Le crisi – secondo quanto già osservava Karl Marx – durante le quali viene interrotta la produzione e si lavora solo a tempo ridotto, ossia solo per alcuni giorni alla settimana, non cambiano per nulla l’impulso al prolungamento della giornata lavorativa. Quanto meno affari si fanno, tanto maggiore dev’essere il guadagno nell’affare che si fa. Meno tempo si può lavorare, più grande è la parte del tempo di lavoro che si deve dare al pluslavoro.
Perciò, lo stato di crisi, da cui sin dagli anni settanta il capitale non riesce a disimpegnarsi, non permette ulteriori differimenti allo sfruttamento assoluto ovunque sia possibile. In effetti tutto il lavoro vivo è disarticolato proprio in funzione di una sua ricomposizione capace di massimizzarne la tensione, per consentire al capitale di fruire di tutto il tempo dei lavoratori come tempo di lavoro e di pluslavoro effettivo. È, dunque, la crisi stessa che pare imporre la necessità di disgregare la conquista storica della forza lavoro – dal possesso materiale dell’abilità e della qualificazione a quello sociale della coscienza e delle organizzazioni di classe – come pure di eliminare ogni spreco nell’organizzazione dei tempi di lavoro, rendendoli sempre più coincidenti con i tempi di vita. L’eliminazione dei tempi morti fa sì che una parte crescente del tempo di vita sia posto a disposizione della produzione, in quanto il recupero psicofisico grava in misura crescente sul tempo di non lavoro, riducendo il tempo libero, senza calcolare l’induzione al consumo che spinge a occupare negli acquisti necessari o immaginari un tempo crescente. Le rigidità nell’organizzazione del lavoro sono eliminate per riorganizzare il lavoro in modo che l’impresa possa fruire nel modo più estensivo e intensivo della forza-lavoro.
La “flessibilità” lavorativa diviene così il termine apparentemente neutro dietro cui celare: a) la spersonalizzazione del lavoratore – appendice della flessibilità del sistema di macchine – ma anche b) la necessaria precarietà per fletterne ogni resistenza. Istituzionalizzare la permanenza di tale rapporto precario, per legge, significa ricavare dalla caduta dei salari reali un po’ di linfa per il contenimento del deficit pubblico (inteso solo come spesa sociale), ma soprattutto instillare l’ideologia dei sacrifici quale misura collettiva di una qualità della vita, destinata esclusivamente alla maggioranza espropriata. La flessibilità consente la massimizzazione dello sfruttamento del lavoratore; essa è una delle forme più pure di estrazione del plusvalore. L’applicazione della flessibilità oraria incide sulle condizioni di estrinsecazione dell’attività lavorativa, aggravandone il peso. La frantumazione contrattuale della forza-lavoro – merce al pari delle altre sul mercato, ma fonte di creazione di valore non appena racchiusa nel geloso mistero dell’appropriazione avvenuta – è stata la necessità di sopravvivenza del sistema. Non a caso gli imprenditori sono favorevoli allo scambio di riduzione oraria contro flessibilità.
Se si considera oltretutto la frequente impossibilità di riconoscere il vero “donatore”, impropriamente considerato “datore” di lavoro – si veda a riguardo la forza-lavoro in affitto per l’operare di società interinali – il quadro si delinea sufficientemente: queste forme, così adeguatamente determinate, creano quella forma dell’esercito industriale costituita dal lavoro irregolare – che Marx definisce stagnante – con una potenzialità di raggiungere un qualsiasi grado di coscienza di classe pressoché inesistente. Il suo più ovvio istinto è quello di lottare non già contro la classe dominante, ma all’interno di sé stessa (concorrenza tra lavoratori) o contro coloro che ambiscono a essere sfruttati per potersi riprodurre, come il sottoproletariato o gli immigrati. Così, ai vantaggi in termini oggettivi per la classe dominante – miglioramento delle condizioni di sfruttamento a causa di un salario sociale (e non solo della busta paga) nettamente inferiori – vanno aggiunti quelli che indirettamente giungono dal progressivo affievolimento del barlume di coscienza di classe ancora residuo.
In effetti, la mancanza di continuità in una funzione e in una sede determina innanzitutto difficoltà nei rapporti con i colleghi e una impossibilità di aggregazione e condivisione delle problematiche legate all’attività lavorativa. Se a ciò si aggiunge anche la pressoché completa vulnerabilità, forme di lotta come lo sciopero e l’organizzazione sindacale divengono un diritto completamente alienato al lavoratore. Il precariato produce solitudine, per la mancanza delle tradizionali solidarietà fra lavoratori, e crescenti difficoltà nell’utilizzo degli strumenti di difesa del passato.
La flessibilità, in aggiunta, produce un peggioramento nella vita privata dei lavoratori e dei loro familiari. I tempi dell’impresa s’impongono ancor più pesantemente sui tempi delle famiglie. I lavoratori devono sincronizzare sui ritmi del ciclo produttivo il tempo di vita proprio e dei famigliari, comprimendone arbitrariamente le necessità. Sbiadisce, fino a scomparire, il riferimento a un orario di cessazione dell’attività, sulla base del quale organizzare il proprio “tempo libero”, dare regolarità alla vita privata, consentendo un sano sviluppo dell’individuo e un regolare espletamento delle necessità familiari. Il tempo di vita, lungi dall’essere liberato, viene ad innestarsi sulle modalità organizzative, e a dipendere dall’intensità lavorativa stabilita dall’impresa. Mirando a eliminare ogni spreco nell’organizzazione dei tempi di lavoro, rendendoli sempre più coincidenti con i tempi di vita, si arriva a estendere il comando sul tempo di lavoro all’intera organizzazione sociale, sino ad includervi la totalità dell’esistenza del lavoratore, dovendola pertanto sterilizzare dalla cultura di classe formatasi, nella dispersione dei mille obiettivi indifferenti e innocui rispetto al processo di accumulazione stesso. Perciò il precariato intacca la qualità della vita in termini di progettualità personale e sociale.
