L’Europa ha perso la guerra economica

La guerra economica dichiarata dall’Unione Europea alla Russia si è risolta in una sonora sconfitta. Ma il nostro governo insiste. Fino alla guerra nucleare o fino alla disfatta?


L’Europa ha perso la guerra economica

Mentre è iniziato il balletto delle elezioni politiche con il ritorno al tema dello scontro fra due blocchi aventi identici orizzonti sulla guerra e sulle politiche economiche e sociali, con poche differenze di facciata e differenze più marcate sui settori della borghesia da proteggere; mentre le microformazioni comuniste si presenteranno all’elettorato ancora una volta colpevolmente divise, nonostante la gravità del momento, si avvicina inesorabile un autunno/inverno (se non si andrà oltre) destinato ad assestare colpi durissimi e sofferenze ai popoli europei. Ma di questo non si parla nei salotti della politica.

Se non se ne occupa la politica, ci sta pensando la Banca Centrale Europea (Bce) che ha deciso un aumento drastico, di mezzo punto, entrato in vigore il 27 luglio scorso, dei tassi di interesse sulle sue principali operazioni di rifinanziamento, che saliranno allo 0,50%, mentre sulle operazioni di rifinanziamento marginale raggiungeranno lo 0,75% e sui depositi presso la banca centrale lo 0%. La decisione è motivata dal contrasto all’aumento dell’inflazione che si avvicina al 10%, mentre i poteri economici dicono di volerla riavvicinare all’obiettivo obsoleto di Maastricht (2%). Un così elevato aumento dei tassi metterà in difficoltà le famiglie e gli Stati indebitati nonché le imprese marginali, accelerando il processo di centralizzazione dei capitali. Per quanto riguarda i mutui, per esempio, Codacons ha rilevato un aumento di 1,26 punti del tasso di riferimento per quelli trentennali, che comporta un rincaro della rata di oltre 60 euro al mese per prestiti intorno ai 200mila euro. Ma il coordinamento a tutela dei consumatori prevede anche aggravi per l’acquisto dell’auto a rate o in leasing, per l’arredamento, la ristrutturazione della casa, i prestiti personali ecc.

Per arginare le difficoltà degli Stati, fino a poco fa esortati a indebitarsi al fine di alleggerire il debito privato, è previsto uno “scudo antispread” che consiste in acquisti sul mercato secondario, in sostanza dalle banche e non presso gli Stati emittenti, di titoli del debito di paesi in difficoltà finanziarie “non giustificate” dai loro “fondamentali specifici”.

Fuori dalla terminologia specifica significa che, se il differenziale di tassi del debito pubblico fra l’Italia e, per esempio, la Germania è eccessivo, potranno essere comprati dalla Bce titoli di Stato italiani, i quali così subiranno meno pressioni da parte della speculazione finanziaria. Ma l’intervento sarà a discrezione della banca europea che interverrà solo se i costi del debito italiano imposti dai mercati non saranno giustificati dai cosiddetti “fondamentali”, cioè se, a suo modo di vedere, la finanza di quel paese sarà sana (ti prestiamo l’ombrello solo se non piove!). I requisiti? Politiche fiscali “sostenibili”, tra cui non avere deficit “eccessivi” e avere adempiuto agli obblighi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), adottare le “riforme strutturali” in esso indicate, il tutto valutato dalla burocrazia della Bce, di cui conosciamo la cultura ordoliberista, e con il rischio di perdere anche quel minimo margine di sovranità politica fin qui caritatevolmente concessoci. In altre parole lo spettro greco è in vista in molti Stati, e noi siamo fra questi. Il quantitative esasing di Draghi, pur con i suoi enormi limiti, era un po’ meno peggio perché meno discrezionale nel valutare l’opportunità di intervenire. Ma di ciò ci riserviamo di scrivere più in dettaglio in altra occasione.

Quello che invece intendiamo discutere in questa sede è l’idea dell’aumento dei tassi per tenere a bada l’inflazione. Certamente in periodi in cui l’economia è surriscaldata, un aumento dei tassi, che tende a ridurre gli investimenti delle imprese, la spesa pubblica e i consumi delle famiglie, ha una sua efficacia. Ma si può dire che esista un surriscaldamento dell’economia in Eurolandia o è vero l’esatto contrario?

