L’interessante videoconferenza "Filosofie del lavoro. Filosofie al lavoro" (Il prezzo della libertà. L'invenzione del lavoro), del 28 gennaio 2020 di Enrico Donaggio, coinvolge questioni centrali del pensiero marxista che potrebbero spiegare alcuni motivi per cui il movimento socialista e comunista non sia riuscito a soppiantare il sistema capitalistico e fare luce sul processo storico in corso per pensare i possibili destini della società mondiale e "che fare" oggi. La storia delle filosofie del lavoro si intrecciano con il corso della storia e gli sviluppi dei diversi pensieri politici e filosofici.
Le ragioni per le quali il proletariato nei Paesi avanzati non ha abbracciato in massa la lotta rivoluzionaria contro il capitalismo, per quanto sia possibile comprendere, sono complesse e multifattoriali. Le spiegazioni fornite dai diversi pensatori hanno tutte una loro validità, ma ciascuna circoscritta ad una situazione determinata, piuttosto che una valenza definitiva applicabile alla storia universale del movimento operaio. In particolare, con lo sguardo di oggi, sembra troppo semplicistica la conclusione di Simon Weil, secondo cui la disumanizzazione del lavoro dell'operaio di massa presso la catena di montaggio nella fabbrica fordista condurrebbe all'annientamento dello spirito, delle capacità di pensare e di ribellarsi, quindi alla resa del movimento operaio. È plausibile un’analogia con quanto descritto da Primo Levi, fatte le dovute proporzioni, sugli internati nei campi di sterminio nazisti di Se questo è un uomo. In tale modello, secondo una prospettiva psicoanalitica, si potrebbe dire che la reazione dell'individuo al trauma della fatica fisica estrema, dell'umiliazione di essere trattato come uno strumento e obbligato al gesto ripetuto, come un automa, senza alcuna partecipazione - e neppure comprensione - allo scopo del lavoro, farebbe emergere nel soggetto stesso una difesa psichica consistente nella dissociazione dal mondo reale; in linguaggio tecnico un ritiro della libido dall'oggetto esterno. Pur avendo questa tesi un suo fascino e certamente una sua verità, la conclusione della soppressione dello spirito rivoluzionario quale conseguenza della costrizione ad un lavoro alienante, ripetitivo, privato della componente cognitiva e decisionale, appare, a ben vedere, in buona parte smentita da quanto si è potuto osservare con il superamento della fabbrica fordista. Infatti, con la trasformazione organizzativa e tecnica del lavoro nelle aree a più avanzato sviluppo tecnologico dell'industria post-fordista, non si è assistito ad una ripresa del movimento rivoluzionario.
Attualmente infatti all'operaio è richiesta competenza tecnica, informatica, capacità di comprendere e svolgere procedure di lavoro anche complesse e continuamente rinnovate, prendere decisioni, adattarsi a lavorazioni diverse e compiti nuovi: gli si chiede insomma flessibilità e autonomia nel lavoro a un livello impensabile nella precedente fabbrica fordista, in quanto le operazioni e le attività che si svolgevano allora sono stati tutti sostituite da macchine automatiche prima e da robot che svolgono serie di sequenze complesse a capacità variabile poi. L'operaio di oggi, e ancor più si prospetta nel futuro, è un tecnico altamente specializzato per gestire strumenti e sistemi di controllo. Se dunque fosse vera la tesi di Simon Weil, si sarebbe dovuto registrare, almeno in questo ambito, un rafforzamento della prassi rivoluzionaria, ma così non è stato. Anzi, da quanto osservabile sul campo, più aumenta la qualifica, all'interno di una organizzazione del lavoro nella fabbrica (e cioè il livello di autonomia nel lavoro, che dovrebbe corrispondere a una minore alienazione e abbrutimento) più al contrario incrementa l'adesione all'ideologia capitalista e neoliberista. Bisogna tuttavia tener presente che anche nelle aziende più avanzate, in cui il lavoratore “sa che fine farà il pezzo lavorato”, conosce lo scopo delle sue operazioni e del suo ruolo all’interno dell’organizzazione del lavoro, questi non è tuttavia padrone del suo destino, del suo lavoro, viene comunque misurato e valutato, perché comunque non è lui il proprietario dei mezzi di produzione.
Oggi, non è un caso, nelle medie e grandi imprese i lavoratori vengono coinvolti in attività di "formazione" (nel senso letterale del termine, cioè dare loro una forma, modellarli in toto, in modo confacente alla logica del capitalismo) mediante corsi di wellbeing e adattamento, tenuti da psicologi, motivatori e coach. Il fine è da una parte quello di incrementare l'impegno e la partecipazione emotiva, l’auto-sfruttamento - per cui il lavoratore, facendo leva sul senso di responsabilità e sull'autorealizzazione nel lavoro, diventa servo volontario - e dall'altra l’omologazione all'ideologia dei consumi, promuovendo l'impiego "disimpegnato" del tempo libero, il divertimento "spensierato" quale orizzonte di libertà (in realtà eteroindotto e funzionale allo stesso sistema capitalistico). Questo modo di vedere le cose induce ad essere pragmatici, a superare gli ostacoli che si incontrano, a risolvere problemi all’interno del proprio ruolo (piace dire “stare sul pezzo”), ma sempre senza porsi domande che non competono, senza “immischiarsi” in questioni fuori dal proprio orizzonte o compiti non richiesti. Gunther Anders nel noto saggio L’uomo è antiquato individua nell’azienda il luogo dove viene creato il tipo dell’uomo “conformista-senza coscienza” ma in perfetta buona fede: indolente, miope e cieco allo scopo.
