Le recenti elezioni politiche americane di midterm (medio termine), che a livello più generale, come ampiamente riportato nella stampa internazionale, hanno visto un sostanziale recupero del Partito Democratico sul Partito Repubblicano, con l’ottenimento della maggioranza in uno dei due rami del Congresso Federale, la Camera dei Rappresentanti, saranno tuttavia ricordate, soprattutto nella sinistra americana e internazionale, per l’elezione di due giovani donne, Alexandra Ocasio-Cortez nel distretto di Queens-Bronx a New York, e Rashida Tlaib, in uno dei distretti periferici di Detroit, entrambe esponenti dei Democratici Socialisti d’America (DSA).
Il risultato in realtà era atteso, come avevamo a suo tempo riportato su queste pagine e ne abbiamo già dato notizia sul precedente numero ricordando, peraltro, anche la riconferma del Sen. Bernie Sanders, che ha vinto, come in precedenza, da candidato indipendente, mentre i DSA al momento rappresentano una frazione del Partito Democratico.
Quello che vogliamo invece approfondire in questa sede è come l’ascesa sul piano elettorale dei Democratici Socialisti nell’arena politica statunitense possa interpretarsi come l’effetto, o punta dell’iceberg, di un crescente movimento radicale di base nella società americana, con alcuni orientamenti, benché non ancora del tutto coerenti e lineari, di antagonismo esplicito al capitalismo, e quanto, di converso, questa ascesa possa dare ulteriore forza e sponda istituzionale a questi movimenti.
L’argomento è stato oggetto di discussione in alcune delle sessioni più seguite e partecipate dell’annuale Conferenza Marxista (Marxism Conference 2018) svoltasi a New York proprio pochi giorni dopo la tornata elettorale, ed organizzata dalla ISO (International Socialist Organization), uno dei movimenti politici di estrazione marxista tra i più attivi negli USA in questi ultimi anni, e che annovera tra le proprie fila un numero significativo di militanti e attivisti appartenenti ai cosiddetti millenials, generazione che era già stata indicata come componente fondamentale nell’exploit elettorale di Bernie Sanders durante la campagna presidenziale del 2016. Peraltro le stesse Alexandra Ocasio-Cortez e Rashida Tlaib sono nate politicamente da quell’esperienza.
Uno dei temi di una sessione della Conferenza è stato appunto quello del rapporto tra i democratici socialisti e i socialisti rivoluzionari, con la consapevolezza, presente in tutti i partecipanti e militanti, che il peso politico dei partiti e dei movimenti politici che si richiamano esplicitamente al marxismo e che perseguono una prospettiva politica autenticamente rivoluzionaria è ancora trascurabile (e non solo negli USA) e certamente minoritario rispetto invece alla massa critica di militanti e attivisti che, in pochi anni, la frazione dei democratici socialisti, DSA, ha saputo mobilitare, peraltro allargando quella che era la base militante della sinistra progressista tradizionale (la cosiddetta ala “liberal”) del Partito Democratico.
Un primo aspetto che è emerso nella discussione è la necessità di mantenere la distinzione tra le posizioni che si richiamano alla “socialdemocrazia”, almeno come questa si è trasformata negli ultimi decenni in tutti i paesi occidentali, divenendo di fatto una delle forze politiche di riferimento più affidabili per la componente globalista e transnazionalista del grande capitale internazionale, e la dicitura “democratici socialisti” che invece viene volutamente intesa come una posizione socialista a tutti gli effetti, cioè come una posizione politica che si pone necessariamente l’obiettivo del superamento del capitalismo, e non della (presunta) mitigazione sociale dei suoi effetti attraverso politiche redistributive o di altro genere, che è invece l’essenza dell’orientamento politico dei partiti socialdemocratici tradizionali un po’ dappertutto, e al netto di qualche minima differenziazione.
Ma qual è quindi la reale essenza politica e rivoluzionaria dei democratici socialisti? La valutazione pressoché unanime che è emersa dal dibattito è che essi possono essere considerati come una forza socialdemocratica, nel senso che questo termine aveva assunto in una fase storica precedente, e segnatamente all’inizio del XX secolo. Se si analizzano infatti programmi e posizioni, appare evidente che i democratici socialisti si pongono degli obiettivi riformisti e anche quando adottano una prospettiva di superamento del capitalismo, lo fanno con quella che era la posizione tipica della socialdemocrazia di un tempo: utilizzare ed impossessarsi, attraverso le elezioni e i meccanismi della democrazia rappresentativa borghese, delle strutture e delle istituzioni statali (borghesi) per realizzare delle riforme a beneficio delle classi subalterne e proletarie, ma senza però rimettere in discussione le fondamenta strutturali del dominio economico di classe che è alla base del capitalismo. Una tale prospettiva è poi sintomatica di una visione della rivoluzione attuata “dall’alto” e non “dal basso” che veda cioè protagonista la classe operaia e le altri classi subalterne con cui allearsi ed egemonizzare, che è e deve essere sempre la prospettiva unica percorribile per i socialisti rivoluzionari che si rifanno al marxismo ed al materialismo storico-dialettico.
