La vittoria di Syriza guidata da Alexīs Tsipras alle elezioni greche può rappresentare un punto di svolta per la messa in discussione delle politiche europee cosiddette di “austerity” a patto di non lasciare sola la Grecia.
di Alessandro Bartoloni
Le politiche perorate dagli emissari della Commissione Europea, dalla Banca Centrale Europea, dal Fondo Monetario Internazionale (la c.d. troika) e coordinate dal Consiglio Europeo, egemonizzato dai governi maggiormente proni al grande capitale, che fino ad oggi ha tratto enormi benefici dalla loro applicazione, hanno finalmente trovato un primo piccolo ostacolo nelle recenti elezioni greche. La reale inversione di tendenza, tuttavia, non può essere responsabilità di un paese oggettivamente insignificante dal punto di vista economico come la Grecia e, viste le tiepide reazioni che il primo tour internazionale del neo primo ministro greco ha prodotto, sembra difficile trovare sponde governative sufficientemente importanti e capaci di condurre questa battaglia. Pertanto, è necessaria la massiccia mobilitazione internazionalista delle classi subalterne, accompagnata dalla coscienza dei limiti dell’azione possibile dentro il quadro delle compatibilità socio-economiche e, quindi, dalla progressiva accumulazione delle forze e dall’elaborazione del programma necessario a individuare e creare le contraddizioni fatali al modo di produzione dominante. Altrimenti i ricatti della BCE e della Merkel sono destinati a vincere ogni resistenza che il governo e il popolo greco potrà mettere in campo.
L’austerity, infatti, lungi dall’essere un errore, come gli economisti riformisti vanno predicando, rappresenta l’adeguamento alla fase delle politiche di aggiustamento strutturale ampiamente applicate in molti dei paesi dominati del c.d. “terzo mondo” nel corso degli anni ’70 e ’80. Queste politiche intervengono durante la crisi e a valle del processo di socializzazione delle perdite per via statale, quindi nel momento di massima vulnerabilità dei conti pubblici. La Grecia si è trovata poi sotto il fuoco incrociato del conflitto inter-imperialistico, col capitale transnazionale a base statunitense che ha provato il colpaccio ai danni del confratello europeo speculando sul fallimento greco, cui è stata di conseguenza imposta l’austerity per salvare i creditori [1]. Pertanto l’autentico obiettivo di tali politiche non è quello di tenere il debito sotto controllo, bensì di completare il trasferimento dell’onere della crisi dal capitale alla forza-lavoro, facendo pagare il conto ai paesi più deboli e in particolare alle loro classi lavoratrici.
Il primo pilastro sul quale si fondano queste politiche è rappresentato dalla negazione delle misure keynesiane di sostegno agli investimenti e ai consumi realizzate per mezzo di opere pubbliche e spesa sociale finanziate attraverso il ricorso al deficit di bilancio. Le politiche di matrice keynesiana rappresentano la frontiera dell’interventismo borghese nell’economia sebbene siano il modo più indiretto per influenzarla giacché non intervengono sulle cause strutturali delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico, ma si limitano a tentare di smussarne gli effetti operando sulle categorie derivate. Le politiche di austerity, da questo punto di vista, operano un’inversione di tendenza dal momento che, attraverso l’imposizione del pareggio tendenziale di bilancio, rendono impossibile il sostegno pubblico agli investimenti e la spesa sociale.
Tuttavia, il lord più amato [Keynes, ndr] dall’asinistra, sebbene bistrattato, non viene del tutto abbandonato dal momento che con l’austerity prosegue, con altri mezzi, la politica dei redditi keynesiana volta al contenimento dei salari. L’obiettivo, in entrambi i casi, è quello di ridurre il potere di acquisto della classe lavoratrice e la quota di capitale variabile sul totale investito, in modo da favorire l’accumulazione e i profitti. In passato si faceva ciò ricorrendo all’inflazione, al blocco dei salari, agli sgravi fiscali condizionati, alla fiscalizzazione degli oneri sociali – e ultimamente alla concertazione – (e si era in un contesto caratterizzato da crescita economica, nuovi investimenti e ammodernamento degli impianti), quindi si cercava di ampliare o almeno salvaguardare i livelli occupazionali. Oggi, invece, in un contesto di crisi economica e fiscale, lo si fa riducendo i salari minimi per legge, disdettando i contratti, incentivando il ricorso al precariato, tagliando i salari nominali nel pubblico impiego, riducendo la quota di contributi sociali versati dalle imprese.
Il terzo e più rivoluzionario pilastro delle politiche di austerity è quello che sostiene la modifica del modo di produzione. Qui non si tratta certo di una modifica in senso socialista, ma di liberalizzare e deregolamentare i settori ancora protetti, svendere a gruppi privati (sovente esteri) il demanio, il patrimonio e le aziende pubbliche, aumentare per via legislativa la flessibilità nell’uso e il comando sulla forza-lavoro, rendere “più agevoli” i licenziamenti, il sottoinquadramento e il demansionamento, contrastare l’immigrazione per rendere ancora più ricattabili i cittadini stranieri, oltre ovviamente ad aumentare il tempo di lavoro erogato dal dipendente (anche attraverso la riduzione delle pause) a parità di salario.
A molte di queste politiche e ai suoi effetti distruttivi per la qualità e l’aspettativa di vita degli individui e del popolo greco si è opposta Syriza e pochi altri (tra cui il Partito Comunista Greco KKE). Per il momento, gli annunci del governo Tsipras mirano a creare le condizioni per il ritorno di politiche keynesiane e per il ripristino dei livelli di sussistenza necessari ad un corretto mantenimento della classe lavoratrice nazionale. In quest’ottica, infatti, può essere letto il rifiuto di riconoscere la Troika quale interlocutore istituzionale, la volontà di ridiscutere le condizioni che permettono l’accesso al credito da parte delle banche e del governo e di rinegoziare i termini del debito, il ripristino del salario minimo mensile a 751 euro e le assunzioni nel pubblico impiego. Ben diversa e più radicale è la volontà di rafforzare lo ius soli e di sospendere le privatizzazioni delle centrali elettriche e dei due principali porti del paese, quello del Pireo e quello di Salonicco. La questione pratica ancora da dirimere è se attorno al governo greco andrà coalizzandosi una forza internazionale capace di monitorare e supportare la piena applicazione e l’estensione di queste politiche oltre la misura consentita dalle compatibilità socio- economiche, fornendo i mezzi necessari a superare le ritorsioni che già dal 12 febbraio il Consiglio europeo metterà in campo con l’aiuto del governatore della BCE Mario Draghi. Senza l’aiuto esterno, molto difficilmente il governo greco o il suo popolo potranno combattere questa battaglia con la speranza di vincere.
Note:
[1] Cfr. Metti una sera a Manhattan, La Contraddizione n. 131, aprile-giugno 2010