Credo che pochissimi analisti sarebbero disposti a sostenere che l’inflazione derivi da un eccesso di domanda e non da una carenza di offerta, dovuta ai colli di bottiglia venutisi a formare con la pandemia prima e con le sanzioni europee alla Russia poi. In un sistema produttivo fortemente frammentato, in cui la catena del valore passa attraverso numerosissime imprese dislocate in tutto il mondo, lo stop di una di esse o in un ingranaggio del sistema dei trasporti di merci provoca effetti su tutta la filiera rendendo meno disponibili, e quindi più costosi, molti prodotti. Se a ciò si aggiunge la pretesa di fare a meno dei prodotti energetici e delle materie prime russi, rivolgendosi a forniture assai più costose, vedi quelle Usa, l’inflazione potrebbe tornare a due cifre e l’aumento dei tassi, mettendo in difficoltà o addirittura facendo chiudere molte imprese, aumenterebbe proprio i problemi di offerta, che sono il vero elemento di criticità. L’effetto più probabile di questa stretta monetaria, più che di ridurre l’inflazione, sarà di deprimere ancora di più l’economia reale.

Anche la Banca Mondiale, infatti, ha dovuto aggiornare al ribasso le sue previsioni di crescita: quest’anno l’economia globale dovrebbe crescere solo del 2,9%, mentre a gennaio aveva previsto una crescita del 4,1%. L’Ocse ha sostanzialmente confermato tali previsioni aggiungendo che questa frenata tenderà anche a far rallentare l’inflazione.

C’è da domandarsi allora in che mani siamo, se questo schizofrenico ondeggiare fra espansione monetaria in misura eccezionale (“whatever it takes” di Draghi) e drastica restrizione monetaria, sia pure temperata dalle discrezionali misure antispread, non sia il sintomo di un’incapacità – o di una mancanza di volontà – di fondo di affrontare i veri nodi della crisi sistemica. Se la politica monetaria espansiva genera inflazione e quella restrittiva genera recessione, non sarà che la politica monetaria non è più in grado di governare l’economia quando siamo di fronte a entrambi gli spettri, e occorrerebbe ricorrere ad altri strumenti che l’Ue devota alla libera concorrenza aborre? Nel caso dell’Italia si può ancora incentivare l’indebitamento in presenza di un debito pubblico al 150% del Pil per combattere la recessione oppure tagliare i cordoni della borsa provocando un peggioramento della produzione? La vera alternativa, la programmazione pubblica, la pubblicizzazione dei settori strategici e la normalizzazione dei rapporti commerciali nell’ambito dell’Eurasia, evidentemente confligge con gli interessi prevalenti del grande capitale.

Non lo dice solo un bolscevico. Nel 2008, il presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva convocato un gruppo massimi esperti internazionali, presieduto dall’economista premio Nobel Joseph Stiglitz, da cui pur dissento su molte altre questioni, per affrontare questo il nodo della crisi mondiale. Il Rapporto che ne è scaturito, considera la crisi finanziaria strettamente correlata con quelle di cibo, acqua, energia e sostenibilità e raccomanda profondi cambiamenti strutturali e politici per molti anni a venire. Sappiamo che la crisi del 2008 è stata invece affrontata favorendo la formazione di una nuova bolla finanziaria. Più recentemente Stiglitz ha dichiarato che: “una politica monetaria e fiscale restrittiva può impedire una risposta efficace ai problemi dal lato dell’offerta”. Occorrerebbe invece, conclude, l’intervento dello Stato per contrastare gli oligopoli e la crescita abnorme dei profitti delle società petrolifere e per attivare nuove politiche industriali e fiscali.

La pandemia e la guerra stanno modificando profondamente il panorama mondiale. Si assiste alla chiara perdita di supremazia economica degli Usa e all’affacciarsi impetuoso di nuove realtà mondiali, Cina, Russia, India, Iran, America Latina, Africa ecc. verso un globo multipolare che la potenza americana cerca con ogni mezzo criminale di esorcizzare.

In questo quadro l’Europa, che poteva essere uno dei poli in grado di avvalersi di importanti sinergie con la Russia, ha preferito appiattirsi sull’alleato atlantico e porre in essere suicide sanzioni economiche alla Russia di cui sta pagando care le conseguenze.

Come ha scritto Michael Hudson, “l’interruzione delle catene di approvvigionamento mondiale di energia, cibo e minerali e la conseguente inflazione ha imposto enormi tensioni economiche agli alleati degli Stati Uniti in Europa e nel Sud del mondo. Eppure l’economia statunitense ne sta beneficiando, o almeno settori specifici dell’economia statunitense ne stanno beneficiando”. Ne è un segnale l’andamento del tasso di cambio fra dollaro ed euro che ha visto arretrare sensibilmente la nostra moneta. A seguito delle sanzioni gli States potranno esportare molto più che in passato gas liquefatto in Europa, imponendo fra l’altro ai governi europei rilevanti investimenti infrastrutturali e scempi ambientali. Non vi è dubbio che “l’economia europea è colpita più di ogni altra cosa. Le statistiche mostrano che il 40% dei danni causati dalle sanzioni è a carico dell’Ue, mentre il danno per gli Stati Uniti è inferiore all’1%” (dichiarazione del ministro russo Sergey Viktorovich Lavrov riportata da Hudson nel medesimo articolo sopra citato).