Nonostante queste limitazioni di impostazione ideologica e politica, quello che è tuttavia emerso dalla conferenza, soprattutto da parte dai militanti più consapevoli e con un bagaglio di maggior esperienza di lotte operaie e sociali, è il ruolo positivo che l’ascesa dei DSA può giocare in una prospettiva di lungo termine, poiché oggi la rivoluzione realisticamente non è e non può essere all’ordine del giorno negli USA. In particolare molti hanno insistito sul fatto che certe battaglie politiche che i democratici socialisti porteranno avanti, anche sfruttando “leninianamente” il “diritto di tribuna” che si sono guadagnati, possono risultare estremamente utili nella mobilitazione delle classi proletarie anche partendo da obiettivi concreti che riguardano la vita quotidiana, quali l’assistenza sanitaria universale o il diritto allo studio. Possono inoltre dare maggiore forza e visibilità a tante lotte e vertenze che vedono protagonisti i lavoratori così come altri movimenti sociali radicali, approfittando della maggiore visibilità istituzionale e quindi mediatica che hanno ottenuto.
In generale, con il loro richiamo al socialismo, essi potranno dare maggiore consapevolezza politica alle lotte sociali ed indirizzarle verso una prospettiva di cambiamento più radicale. I movimenti e le forze politiche marxiste rivoluzionarie potranno quindi positivamente inserirsi in queste lotte con l’obiettivo di migliorare l’organizzazione di base della classe operaia e delle altre classi subalterne e antagoniste alle classi dominanti. C’e’ ovviamente da attendersi una reazione da parte di queste ultime nella misura in cui i movimenti antagonisti e radicali vadano accrescendo la loro presa sulle classi subalterne e la loro capacità di mobilitazione.
Se è vero che Trump e il suo avvento in politica hanno determinato una dose di instabilità e di caos nel sistema politico dominante, è altrettanto vero, e di questo la maggioranza dei militanti rivoluzionari mostrano di averne consapevolezza, che egli incarna la mobilitazione e l’ascesa al potere di un’estrema destra che le stesse classi dominanti potranno decidere, ricompattandosi, di sfruttare nel momento in cui percepiranno una potenziale minaccia al sistema da parte dei movimenti sociali radicali e di classe. Questo è un aspetto molto delicato, che fin qui ha spesso comportato divisioni all’interno della sinistra radicale progressista americana. Vi sono coloro, una minoranza per la verità, che hanno salutato positivamente l’avvento di Trump come elemento di destabilizzazione del fronte del capitale e delle classi e dei settori che su di esso basano il loro dominio sociale. Molti altri però ricordano, e sono in tal senso supportati dagli insegnamenti di Marx e Lenin, che gli agenti del capitale possono dividersi anche aspramente tra loro, ma nel momento in cui dovessero percepire un peggioramento dei rapporti di forza rispetto alle classi dominate, sono capaci di ricompattarsi e di scatenare una reazione dura e violenta. La storia del capitalismo lo ha dimostrato in svariate occasioni, come in molti hanno ricordato.
L’obiettivo quindi di un fronte comune delle forze politiche di sinistra, sia socialdemocratiche che rivoluzionarie, contro il pericolo fascista, sia pur nelle forme e nelle vesti molto differenti dal passato che esso assume nel XXI secolo, è vista da molti come una necessità primaria e imprescindibile. Peraltro nel corso degli ultimi anni la mobilitazione che si è verificata nella società americana su questo fronte ha fatto comprendere come queste lotte siano state molto utili anche dal punto di vista della crescita e dell’evoluzione di una coscienza di classe.
Molti hanno ricordato come anche all’interno del Partito Democratico esistono naturalmente settori e forze che tenteranno in ogni modo di ridimensionare, se non di annullare completamente, l’azione politica dei Democratici Socialisti. Il ruolo che in tal senso ha assunto l’attuale leader democratica al Senato, Nancy Pelosi, è significativo soprattutto nella misura in cui ciò si combina con il tentativo di una parte dell’establishment democratico, adesso che è stato raggiunto il controllo di una delle due camere del Congresso, di avviare una prospettiva di “pacificazione nazionale” in chiave “bipartisan”, una manovra concepita chiaramente per marginalizzare, da una parte, la componente repubblicana iperconservatrice, attualmente legata a Trump, scongiurando una sua possibile rielezione, e, dall’altra, tutelarsi dallo scivolamento a sinistra del Partito Democratico che, nella loro visione, porterebbe ad una nuova sconfitta alle presidenziali del 2020, alienandogli il consenso della classe media.
