La recente decisione della Corte di Giustizia Europea che ha dichiarato illegittimo il lavoro precario nella scuola pubblica italiana riafferma i principi delle direttive europee sui contratti di lavoro a termine. Nemmeno l’Europa dei poteri finanziari ritiene ammissibile un ricorso generalizzato ai contratti a termine senza collegamento a specifiche ragioni oggettive che impediscono l’impiego a tempo indeterminato. La decisione è quindi anche un pesante atto di accusa per il Decreto Poletti che consente i contratti a termine “acausali”.
di Pietro Antonuccio
Mettendo a confronto i principi sanciti dalla Costituzione italiana, nata dalla Resistenza e fondata sul lavoro, con quelli che sono a base dell’Unione Europea, nata dai mercati e fondata sul potere finanziario, non dovrebbero esserci dubbi sul carattere più avanzato della nostra legislazione in materia di lavoro. Ma se ciò è stato vero fino agli anni ’80 del secolo scorso, oggi - certamente - non è più così.
Perché le controriforme che da allora si sono succedute in Italia hanno tralasciato l’attuazione dei precetti costituzionali, incentrandosi sempre più sulla tutela delle “esigenze d’impresa”, fino al recente e micidiale Jobs Act dell’attuale governo. Così, la legislazione italiana è divenuta talmente sfavorevole ai diritti dei lavoratori che è ormai necessario cercare alcuni paletti di minima tutela nelle direttive e nella giurisprudenza dell’Unione Europea.
Già con gli anni ’90 aveva iniziato a concretizzarsi questo “scambio di ruoli”: mentre in Italia si affermava una prima normativa “liberalizzatrice” del contratto di lavoro a termine che allargava l’ambito del lavoro precario, a livello europeo veniva siglato il 18 marzo 1999 un accordo quadro sul lavoro a tempo determinato recepito nella Direttiva del Consiglio Europeo n.1999/70 in cui si affermavano alcuni minimi principi di ordine generale, stabilendosi che:
- i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma ordinaria dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorarne il rendimento;
- un modo di prevenzione degli abusi nel ricorso al contratto a termine consiste nel riferirne l’uso a ragioni oggettive;
- i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive;
- per prevenire gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a termine, gli Stati membri devono adottare almeno una delle seguenti tre misure: a) previsione di ragioni oggettive per la giustificazione del rinnovo a termine dei contratti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a termine successivi; c) il numero massimo dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.
Queste minime misure di tutela erano ancora recepite nel decreto legislativo italiano (il D.Lgs.368/01) che, nel 2001, allargava ulteriormente l’ambito di applicabilità dei contratti a termine ma continuava a mantenersi all’interno della “cornice europea”. Una cornice poi scalfita con i successivi interventi normativi di segno reazionario (tra cui il Collegato Lavoro del 2010 e la Legge Fornero del 2012) fino alla spallata finale del Jobs Act che ha definitivamente collocato la legislazione italiana ben più “a destra” dell’Europa dei poteri bancari e finanziari.
La prima “riforma del lavoro” renziana è consistita proprio nella emanazione del famigerato Decreto Poletti, il Decreto Legge n.34/2014 (poi convertito nella legge n.78/2014), con cui si è disposto che i contratti a termine possono essere “acausali”, cioè possono essere adottati senza indicare la ragione per cui l’impresa fissa la scadenza del contratto di lavoro anziché assumere a tempo indeterminato. Anche le mansioni ordinarie di cui si prevede la ripetizione a tempo indeterminato possono essere affidate a manodopera assunta a termine. Questi contratti “acausali” possono essere stipulati anche per brevissimi periodi e prorogati di periodo in periodo fino a un massimo di trentasei mesi ma senza nessun diritto, dopo il completamento del triennio, alla stabilizzazione del rapporto.
Si scardinano in questo modo anche i minimi “paletti” posti dalla direttiva europea del 1999: non solo si può assumere a termine senza alcun riferimento a ragioni oggettive che giustificano il termine, ma di fatto un’impresa può ricorrere sempre al lavoro a termine, poiché il limite dei 36 mesi è fissato solo con riferimento al singolo lavoratore. Alla scadenza l’impresa può tranquillamente considerare cessato il rapporto con quel lavoratore ed assumerne un altro per le stesse mansioni, senza alcuna causale giustificativa, per altri 36 mesi e così via all’infinito.
