Il 29 dicembre 2023 è stata approvata in via definitiva la legge di bilancio per l’anno 2024, più nota come finanziaria, che stabilisce la politica economica dello stato italiano per quell’anno e i successivi. Questa manovra si inserisce nel solco della politica economica liberista, richiesta dalla Commissione europea, concedendo alcuni contentini alla propria base elettorale. Per comprendere a pieno la portata politica ed economica della manovra, la sua valutazione deve essere fatta nel quadro degli altri patti siglati dal governo in carica e delle prossime scadenze politiche.
Solo circa una settimana prima al varo della manovra, il parlamento, con i voti di Fratelli d’Italia, Lega e Movimento 5 Stelle, aveva bocciato la ratifica della riforma del MES, il fondo salva-Stati [1]. Il fondo europeo pensato dalla burocrazia tecnocratica della UE per intervenire mediante prestiti al fine di “salvare” gli stati e le banche europee in difficoltà, in cambio di misure draconiane di macelleria sociale. In pratica un cappio al collo del debitore. Quasi contemporaneamente, il governo in carica aveva capitolato in consiglio europeo sul nuovo patto di stabilità europeo, che restaura completamente l’austerità di Maastricht per i paesi dell’UE, Italia compresa, dopo le politiche economiche in deficit concesse nella fase della pandemia.
L’impressione è che la destra al governo abbia approfittato dell’attenzione mediatica puntata sulla bocciatura del MES per far passare in sordina l’accettazione della politica economica di austerità. Politica che impegnerà il nostro paese a misure di forte contenimento della spesa sociale nei prossimi decenni. In cambio il governo Meloni ottiene qualche maggiore concessione da parte della Commissione Europea sulle misure di rigore per l’attuale finanziaria in modo da presentarsi da vincitore e difensore delle masse popolari alla prossima tornata elettorale del parlamento europeo, prevista a giugno di quest’anno. L’operazione politica della destra è stata facilitata dalla debolezza dell’opposizione, che è risultata divisa e con la componente filo-UE di PD, Azione e Italia Viva critica da destra al governo sulla bocciatura del MES, invocando di fatto le misure di austerità della Commissione. Misure di cui la destra porta, insieme alla “sinistra”, tutta la responsabilità politica in qualità di artefici della UE. Non a caso, ciliegina sulla torta, Forza Italia si è astenuta sulla ratifica del MES. Fondo che, nel 2011, l’allora governo Berlusconi, di cui figurava come ministro della gioventù Giorgia Meloni, aveva contribuito a istituire.
La finanziaria con un deficit di circa 15,7 miliardi di euro, pari allo 0,7% del PIL, prevede il sostanziale galleggiamento del governo Meloni fino alle elezioni europee e ai possibili prossimi appuntamenti di modifica della Costituzione, evitando di intraprendere da subito misure fortemente impopolari. I provvedimenti previsti dalla manovra da una parte si caratterizzano per portare avanti le politiche della destra, di smantellamento del salario indiretto e della proporzionalità della politica fiscale, dall’altra evitano accuratamente di aggredire direttamente le classi popolari, concedendo misure economiche provvisorie a vantaggio dei ceti meno abbienti.
In questo contesto è da inserire il tradimento delle proprie promesse politiche sulla riforma Fornero, che non viene cambiata, ma inasprita con le modifiche a quota 103, Ape sociale e opzione donna. Analogo indirizzo è portato avanti, nonostante lo sbandierato aumento del finanziamento nel triennio 2024-2026, per la sanità pubblica, che oltre a non coprire l’aumento di spesa sanitaria dovuto all’inflazione andrà in buona parte ai rinnovi contrattuali di settore (comunque molto al di sotto dell’inflazione del triennio) o a misure inefficaci a risolvere i problemi del settore, come la cronica carenza di organici, favorendo invece l’utilizzo da parte della popolazione del privato convenzionato [2]. L’investimento previsto non è in grado di invertire la tendenza dei scaricamento delle spese per l’assistenza e dei costi sanitari sulle famiglie, dovuta al cronico sotto-finanziamento della spesa pubblica “a fronte di una domanda crescente di prestazioni in larga parte indotta dall’invecchiamento della popolazione e dalla conseguente maggiore diffusione di patologie croniche” [3].
