazione della moneta sui mercati valutari, con tutto ciò che ne deriva in un contesto di dominio del capitale a base transnazionale, libertà di movimento dei capitali e stretta interdipendenza tra le economie nazionali. Tuttavia, rispetto al Quantitative easing che prevede l’acquisto dei titoli di debito pubblico detenuti dagli istituti di credito, in questo modo è il governo, non le banche, a decidere come utilizzare la liquidità creata dalla Bce. Il che sarebbe un passo avanti.
Tutto questo ragionamento sul debito pubblico, però, presuppone che non ci siano abbastanza risorse per affrontare il problema. E invece queste risorse ci sono! Dal 1992 lo Stato italiano è costantemente in avanzo primario, vale a dire incassa dalle tasse più di quanto spende in servizi pubblici e trasferimenti a famiglie e imprese . Solo che queste risorse vengono dirottare verso il pagamento degli interessi sul debito pubblico contratto negli anni passati. Dunque, la prima cosa da fare, è un audit sul debito pubblico per stabilire se e quanto è legittimo che i grandi capitalisti continuino a pretendere e rendere evidente l’insostenibilità del debito pubblico. Nell’immediato, però, la moratoria sul debito è urgente e necessaria per risparmiare, ogni anno e solo in Italia, una ottantina di miliardi di euro di interessi e 240 miliardi per rimborso prestiti, ed evitare di dilapidare ulteriormente la trentina di miliardi di avanzo primario già fortemente a rischio a causa della diminuzione della capacità contributiva di lavoratori e imprese, mettendolo immediatamente a disposizione per combattere l’emergenza sanitaria ed economica.
Per affrontare la crisi, però, c’è ben altro. Innanzi tutto centinaia di miliardi appartenenti ai grandi capitalisti e alle loro imprese, che non trovano impiego profittevole e che quindi vengono parcheggiati nei conti correnti, soprattutto quelli aperti nei paradisi fiscali, nei beni rifugio e nella speculazione borsistica (incluso l’acquisto di obbligazioni di debito pubblico o privato che offrono tassi di interesse nominali negativi, quindi che ripagano meno di quanto sono costati). A costoro deve essere applicata una patrimoniale, che dunque si configurerebbe in maniera progressiva andando a colpire soltanto i grandi capitalisti e non quei lavoratori o il ceto medio che hanno vissuto una vita di privazioni per risparmiare qualcosa e che col Mes o gli Eurobond si troverebbero a doversi sobbarcare le maggiori tasse per ripagare il maggior debito contratto.
Infine, la più importante ricchezza è costituita dall’apparato immobiliare e produttivo del paese, quello che in ultima analisi genera i beni e i servizi e quindi anche i soldi delle tasse utilizzati dallo Stato. Le grandi ricchezze possono e devono essere requisite e nazionalizzate, trasferendone la proprietà allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti, a norma del codice civile e della costituzione, ma in nome dell’interesse generale e non per socializzare le perdite che la crisi infligge ai capitalisti. Questo consentirebbe di non ricorrere in modo massiccio al debito, di salvare il tessuto produttivo del paese e far sì che la spesa pubblica sia effettivamente utile per superare la crisi, cosa altrimenti niente affatto scontata.