Mentre la patria italica esalta i propri laboratori di ricerca e il genio locale, una triste e diffusa realtà viene a galla: la precarietà della ricerca intesa non solo sotto il profilo retributivo e contrattuale degli addetti ma per la costante riduzione di fondi che ha costretto molti\e a trasferirsi all'estero o addirittura a cambiare mestiere.
In meno di un quarto di secolo, i cosiddetti super ospedali sono quasi raddoppiati (da 32 nel 1998 a 51 di 20 anni dopo) ma i fondi destinati alla ricerca sono praticamente gli stessi.
E così aumentando il numero degli Irccs (istituti di ricovero e cura a carattere scientifico) si è dimezzato il budget assegnato a ciascuno di loro, dai 5 milioni del 1998 a circa 3 milioni odierni senza considerare che in tutti gli altri paesi la cifra è stata accresciuta. Ma il budget assegnato a ciascuna struttura è finalizzato alla gestione dei laboratori, alle tecnologie, alla ricerca e al pagamento dei ricercatori, allora lesinando i fondi e precarizzando le figure di elevata professionalità, non avendo fondi sufficienti con i quali acquistare macchinari sempre più moderni, la stessa ricerca subisce un inevitabile e negativo contraccolpo.
Ha destato scalpore la notizia che una delle ricercatrici dello Spallanzani autrici della ricerca sul Coronavirus fosse da lustri in attesa di stabilizzazione, dal canto suo il ministro Speranza ha annunciato l'assunzione di 1600 ricercatori giusto a ribadire che per almeno un ventennio non c'è stata alcuna politica seria di assunzione e formazione di ricercatori. La ricerca ha rappresentato non un fattore di investimento. Al contrario, in virtù di logiche liberiste che l'hanno considerata solo una fonte di spesa, è stata trascurata. In Italia mancano migliaia di ricercatori e docenti, esistono professionalità da potenziare con studio, università e formazione, ma la diserzione di queste azioni dirimenti sono tra le principali cause della crisi del modello produttivo italiano.
Intanto in Italia si sta discutendo di pensioni e ci sono esperti che chiedono la soppressione non solo della quota 100 ma anche della pensione di anzianità. Si parla di obsolescenza dei coefficienti per rivederli in funzione dell'innalzamento dell'età pensionabile, per scoraggiare uscite anticipate rispetto ai 65 anni applicando sistemi di calcolo sempre più penalizzanti, a prescindere dagli anni di contributi. E così può accadere che tu abbia 42 anni di contributi e 63 anni di età, nonostante gran parte della tua vita sia stata attraversata dal lavoro verresti giudicato troppo giovane per la pensione e penalizzato. Tali aberrazioni non sono frutto di menti malate ma rappresentano alcune delle opzioni allo studio nei gruppi incaricati dal Governo di preparare una nuova riforma previdenziale.
In produzione quindi sempre più vecchi e demotivati, ricambio generazionale inadeguato e carente, pochi investimenti in formazione e ricerca, sfruttamento intensivo della forza lavoro: sono queste le cause principali della crisi del nostro sistema produttivo.
Quando poi si parla delle professionalità mancanti è bene ricordare come la responsabilità di questa situazione sia attribuibile al numero chiuso in numerose facoltà universitarie, al numero in continuo calo dei laureati in facoltà scientifiche (quelle interessate appunto dal numero chiuso), alla assenza di tecnici diplomati e successivamente formati nell'utilizzo delle nuove tecnologie.
In qualunque modo si voglia leggere la realtà un dato è ineludibile: in Italia ci sono pochi laureati, la formazione e l'aggiornamento sono a dir poco carenti, la famosa interazione tra scuola e lavoro è stata un fallimento come la cosiddetta alternanza scuola lavoro.
A chi attribuire colpe e responsabilità se non alla classe politica e imprenditoriale del paese che hanno solo pensato a distruggere l'art 18 dello Statuto dei lavoratori e a ridurre il costo del lavoro? Se guardiamo i numeri si capisce la differenza tra l'Italia e i paesi in salute nella stessa Ue. Sono questi ultimi le nazioni che hanno investito in nuove tecnologie (magari a basso impatto ambientale), in infrastrutture, in istruzione e ricerca aumentando la quota di Pil destinata a queste voci.
Ma nell'Italia di oggi manca la produzione industriale, i dati occupazionali di dicembre 2019 sono negativi, l'ultimo trimestre dell'anno passato ha visto la crescita del Pil vicina allo zero. Da metà 2018 ad oggi la produzione industriale è in evidente crisi. Per quanto la nostra società sia sempre più legata ai servizi è evidente che senza industria non cresce l'economia e senza investimenti nella cosiddetta economia fondamentale le difficoltà aumentano. E l’industria perché non cresce? Perché in Italia, per quanto ne dicano Romano Prodi e i cantori ittici dei "gloriosi " tempi dell'Ulivo, hanno delocalizzato produzioni per 30 anni, disinvestito e indirizzato i capitali verso la rendita. I trenta anni pietosi hanno ridotto il potere di acquisto dei salari. Nel contempo, invece, i dividendi degli azionisti sono aumentati a dismisura perché la stragrande maggioranza degli utili finiva nei conti correnti padronali senza reinvestimento alcuno. E senza reinvestire gli utili in tecnologie e produzioni innovative, ammodernamento dei macchinari, formazione e ricambio della forza lavoro si perde la sfida capitalistica. E Romano Prodi da sempre viene ascoltato come un vate quando inizia proprio con lui lo smantellamento dell'apparato industriale pubblico. Sarebbe sufficiente questo dato per non considerare più questo personaggio una fonte di insegnamento e per invocarne definitivamente l'oblio politico.
In questi scenari non certo esaltanti fanno ridere le invettive sindacali contro il decreto dignità perché il lavoro a termine, da due anni, resta al 17%. Allora non sono state certo le normative che limitano il ricorso al tempo determinato la causa dell'occupazione stagnante; solo pensarlo significa sposare in toto le ragioni padronali che da sempre invocano assenza di regole a tutela dei lavoratori e delle lavoratrici, mentre, al contrario, tutti gli studi più seri in materia escludono che vi sia un nesso significativo fra precarietà del lavoro e occupazione.
Leggendo in rete ci siamo poi imbattuti nella bizzarra distinzione tra tutele legali ed economiche. Nell'arco di pochi lustri la classe lavoratrice ha perduto non solo innumerevoli tutele individuali e collettive, ma alla fine gli ammortizzatori sociali sono stati pensati come misure di sostegno alle imprese e di conseguenza strumenti utili per scongiurare la crisi sociali e il conflitto derivante dalla sopraggiunta disoccupazione. Allora, se una riforma degli ammortizzatori sociali è necessaria, essa non potrà tradursi in una riduzione degli stessi per favorire bonus e incentivi individuali. Serve invece una inversione di marcia, più stato e meno mercato, un’azione incisiva sulle imprese affermando la funzione di indirizzo e controllo statale dell'economia.
La latitanza dello Stato non ha favorito l'economia del paese. I ricchi hanno accresciuto la loro ricchezza e i poveri sono diventati sempre più poveri. Nel frattempo la produzione industriale è calata e i posti di lavoro creati sono per lo più part time e a tempo determinato.
Se non si parte da questi dati andremo poco lontani e rischieremo di essere risucchiati nel vortice della vulgata padronale del meno stato, che per lorsignori significa maggiore ricchezza per sé stessi e miseria per noi tutti\e.