Analoghe considerazioni provengono dal giornale francese “Le Figaro, secondo cui, “come per la crisi dell’euro e l’ondata migratoria, lo shock energetico dell’inverno 2022 metterà alla prova la sua [dell’Unione Europea] unità”. Per questo molte grandi aziende non comprendono perché sia stato abbandonato il mercato russo, visto che le drastiche sanzioni non hanno fermato la guerra ma alimentato “enormi perdite” economiche, stimate in diversi milioni se non miliardi di dollari, alle imprese europee.

I danni non si limiteranno all’emergenza energetica. Molte di queste aziende avevano attività localizzate in Russia, che ora dovranno svendere. Come in politica, anche in economia i vuoti vengono colmati, e lo saranno per mano dell’imprenditoria russa, cinese o di altri paesi meno succubi dell’imperialismo americano. Una volta perse queste opportunità non sarà agevole riconquistarle.

In questo disordine economico generalizzato lo stesso Fondo Monetario Internazionale dichiara allarmato che “il mondo potrebbe presto ritrovarsi sull’orlo della recessione” e teme il pericolo di disordini sociali legati all’aumento dei prezzi del cibo e dell’energia. Naturalmente per “mondo” intende il suo mondo, quello “civile”, “democratico” ecc., secondo i consueti canoni razzistici liberali.

Aggiungiamo a ciò che per molti paesi europei si prospetta a breve termine una gravissima carenza di prodotto energetici la quale, oltre a mettere in difficoltà le famiglie, specie le più disagiate, produrrà nuovi contraccolpi alla nostra economia che sta marciando a passi veloci verso il baratro. Tant’è vero che sia i singoli Stati che l’Ue hanno già elaborato programmi di razionamento. Inoltre, a fronte di un’unità di intenti di facciata trai i singoli paesi, si assiste allo sventagliamento di tattiche, fra di loro in contrasto, per far fronte, attraverso l’aggiramento di alcune sanzioni, triangolazioni ecc., alle enormi difficoltà. Insomma anche in fatto di unità mi pare che l’Unione Europea non abbia compiuto passi avanti.

Anche la Berliner Zeitung, dopo avere riferito le preoccupazioni per la possibilità che le scuole vengano chiuse a seguito della crisi energetica, e con ciò posto problemi anche alle famiglie dei lavoratori, si occupa dei problemi delle imprese legati all’aumento dei prezzi dell’energia e riporta l’intento del ministro delle Finanze Linder di venire loro incontro. Insomma che le sanzioni costituiscano un boomerang può essere messo difficilmente in discussione.

Vediamo ora la cosa dal lato del “nemico”, Russia e Cina. La Russia doveva essere ridotta al default e invece i suoi conti migliorano e il rublo si apprezza.

La supremazia del dollaro doveva essere imposta dalle armi e dalle sanzioni e invece è stata prodotta un’accelerazione della sua sostituzione con altre valute negli scambi internazionali e nelle riserve degli Stati.

La Russia avrebbe dovuto essere isolata e invece ha consolidato i suoi rapporti con Cina, India, Iran, mentre i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) vanno verso un loro allargamento.

Il sistema di pagamento internazionale made in Usa, che doveva bloccare il commercio internazionale della Russia, viene sostituito da altri sistemi made in China e in Russia.

Putin avrebbe dovuto subire una perdita di autorevolezza e preferibilmente un rovesciamento, ma non mi pare che ci siano segnali di questo tipo. Ci sono invece diversi governi europei in crisi, a partire dal nostro, da quello britannico e da quello tedesco, mentre anche i consensi di Biden paiono in discesa.

La guerra guerreggiata si sta sviluppando per ora in maniera favorevole alla Russia e, salvo un intervento ancora più pesante della Nato, che sarebbe una tragedia per l’umanità, sembrerebbe prevedibile una sconfitta dell’Occidente. Ma su questo non ho certezze. 

Sulla guerra economica, invece, le incertezze sono assai inferiori e il “mondo libero” si sta avviando verso una catastrofica sconfitta (sempre al netto di una guerra nucleare).

Nel contesto dei periodi bui che ci attendono è fortemente esecrabile che i gruppi dirigenti dei vari partiti comunisti non abbiano trovato il modo di concordare una comune piattaforma elettorale basata sulla richiesta di uscita dell’Italia dal conflitto e si presentino in ordine sparso, compromettendo ulteriormente la loro credibilità di fronte alla classe lavoratrice.

06/08/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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