Per quanto riguarda le tasse, oltre a procedere con la politica dei bonus, si accorpano i primi due scaglioni dell’IRPEF, per il momento solo per l’anno 2024, procedendo, di anno in anno, verso la flat tax. L’altro provvedimento più corposo,di circa 10 miliardi, è il taglio del cuneo fiscale per il 2024, che si risolverà in un aumento di circa 100 euro al mese in busta paga, ma solo per l’anno in corso. Operazione facilitata dai sindacati confederali che invece di lottare adeguatamente per l’aumento dei salari, come avvenuto in altri contesti internazionali, hanno inserito nella propria piattaforma la riduzione della pressione fiscale, accreditando di fatto le misure governative. Tanto che lo stanziamento dei fondi per i rinnovi contrattuali del pubblico impiego per il triennio 2022-2024 è solo di circa il 6% a fronte di una inflazione per lo stesso triennio di circa il 20%, con una ulteriore calo dei salari reali già fortemente compressi negli ultimi decenni. Eppure nei rinnovi di settore, come quello della conoscenza, si è rivendicato di aver ottenuto per il precedente triennio 2019-2021, rinnovato in ritardo, aumenti superiori all’inflazione a fronte del contemporaneo aumento molto consistente del costo della vita.
Per quanto riguarda il finanziamento della manovra si prevede di tagliare i finanziamenti, in primis la spesa pubblica, ma anche diversi incentivi concessi in questi anni (superbonus, bonus mobili,…). Si fa cassa sulle pensioni per circa 2,7 miliardi, che non vengono adeguate all’inflazione, e si prevedono privatizzazioni per un valore di circa 20 miliardi di euro. Dopo il vergognoso dietrofront della destra sulla ex-compagnia di bandiera Alitalia, si continuerà la vendita di Mps, salvata nel 2017, come richiesto dalla Commissione europea. Si prevedono inoltre le parziali vendite di Poste Italiane, Ferrovie dello Stato, ENI e Raiway; tuttavia non è detto che questi incassi preventivati si riescano ad effettuare nei tempi e con gli introiti previsti. Quello che, invece, sarà avviato è il carrozzone della costruzione del Ponte sullo Stretto, sebbene la spesa prevista di 11,6 miliardi è stata spalmata su molti anni (dal 2024 al 2032), in parte a carico delle regioni Sicilia e Calabria. Altro introito previsto è quello a partire dal 2025, in seguito all’entrata a vigore nel 2024, della tassa piatta alle multinazionali del 15%, che molto probabilmente, per una serie di facili scappatoie per le stesse, frutterà molto meno di quanto previsto (400 milioni contro i 2-3 miliardi previsti). D’altronde il governo ha dimostrato ampiamente di non voler far nulla contro l’evasione fiscale, che nel nostro paese si attesta a circa 100 miliardi l’anno.
La rinnovata austerità, che comporterà tagli alla spesa pubblica di 15-20 miliardi di euro per i prossimi decenni, si inserisce in un contesto generale fortemente preoccupante. La crescita stimata è quasi inesistente, il Centro Studi Confindustria ha stimato per il 2023 un aumento del PIL dello 0,7% e per il 2024 del 0,5%. Da una parte incide negativamente l’aumento dei tassi di interesse da parte della BCE, che molto probabilmente non caleranno nel breve periodo, dall’altro la dinamica negativa del commercio internazionale, che potrebbe ulteriormente peggiorare con l’aggravarsi degli attacchi nel Mar Rosso [4], dopo l’aggressione della coalizione a guida USA allo Yemen.
Il quadro europeo e internazionale non è migliore, togliendo possibilità di esportazioni all’Italia, in un paese dove si è puntato tutto sulla produzione di merci per l’esportazione, comprimendo il costo della forza-lavoro. La Germania, principale mercato di sbocco in UE delle nostre merci, è in recessione, con una caduta del PIL nel 2023 dello 0,4%. In calo è anche la crescita del PIL mondiale, stimata per dal FMI al 3% nel 2023 al 2,8% nel 2024, anche a causa delle politiche protezionistiche lanciate dall’Occidente a guida USA, a cui l’attuale governo ha acriticamente aderito nel quadro della incondizionata fedeltà atlantica, abbandonando gli accordi con la Cina siglati dal governo Conte. Tutti questi fattori comporteranno probabilmente un aggravarsi della bilancia commerciale, in decifit per 31 miliardi di euro nel 2022, in seguito al calo delle esportazioni e all’aumento del costo dell’energia.
Non va meglio nel mercato interno dove la contrazione dei salario reale, in tutte le sue forme, ha portato ad un impoverimento dei lavoratori con una conseguente contrazione della spesa. L’aumento dei tassi d’interesse ha aggravato l’indebitamento delle piccole e medie imprese e delle famiglie, nonché quello dello stato italiano. Secondo i dati Abi di ottobre 2023, il tasso di interesse per l’acquisto di immobili era al 4,37% contro il 2,05% del giugno 2022, mentre il tasso medio per i nuovi prestiti alle società non finanziarie era al 5,45% contro l’1,44% di giugno 2022. Per il 2024 sono previsti titoli di debito in più rispetto alle naturali scadenze per 130-140 miliardi di euro, con tassi di interesse molto simili per i Bot semestrali e i Btp decennali, con rendimenti rispettivamente al 4% e al 5%.