Giustissime e necessarie pertanto tutte le reazioni delle reti sociali e dei sindacati di base sul piano della mobilitazione sociale e giuridica, dagli scioperi alle mobilitazioni generali, fino alle denunce e ai ricorsi tendenti a far valere quanto meno le acquisizioni fatte proprie dall’Unione Europea.
È il terreno su cui ha annunciato di volersi muovere anche la CGIL e su cui è già stata presentata una specifica denuncia dall’associazione dei Giuristi Democratici contro lo Stato italiano per infrazione della normativa europea che sancisce la centralità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e la possibilità di ricorrere al contratto a termine solo in presenza di “condizioni oggettive” che lo giustificano, mentre il Decreto Poletti elimina ogni necessità di causale giustificativa, rendendo il contratto a termine una forma contrattuale del tutto “ordinaria” alla pari, se non preferita (ovviamente dalle imprese), per lo svolgimento del rapporto di lavoro.
Le sacrosante denunce che vengono dal mondo del lavoro hanno ora un’importante conferma e un valido punto di riferimento nella recente sentenza della Corte di Giustizia Europea del 26.11.2014 che, intervenendo su una delle più patologiche applicazioni italiane del contratto a termine perpetuato senza limiti, quella del precariato scolastico, ha sancito che:
“La clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale (…) che autorizzi, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l’espletamento di dette procedure concorsuali ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo. Risulta, infatti, che tale normativa (…) non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine, e (…) non prevede nessun’altra misura diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato”.
Si tratta di una decisione di grande importanza, sia perché riguarda direttamente le decine di migliaia di precari della scuola che prestano strutturalmente servizio con contratti a termine eternamente rinnovati, sia perché ribadisce la piena operatività generale della direttiva europea del 1999 che recepiva l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato.
L’ampiezza e la chiarezza della motivazione di questa decisione della Corte di Giustizia offrono quindi una nuova sponda alle mobilitazioni di tutto il precariato, a partire dalla rivendicazione in ogni sede possibile della effettiva attuazione dei principi recepiti dalla direttiva europea. Si tratta infatti di principi che (pur con il carattere generico e sempre “interpretabile” delle definizioni giuridiche del livello europeo da raccordare alle specificità dei vari diritti nazionali) consentono di riaprire delle forti rivendicazioni oltre che nella scuola pubblica, anche negli altri settori del pubblico impiego caratterizzati da massiccio ricorso al lavoro precario. E di attaccare apertamente anche la legittimità del nostrano Jobs Act.
Se, infatti, è vero che formalmente il Decreto Poletti fissa il numero delle proroghe possibili del contratto a termine ed il limite dei 36 mesi oltre i quali non può protrarsi il rapporto di lavoro a termine tra datore di lavoro e lavoratore (così apparentemente integrando due delle tre misure dissuasive previste dall’accordo europeo), la realtà di fatto che ne risulta è totalmente contraria alla sostanza della direttiva europea. Il fatto di aver reso i contratti a termine del tutto “acausali” e dunque indipendenti da qualsiasi esigenza effettiva di lavoro temporaneo, consente infatti alla stessa impresa di proseguire la propria attività ordinaria impiegando sempre un altro lavoratore a termine in sostituzione del precedente, rinnovando ogni volta i 36 mesi consentiti dalla legge in modo del tutto immotivato.
È evidente che ciò, oltre a contravvenire palesemente al principio europeo del carattere ordinario e centrale del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, vanifica totalmente qualsiasi misura dissuasiva solo formalmente adottata con la previsione delle proroghe possibili e del limite dei 36 mesi all’interno del singolo rapporto, poiché è tutto l’insieme dei rapporti di lavoro che risulta completamente precarizzato. La decisione della Corte Europea va quindi utilizzata in tutte le sue implicazioni che vanno al di là del pur importante settore del precariato della scuola e del pubblico impiego, per investire anche il lavoro privato che il Jobs Act vorrebbe consegnare interamente in ostaggio delle “acausali” esigenze dell’impresa.