Il 20 giugno scorso il Consiglio d’Europa ha raggiunto un accordo di massima sulla proposta di legge riguardante il “ripristino degli ambienti naturali” (nature restoration law). Tale proposta mira a realizzare misure di recupero di torbiere, stagni, aree boschive ecc. che coprano almeno il 20% del territorio e il 20% delle aree marittime dell’Unione Europea entro il 2030, e la totalità degli ecosistemi bisognosi di riattivazione entro il 2050.
È indubbia l’urgenza di contrastare la distruzione della biodiversità e degli habitat naturali, anche per il suo stretto intrecciarsi con la crisi climatica. D’altra parte, il ripristino di aree paludose o comunque selvatiche, dopo che queste erano state “bonificate” per far posto a colture, allevamenti intensivi o altre attività di tipo industriale, comporta in molti casi problemi di mancata produzione, ad esempio agricola, nonché di pesanti riduzioni di posti di lavoro.
L’apparente dilemma fra lavoro e inquinamento, oppure salute e disoccupazione si configura come un problema che ripropone, su scala continentale, quello delle acciaierie Italsider di Taranto. Spesso in questi casi, da parte delle forze politiche di sinistra è stata data la priorità al lavoro, ma negli ultimi decenni i movimenti ambientalisti hanno privilegiato la difesa della salute anche rispetto alla possibile perdita di posti di lavoro.
In realtà però, si tratta di una falsa alternativa, generata dalla distorsione introdotta nelle politiche industriali dall’acritica accettazione del modello di produzione capitalistico, basato sulla privatizzazione, lo sfruttamento della forza-lavoro dipendente e la massimizzazione dei profitti. Non c’è da meravigliarsi quindi che, sia il sostegno che l’opposizione alla “nature restoration law” provengano, trasversalmente, sia dalle formazioni di destra che da quelle di sinistra, sia pur con motivazioni diverse. Infatti, da una parte si collocano le lobby della produzione agricola e degli allevamenti intensivi, dall’altra quelle che puntano sulle energie rinnovabili, nella cui ottica le pale eoliche, il fotovoltaico ecc. costituiscono un investimento altamente redditizio. Quest’ultimo è ciò che viene definito “greenwashing”, ossia una politica solo apparentemente ecologica, nella limitata misura cioè in cui risulti compatibile con la logica della massimizzazione dei profitti.
Dall’altra parte, gli ecologisti della sinistra “verde” sostengono convintamente il disegno di legge europeo, anche a costo di sacrificare posti di lavoro, invocando la prospettiva di un’ipotetica riconversione industriale (che però di fatto, persistendo il sistema attuale, sarebbe vincolata ad un’improbabile lungimiranza dei capitali, ossia alla loro disponibilità a rinunciare, sia pur temporaneamente, a parte degli attuali profitti). Le forze della sinistra sindacale invece fanno pressione, se non per abolire la legge tout court, almeno per introdurre forti limitazioni nel senso di una conservazione prioritaria dei posti di lavoro attuali, anche a costo di ritardare ulteriormente le urgenti opere di ripristino proposte. Paradossalmente però, quest’ultima posizione viene a coincidere con quella trumpista, configurandosi come “eterogenesi dei fini”, in quanto il negazionismo della crisi climatica viene adottato dalle forze più reazionarie in funzione demagogica ed elettoralistica, per garantire il sostegno dei lavoratori in essere, e quindi anche il mantenimento di attività “antiecologiche”, purché queste si traducano in rendita netta da sfruttamento del lavoro dipendente, esente cioè da quelle che vengono considerate spese improduttive di riconversione industriale, misure antinquinamento e recupero della biodiversità come urgente istanza di fondo.
Si tratta, insomma, di una situazione piuttosto complessa e difficilmente risolvibile nella misura in cui ci si muova all’interno delle contraddizioni generate dalla stessa logica del profitto e della privatizzazione di tutte le risorse, inclusi i beni comuni come l’acqua o, appunto, la salvaguardia della biodiversità. Da cui l’estrema necessità di battersi per un modello di sviluppo diverso da quello liberomercatista, un modello cioè in cui le decisioni vengano democraticamente assunte nell’ambito di una razionalizzazione delle scelte che valutino caso per caso su come meglio conciliare le opposte esigenze solo in funzione dell’effettivo soddisfacimento dei bisogni dei lavoratori e di tutta la collettività, sia a breve che a lungo termine, e non degli interessi privati di una minoranza. Anche nel caso paradigmatico dell’Italsider, ad esempio, si è visto come le esigenze, entrambe fondamentali, del mantenimento del posto di lavoro e al contempo della protezione della salute di tutta la popolazione, siano risultate incompatibili con l’approccio politico di base che si ostina(va) a non uscire dalle logiche della privatizzazione e della massimizzazione dei profitti, affidando all’impresa privata la soluzione delle esigenze e dei diritti dei lavoratori e della collettività nel suo insieme, cosa ovviamente non realizzabile all’interno del libero mercato.
Tale continua ad essere del resto anche l’impostazione liberista delle politiche europee, che le forze autenticamente di sinistra, pur impegnandosi ad elaborare le migliori soluzioni possibili nella fase attuale, si battono per rovesciare nel nome di un modello di sviluppo razionalmente e democraticamente programmato in grado di garantire al tempo stesso sostenibilità ecologica e piena occupazione, entrambe incompatibili con le attuali logiche del profitto.