Senza voler entrare nel merito di questa visione della società e della politica americana, che potrebbe seriamente essere messa in discussione se si analizzassero meglio certi dati, ciò che invece emerge è il quesito fondamentale se l’ascesa dei Democratici Socialisti d’America (DSA), possa, sul lungo periodo, portare alla trasformazione radicale del Partito Democratico oppure dar vita ad un nuovo partito indipendente, una terza forza politica nell’arena americana che si richiami in maniera esplicita al socialismo e che possa rappresentare un forte richiamo soprattutto per quei settori della classi lavoratrici che sono del tutto estranee alla vita politica attiva.
Questo argomento è stato al centro di un’altra sessione molto sentita e partecipata durante la Conferenza. La stragrande maggioranza degli intervenuti si è pronunciata a favore della nascita, in un orizzonte di medio periodo, ad un partito indipendente di sinistra che si richiami in qualche modo al socialismo. A supporto di questa tesi sono stati evidenziati alcuni fattori oggettivi che caratterizzano oggi la società americana: una sempre crescente mobilitazione nelle lotte sindacali e nei movimenti sociali di protesta, come non si vedeva da molti decenni; la comparsa di nuovi movimenti ed organizzazioni politiche di sinistra radicale soprattutto tra i giovani; la crescente insofferenza e verso il sistema politico bipartitico dominante ma anche la perdita di fiducia verso il sistema dei media mainstream; la saldatura che, grazie anche all’era Trump, è avvenuta tra molte di queste lotte e movimenti, ad esempio tra le lotte contro il razzismo ancora dominante nella società USA e quelle per i diritti degli immigrati o per il salario minimo o contro i movimenti di estrema destra. E si potrebbe continuare.
Assunta quindi la necessità storica di un partito indipendente di massa negli USA, tutti hanno convenuto sulla centralità della classe lavoratrice come base sociale fondamentale per l’emersione di una forza politica organizzata di livello nazionale. Al di là delle possibili discussioni sul modello organizzativo, con posizioni contrapposte tra sostenitori del centralismo e quelli della democrazia diffusa, ciò che in molti vedono come strategicamente decisiva è la capacità di mobilitazione politica, in particolare la capacità di trasformare un sentimento sociale in azione politica concreta.
Alcuni hanno sottolineato come questa mobilitazione debba partire proprio dai temi concreti che interessano le condizioni di vita materiale della classe lavoratrice: le lotte per il salario minimo e per gli aumenti salariali; le lotte per l’assistenza sanitaria universale; le lotte contro la repressione poliziesca a sfondo razziale; le lotte per il diritto alla casa. Come si è detto molte di queste lotte hanno visto una crescente partecipazione di massa, sia pur non in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale, e sono state le lotte in cui si sono forgiati gran parte dei Democratici Socialisti.
Naturalmente uno dei principali ostacoli alla formazione di una forza politica indipendente saranno i numerosi vincoli normativi e sostanziali che tuttora esistono nell’esercizio effettivo dei diritti politici ed elettorali da parte dei cittadini americani: dalle restrizioni al diritto di voto per motivi penali, anche per coloro che hanno commesso reati minori, all’organizzazione stessa delle operazioni elettorali, con la dislocazione dei seggi spesso disagevole nei quartieri operai e popolari, agli orari e ai giorni prescelti. Per non parlare poi dei metodi di attribuzione dei voti con meccanismi di stampo maggioritario spesso fortemente distorsivi del voto popolare.
Ma non basta. Il problema dei costi dell’attività politica, soprattutto elettorale, e del loro finanziamento, è un altro elemento che non favorisce l’ingresso di forze politiche nuove nel sistema. Si è visto come le candidate dei democratici socialisti abbiano brillantemente superato questo ostacolo attraverso una raccolta diffusa di fondi e conducendo una campagna elettorale di forte presenza sui territori e nelle lotte. Ma non sempre questo è di facile realizzazione.
Di fronte a questi ostacoli e queste difficoltà di cui tutti i militanti e attivisti hanno consapevolezza, non possiamo tuttavia concludere senza prima aver evidenziato la significativa maturità politica di una parte delle giovani generazioni che oggi negli USA si stanno riappropriando di una partecipazione attiva alla vita politica che fino a pochi anni fa poteva apparire una chimera. Se queste sono le premesse, e se i primi risultati si cominciano a vedere, non c’è che da ben sperare nella futura evoluzione della politica americana e che i semi del socialismo possano fiorire anche in questo aridissimo terreno in cui affonda le radici l’imperialismo e il capitalismo globalista dei giorni nostri.