Il bombardamento da parte dei media e delle organizzazioni padronali negli anni ha costruito un'ideologia del disimpegno, del pensiero acritico, del there is no alternative, che ha giocato probabilmente un ruolo preminente nel contrapporsi ad ogni spinta rivoluzionaria. Se la società non è trasformabile, ci si deve adattare, bisogna diventare "resilienti" agli eventi avversi, bisogna insomma adattare l'uomo alla struttura sociale e non viceversa. È questa un’ideologia pervasiva, totalizzante, cui siamo assoggettati sin dai primi anni di vita. Centrale in tale visione del mondo è l'individuo come elemento isolato, che deve sempre competere con i gli altri per un posto migliore, o per un semplice "posto al sole": non esiste relazione intersoggettiva che non sia una gara. Ognuno è “imprenditore di se stesso”, con tanto di promozione “della merce”: chi presenta sul mercato un curriculum più accattivante o un profilo social Linkedin più brillante troverà lavoro al posto dell'altro o una posizione migliore, come pure ne beneficerà chi ha potuto frequentare scuole e istituti di prestigio, appannaggio dei ceti abbienti: quando si elogia la meritocrazia, si tratta esattamente di questo. Gli stessi lavoratori, all’interno di uno stesso luogo di lavoro, competono tra loro per mostrarsi più capaci, più produttivi, più stakanovisti e, ancor peggio, lavoratori con contratti diversi e diversi diritti, anziché coalizzarsi, si contrappongono gli uni agli altri. Una siffatta cultura individualista annienta i sentimenti e la pratica della solidarietà cristiana, come della fratellanza umana, e ovviamente della coscienza di classe del proletariato: quest'ultima, addirittura, è un concetto ormai non solo inesistente ma anche incomprensibile e infatti scomparso da ogni discorso. È parte integrante di questa cultura il crollo della fiducia reciproca e della speranza in un progresso sociale o un cambiamento collettivo; tant’è che in Italia, ma non molto diversamente in Europa, il primo partito alle elezioni è quello dell'astensione. “Il telos del nostro fare è smantellato, perciò viviamo senza futuro, quindi ciechi di fronte all’Apocalisse”, notava tragicamente Gunther Anders.
Il luogo comune della fine delle ideologie - in realtà essa stessa una ideologia evidentemente autocontraddittoria nei termini - assume in realtà il mercato quale regolatore di ultima istanza dei rapporti umani; mercato che non è altro che il luogo ove si confrontano i rapporti di forza tra soggetti che, nel caso della società capitalistica, decretano il dominio del capitale su ogni altra relazione, dunque impongono una dittatura totalitaria, quantunque considerata come “naturale” e ovvia. D'altronde, se il modello di organizzazione sociale è quello dell'azienda, chi può credere che vi sia democrazia nei luoghi di lavoro ?
Quindi, nonostante un innegabile, seppur certamente non universale, miglioramento delle condizioni di lavoro da un punto di vista della fatica fisica, sono molte le componenti che hanno giocato un ruolo di inibizione dello spirito rivoluzionario dei lavoratori.
Sebbene ogni momento storico abbia una nascita ed una fine, il processo storico non può mai tornare esattamente al punto di partenza, piuttosto ne incamera dialetticamente le istanze, i pensieri, gli sforzi compiuti; sarebbe pertanto riduzionistico liquidare semplicemente come fallito, inutile o come se non fosse esistito, il movimento marxista e le rivoluzioni ad esso ispiratesi ancorché sconfitte. Non è possibile fare oggi un bilancio obiettivo della storia del movimento operaio, ma considerando i risultati in generale deludenti ottenuti dal movimento marxista e dalla lotta di classe rispetto alle aspettative, ci si deve chiedere quali delle due fondamentali condizioni classicamente necessarie all’abbattimento del capitalismo e alla costruzione del comunismo, sia mancata, se la componente oggettiva o quella soggettiva. La risposta plausibile è la componente soggettiva: le contraddizioni oggettive nella società, infatti, evidenziabili ad esempio da un incremento notevole ed inarrestabile della disparità economica tra la popolazione in tutti i Paesi, dallo sfruttamento dei lavoratori, dalla riduzione dei salari rispetto ai profitti, dallo strapotere delle multinazionali, dei gruppi finanziari, dall’appropriazione privata di ogni bisogno, dai conflitti militari tra Stati, ecc., si sono indubitabilmente intensificati, senza che a ciò si sia contrapposto un aumento delle forze rivoluzionarie. Dove infatti le prospettive marxiane e marxiste sembrano crollate è nella componente soggettiva, nella variabile umana psicologica, dove l’ideologia del potere dominante ha avuto finora la meglio, estendendo conformismo, individualismo e ostacolando quindi lo sviluppo della consapevolezza di classe dei lavoratori.
Sappiamo che la coscienza di classe si realizza mediante un partito che fornisca contenuti culturali e di azione politica e che, d’altra parte, i quadri dirigenti del partito sono a loro volte espressione della classe: questo processo di costruzione sembra essersi interrotto con il crollo dell’Unione Sovietica, dopo essere già entrato in crisi. Ma quale ruolo ha giocato su questo esito l’ideologia diffusa non solo dai media e dall’industria culturale e pubblicitaria, ma anche, scientificamente, dalle aziende nei luoghi di lavoro ?
Le questioni restano naturalmente aperte, ma bisognerebbe ripartire da qui, dall’uomo prima di tutto, dallo studio delle ideologie con particolare riferimento al lavoro, per costruire una via di uscita dalla barbarie e dalla disastrosità del capitalismo.