Inoltre l’inflazione non tende a calare, nonostante l’aumento dei tassi di interesse, mantenendosi intorno al 5%, dopo il forte picco del 2022. La stima di un’inflazione al 2,7% per il 2024 e di circa il 2% per il 2025 e 2026 appare molto rosea visto il quadro internazionale di maggiori difficoltà al commercio globale e l’aumento del costo del lavoro per unità di prodotto. Per i lavoratori italiani inoltre si prepara un ulteriore stangata dalla liberalizzazione del gas e dell’energia, richiesta per accedere ai fondi PNRR [5], che aumenteranno il debito rischiando di non svolgere il ruolo di volano per l‘economia preventivato. Infatti dovranno essere rimborsati circa 122 miliardi di euro a tasso agevolato dal 2028 al 2058 con un aggravio di bilancio di oltre 4 miliardi di euro l’anno per trent’anni. Fortunatamente per il governo l’ARERA ha deciso di posticipare a luglio la liberalizzazione del mercato energetico rispetto all’aprile precedentemente previsto, collocandosi dopo la tornata elettorale europea. Mentre la liberalizzazione del mercato del gas è attiva già dal 10 gennaio, con notizie di maggiori diffcoltà di tutela per le fasce più a rischio. Uno studio di Federconsumatori ha fatto emergere che il mercato libero a prezzo fisso è più caro di quello tutelato mediamente del 49%, mentre le offerte a prezzo variabile, fortemente soggette ai fenomeni speculativi visti nel 2022, sono più care in media dell’11% rispetto al mercato tutelato. Tuttavia ci troviamo oggi in un periodo di calma dell’impennata dei prezzi energetici, che potrebbero, invece, risalire nel 2024, finite le scorte del gas, per via della prevista chiusura del gasdotto russo che transita per l’Ucraina e dell’aggravarsi del commercio lungo la rotta di Suez, da dove passa il GNL proveniente dal Qatar. Inoltre in 10 anni da cui esiste il mercato del gas le aziende hanno dato ampia prova di assenza di concorrenza interna (fanno di fatto prezzi da cartello), correttezza e trasparenza, modificando prezzi e condizioni contrattuali a proprio favore. Tutto ciò fa presagire aumenti maggiori per l’energia erogata ai soggetti più deboli, come famiglie e piccole-medie imprese, con un ulteriore aumento a cascata dell’inflazione.
Nonostante il quadro negativo, aggravato dalle scelte classiste di questo governo, Meloni e alleati riescono in qualche modo ad interloquire con le masse popolari, presentandosi come loro difensori. Il gioco è facilitato dalla opposizione di destra esercitata da PD, Azione e Italia Viva. Su tutte le scelte sostanziali, che comportano politiche impopolari, le posizioni dei due schieramenti sono di fatto equivalenti. Ciò comporta nei fatti l’assenza di una reale opposizione e di una prospettiva di un cambio di governo fino a scadenza del naturale mandato. Tutto ciò, insieme alla congiuntura economica sfavorevole e alla posizione concertativa dei principali sindacati, tende a frenare le mobilitazioni. Le masse popolari in un quadro nel quale per loro non cambia mai nulla, sono sfiduciate e poco portate a mobilitarsi, in quanto non vedono nessuna prospettiva reale di cambiamento possibile. Pertanto è necessario lavorare ad un ampio fronte politico e sociale che possa ridare prospettiva al cambiamento. Tanto più che lo scenario internazionale è sempre più polarizzato e indirizzato alla guerra, e non a caso il previsto aumento delle spese militari è stato esentato dal rispetto delle regole di Maastricht, che comporteranno lacrime e sangue per i lavoratori dipendenti, ma anche per il ceto medio impoverito e per i piccoli imprenditori, a vantaggio del grande capitale.
[1] https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/il-mes,-il-debito-e-la-guerra
[2] https://www.saluteinternazionale.info/2023/12/la-sanita-nella-legge-di-bilancio/
[4] https://www.lacittafutura.it/esteri/il-governo-meloni-porta-l%e2%80%99italia-in-guerra
[5] https://www.lacittafutura.it/interni/il-pnrr-nella-politica-reazionaria-dell%e2%80%99imperialismo