Siamo in un’epoca in cui la storia la fanno i politici [1] e gli storici con i loro polverosi archivi e le loro sottili ricerche sono bruscamente accantonati. Naturalmente questa storia è eminentemente politica ed ha semplicemente lo scopo di legittimare obiettivi che, dal punto di vista storico, non hanno alcun fondamento e che sono anche il risultato di un atteggiamento aggressivo e arrogante volto a misconoscere i diritti degli avversari. Qualcuno potrebbe dire che è sempre stato così, dato che per evidenti motivi, come dice un antico proverbio africano: “la storia della caccia, come attività entusiasmante, l’hanno fatta sempre i cacciatori”.
Lo scorso 23 gennaio a Gerusalemme, alla presenza di molti grandi della terra (Putin, Macron, Mike Pence, il Principe Carlo, rappresentanti del Vaticano etc.) è stato celebrato The Fifth World Holocaust Forum con il titolo Remembering Holocaust: Fighting Anti-Semitism, in collaborazione con l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah e con il patrocinio del presidente dello Stato d’Israele Reuven Rivlin.
In questa occasione Benjamin Netanyahu ha accusato l’Iran di essere lo Stato più antisemita al mondo per il suo atteggiamento anti-israeliano. L’evento voleva celebrare il 75° anniversario della liberazione da parte dei soldati sovietici del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau e condannare il ripresentarsi di azioni violente contro gli ebrei e la loro cultura in particolar modo in Europa.
Solo qualche cieco negazionista può sostenere che gli ebrei non abbiamo pagato un terribile tributo alla follia distruttiva del nazismo e del fascismo (c’erano campi di concentramento anche in Italia), ma a questo innegabile aspetto, doverosamente da celebrare, dobbiamo aggiungere altri elementi, se vogliamo avere un quadro storico complessivo anche per comprendere perché solo allo Stato di Israele si applica il principio di autodeterminazione, negato invece ai palestinesi.
Innanzi tutto, bisogna sottolineare che i mass media pongono sempre l’accento sullo sterminio degli ebrei, dimenticando lo sterminio dei comunisti (per quali fu apprestato il campo di Dachau), dei dissidenti, dei rom e sinti, degli slavi, dei disabili, omosessuali etc., che ugualmente meritano di essere ricordati, anche per mostrare a quale catastrofe ci ha condotto la politica aggressiva nazista e l’acquiescenza delle potenze “democratiche”.
È evidente che questo primato israeliano sia dovuto al fatto che Israele, con il suo arsenale militare comprensivo di 200/400 bombe atomiche, costituisca l’avamposto occidentale in una regione ricca di risorse, che anche gli USA vogliono controllare soprattutto per limitare gli approvvigionamenti petroliferi dei loro nemici.
Inoltre, è possibile individuare come gli israeliani riescano a controllare le stesse amministrazioni statunitensi. Come afferma a commento dell’Operazione Protezione di Margine contro Hamas a Gaza (2014) Alfredo Jalife, studioso messicano esperto di Medio Oriente, la maggior parte dei banchieri che operano a Wall Street sono sionisti-khazar (v. più avanti) e la stessa Federal Reserve è stata a lungo nelle mani di statunitensi-israeliani. Senza poi menzionare il consigliere più influente di Trump, l’organizzatore della sua campagna elettorale, imprenditore edile e proprietario del New York Observer, Jared Kushner, ebreo ortodosso e genero del presidente.
Questo dominio israeliano si manifesta nella volontà di imporre al mondo intero la definizione di anti-semitismo elaborata dall’International Holocaust Alliance che suona così: “L’anti-semitismo costituisce una certa percezione degli ebrei, che si esprime nell’odio contro di essi. Le manifestazioni fisiche e retoriche dell’anti-semitismo sono dirette verso individui ebrei e non ebrei (percepiti come tali), le loro comunità, istituzioni e luoghi di culto” [2]. Ora, tale definizione prevede la condanna degli attacchi contro lo Stato di Israele (non è detto se anche quelli verbali) e nello stesso tempo non considera antisemitismo le critiche rivolte ad esso simili a quelle che possono essere rivolte anche agli altri paesi; di fatto, tuttavia, pone la comunità israeliana su un piedistallo, rendendola immune da ogni giudizio negativo. In questa prospettiva si finisce con l’accusare di anti-semitismo (termine che scientificamente non ha senso perché di semitico ci sono solo le lingue e la dimensione etnica condivisa dagli ebrei con altri popoli) chiunque critichi lo Stato di Israele e il sionismo, cui del resto si opposero molti esponenti delle stesse comunità ebraiche. Anzi – direi – che l’obiettivo della definizione è proprio quello di bandire ogni forma di antisionismo, ossia critica allo Stato d’Israele, per consolidare le basi di quello che molti chiamano il grande Israele, che andrebbe dal Nilo all’Eufrate secondo un passo della Bibbia.