Il mercato del lavoro viene così ampliato, con nuovi soggetti concorrenti, allo scopo di flessibilizzare il salario, mentre il tempo di lavoro, rimanendo lo stesso, aumenta la “produttività” capitalistica per l’uso più docile, e cioè più efficiente, di questa forza-lavoro posta di fronte all’altra. Ciò favorisce la disgregazione della coscienza di classe fra i lavoratori e della percezione da parte dei regolari di non aver altro da perdere, nella lotta contro lo sfruttamento, che le proprie catene. Così gli ideologi al servizio della classe dominante hanno buon gioco nel favorire la contrapposizione fra gli interessi dei giovani, che generalmente costituiscono la maggioranza degli irregolari, e quelli dei lavoratori regolari che vengono presentati come privilegiati in quanto garantiti. Al punto da far credere che le condizioni di sfruttamento degli irregolari dipendano essenzialmente dai presunti privilegi dei regolari. In tal modo, il ricatto esercitato sulla forza lavoro precaria si estende anche alla forza lavoro regolare che, se vuole mantenere la propria occupazione, deve rendersi flessibile e venire incontro, come l’agnello condotto al macello, alle esigenze di massimizzare l’estrazione di plusvalore da parte del proprio antagonista. In altri termini la pressione che il lavoro precario esercita sulle forze occupate, costringendo quest’ultime a divenire flessibili nell’esercizio e nella salvaguardia dei propri diritti, conquistati nel corso di decenni di lotte, porta i regolari a individuare nel precario un concorrente sleale e, oggettivamente, un crumiro. Dal momento che i precari, oltre a essere giovani, sono progressivamente lavoratori immigrati, spesso clandestini e, dunque, ancora più facilmente ricattabili.
A essere travolte dalla progressiva precarizzazione delle attività lavorative non sono solo i proletari, ma le stesse classi medie. In tal modo il precariato fa sentire i propri effetti sulla sfera esistenziale, non solo dei lavoratori atipici, ma anche sul lavoro regolare che viene reso più flessibile. La nuova divisione internazionale del lavoro esige, nella precarizzazione contrattuale, ma anche del lavoro fuori contratto, la precarizzazione esistenziale unitamente a quella culturale e ideologica delle masse mondiali. Lo sviluppo della produzione, nel vigente modo di produzione, non è più realizzabile senza coinvolgere l’intero assetto della società. In effetti, nel suo progressivo diffondersi, la flessibilità va a intaccare, additandoli come elementi del "vecchio che resiste", l’insieme dei diritti che il movimento dei lavoratori, nella versione sindacale e in quella politica, ha strappato per evitare i licenziamenti facili, per ottenere le ferie pagate, i congedi per malattia e gravidanza, e più in generale per tutta l’ articolazione del welfare, che disegna uno scenario rigido e non flessibile.
La nuova generazione, la più legata a questo contesto lavorativo, è la più soggetta al malessere esistenziale che si va diffondendo, per l’impossibilità di prevedere il proprio futuro in un mondo del lavoro sempre più precario e imprevedibile, in quanto la continua precarietà occupazionale pone in discussione l’autostima e la speranza nell’avvenire. Sentimenti di vergogna, di disprezzo da parte degli altri e da parte di se stessi, ne sono delle caratteristiche; al punto che recenti indagini hanno rilevato che sempre più studenti si dicono pronti in nome del “posto fisso” vecchio e sicuro a rinunciare al lavoro dei propri sogni e a uno stipendio elevato se soggetti ai rischi del precariato.
D’altra parte negli ultimi anni si è esternalizzato di tutto, dagli asili, ai cimiteri, a molti altri servizi comunali, spesso e volentieri con il voto favorevole dei partiti di centro-sinistra e l’assenso dei sindacati neocorporativi. Chi oggi si erge a difesa dei lavoratori, sa che vita fanno i lavoratori esternalizzati, che salario percepiscono, che tutele hanno, di che diritti possono usufruire, quanti ricatti subiscono quotidianamente, quanto siano mortificati nella loro dignità di lavoratori e di persone, quanto siano costretti a pagarsi il loro stesso posto di lavoro – le quote sociali delle cooperative ammontano a migliaia di euro –, quanto ogni tre anni la loro vita possa cambiare perché cambia l'appalto, quanto siano scarsi i loro contributi pensionistici (le cooperative pagano la metà rispetto alle altre aziende) e, quindi, quanto la loro pensione sarà da fame. Ci chiediamo se oggi i rappresentanti del centro-sinistra e dei sindacati neocorporativi sanno che i lavoratori esternalizzati non beneficiano dei più elementari diritti sindacali – provate a fare la R.S.U. in qualsiasi cooperativa! – del diritto di sciopero, della quattordicesima, dei corsi di formazione, spesso anche del pagamento degli straordinari. I lavoratori che spesso operano in cooperative e aziende, in nome della flessibilità non hanno neanche una struttura fissa di lavoro, ovvero fanno i jolly per un anno, un anno e mezzo, cambiando luoghi, mansioni, organizzazione.