D’altra parte, come sottolinea ancora Jalife, le pretese israeliane sui territori palestinesi [3] si basano su un mito, anche se vogliamo lasciare da parte il ruolo della divinità nell’assegnazione dei territori; infatti, la maggior parte di coloro che oggi vivono in Israele non provengono da quelle terre, perché sono di origine khazar (forse turchi convertitisi al giudaismo nel VII secolo) e aschenaziti (Europa centro-orientale), a differenza dei sefarditi, immigrati in Spagna dal Vicino Oriente dopo il 70 d. C. e successivamente da essa espulsi dopo la Reconquista avvenuta ad opera dei Re cattolici.
Del resto, anche ammettendo che tutti gli israeliani siano originari di quella regione nota come Palestina sin dal tempo dei greci antichi, chi può considerare legittima la loro pretesa di scacciarne dopo duemila anni gli abitanti contro le numerose risoluzioni delle Nazioni Unite fino ad arrivare ad una vera e proprio pulizia etnica dei palestinesi?
Almeno è questo che sostiene lo storico israeliano – quindi uno di loro - Ilan Pappé, costretto ad emigrare in Inghilterra, il quale in maniera precisa e inoppugnabile ha dimostrato che già negli anni ’30, ossia ben prima della fondazione dello Stato di Israele, avvenuta nel 1948, i capi sionisti avevano già elaborato un programma di pulizia etnica della Palestina, che in quell’anno fatale si concretò nella cacciata di 250.000 palestinesi, seguiti successivamente da altri compatrioti (v. La pulizia etnica della Palestina, 2006).
Ma dietro tutta questa vicenda c’è ancora di più: il desiderio di cancellare dalla storia il contributo fondamentale dato dall’Armata Rossa alla sconfitta del nazismo. Infatti, volendo difendere questo ruolo e quindi nolente o volente stabilendo un collegamento con l’Unione Sovietica, Putin ha criticato la già menzionata risoluzione del Parlamento europeo, che ha addossato al Patto Ribbentrop-Molotov la colpa di aver scatenato la Seconda guerra mondiale, ricordando la “politica di pacificazione, che culminò con la divisione della Cecoslovacchia a Monaco di Baviera nel 1938”. Inoltre, facendo scoppiare l’ira dei polacchi, il presidente russo ha sottolineato che questi ultimi sostenevano l’espansionismo nazista verso l’Unione Sovietica ed auspicavano una soluzione al “problema ebraico” (si parlò della deportazione degli ebrei in Madagascar).
In questa situazione conflittuale e dato che Andrzej Duda, presidente della Polonia, non avrebbe potuto parlare al Forum di Gerusalemme, egli ha rinunciato a recarsi in Israele ed ha organizzato una celebrazione dell’evento il 27 gennaio ad Auschwitz; evento con cui dovrebbe dare il via alla sua campagna elettorale caratterizzata da un atteggiamento fortemente anti-russo.
A dimostrazione che la storia non si basa mai sul conflitto tra il bene e il male e che le sue versioni ufficiali occultano molte sfaccettature delle vicende umane, gli storici russi hanno ricordato che l’esercito del governo polacco in esilio a Londra d’accordo con gli inglesi sabotava l’avanzata dell’Armata Rossa e ne uccideva i soldati. Comportamenti che poi sono sfociati nella rottura dell’alleanza con i sovietici e nella costruzione della Unione europea come baluardo anticomunista.
Per rispondere a queste distorsioni il Cremlino ha deciso di aprire agli studiosi e ai cittadini comuni gli archivi dell’ex Unione sovietica sulla seconda guerra mondiale, ribadendo che per sconfiggere i nazisti il paese ha subito la perdita di circa 25 milioni di abitanti tra militari e civili.
Una mossa quanto mai opportuna da cui si potranno, da un lato ricavare elementi di verità per dimostrare che nella giornata della memoria non sono solo i membri delle comunità ebree ad esser degni di essere ricordati e, dall’altro, comprendere che, perché questi tragici eventi non si ripetano, non basta ripetere “mai più”, ma mettere in questione quelle strutture – come lo Stato di Israele – dal cui seno essi sono generati per colpire nuove vittime. Ovviamente, in questo caso, i palestinesi.
Note
[1] Si pensi alla recente decisione del parlamento europeo di equiparare nazismo o comunismo o ai tre decreti firmati dal Ministro della giustizia ucraino con i quali sono stati banditi tre partiti di ispirazione comunista (v. https://st.ilsole24ore.com/art/mondo/2015-07-24/in-ucraina--partito-comunista-e-stato-messo-fuori-legge--153846.shtml?uuid=AC8ug3W). Possiamo anche menzionare la distruzione di monumenti in onore dei soldati sovietici avvenuta in Polonia e nei Paesi baltici.
[2] Anche il nostro paese, in cui la Chiesa cattolica ha per millenni alimentato l’anti-semitismo – del resto, condiviso dagli altri cristiani -, ha adottato tale definizione, quando sarebbe più opportuno creare istituzioni che combattano il razzismo in generale, che non ha ormai nessuna base scientifica.
[3] In nome dell’autodeterminazione chi ha chiesto ai palestinesi se volevano risarcire gli ebrei delle violenze millenarie subite da parte degli europei e dei nazisti in particolare?