Crescono le perplessità sul misterioso piano Juncker. E i capitali si preparano a spartirsi il bottino.
di Ascanio Bernardeschi
L'Europa che – caso quasi unico – resta impantanata da 7 anni nella crisi, sta spendendo una miseria per le infrastrutture. Nel 2013 gli investimenti pubblici nella zona euro sono stati del 2% del PIL. Negli USA il doppio. Il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, dal suo recente insediamento, dichiara di voler farsi carico del problema e, con una velata critica ai suoi predecessori, di voler combattere la disoccupazione e la bassa crescita, non tanto per il valore della cosa in sé, ma per zittire i “populisti antieuropa”. Però intende farlo “nel rispetto delle regole” di austerità. Come sarà possibile?
Anche se molti elementi del piano Juncker restano avvolti nella nebbia e potranno, forse, essere chiariti nel prossimo vertice della Commissione (giugno 2015!), dal 26 novembre, con il suo varo sempre da parte della Commissione, possiamo farcene un'idea.
Si tratta di un mix tra un gioco di prestigio, una catena di sant'Antonio e una moltiplicazione dei pani e dei pesci.
L'Unione Europea mette 8 miliardi di soldi freschi più 8 derivanti dal dirottamento di fondi per investimenti già esistenti, la Banca Europea degli Investimenti (Bei) ne aggiunge 5, sempre pescati dalle sue disponibilità per finanziare investimenti. In totale fanno 21 che daranno vita al Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (Feis). Quest'ultimo servirà alla Bei come copertura per emettere circa 60 miliardi di obbligazioni col cui ricavato si intende avviare un “effetto leva” - Juncker lo ha chiamato “annaffiatoio” - che induca investimenti dei privati e degli stati membri per 315 miliardi. Semplice, vero?
I soldi che ci metteranno gli stati membri saranno esclusi dal calcolo del deficit. Dunque, mentre continuerà a essere proibito agli stati di sforare il deficit per sostenere la propria economia, potranno invece farlo per alimentare il fantomatico Feis.
Depurata dall'annuncite tale operazione, a cui si è aggrappato fortemente Renzi per portare qualcosa a casa del suo scialbo semestre di presidenza europea, è veramente poca cosa. I progetti presentati dagli stati membri sono già per oltre 1.000 miliardi. La sola Italia ne ha presentati per oltre 87 miliardi.
Il piano si propone di sostenere “progetti strategici in settori prioritari”. I settori sono quelli delle infrastrutture (reti energetiche, di telecomunicazione e trasporto), della ricerca e dell'innovazione; non è chiarito invece il criterio per riconoscere il requisito di “strategico”. Il Feis “intercetterà i progetti più rischiosi” assumendosi “la parte di rischio più complessa” e accettando che i prestiti vengano restituiti solo dopo aver pagato gli altri creditori. Così, secondo la Commissione, i privati sarebbero invogliati ad assumersi la parte meno rischiosa dell’investimento, visto che i rischi se li assume il pubblico. Il presidente ha anche annunciato tagli alla burocrazia e un'armonizzazione delle regole per favorire gli investimenti. Insomma la consueta solfa grazie alla quale, a detta di Juncker, “stiamo offrendo speranza a milioni di europei delusi dopo anni di stagnazione”. In un'Europa già inondata di liquidità dalla Bce, ma che ciò nonostante non investe, Juncker crede che i privati abbiano la smania di metterci i loro soldi solo sulla base di queste novità.
Gli stati, per ora, visti i magri incentivi, non hanno chiarito se parteciperanno e in quale misura. L'Italia, ad esempio, vorrebbe che l'esclusione dal calcolo del deficit fosse estesa anche alla parte nazionale dei progetti co-finanziati dalla Ue, ma il vice presidente Katainen ha escluso fermamente tale possibilità. Quindi il nostro governo non saprà a quali progetti andranno i suoi soldi elargiti al Feis. La scelta, infatti, spetterà a un'autorità indipendente. L'Italia aveva indicato a una “task force” apposita alcuni progetti quali i porti di Genova e Venezia, la Salerno-Reggio Calabria, l'inutile Torino-Lione, il Piano Scuola, la banda larga e le interconnessioni elettriche. Ma non è detto che venga rispettata tale indicazione.
Oltre alla modestia dell'intervento – inferiore all'uno per cento del PIL – ci sono altri problemi. Prima che il denaro possa correre, devono essere redatti i progetti, garantiti gli investitori, ottenuti i permessi e così via. E soprattutto non è certo che i governi riempiano i forzieri del Feis. Piani analoghi sono in passato miserabilmente falliti.
Supponiamo pure che invece venga superato ogni ostacolo economico, finanziario e burocratico, si realizzi il prodigio, il piano diventi operativo l'estate prossima e l'annaffiatoio riesca a far crescere bene la pianta degli investimenti privati. In 3 anni ne promuoverà per 315 miliardi con cui potranno essere creati poco più di un milione di posti di lavoro. Sarebbe certo buona cosa, ma una risposta del tutto insufficiente, visto che i disoccupati in fila negli uffici di collocamento (laddove ancora esistono e funzionano) sono circa 25 milioni.
Insomma affidarci agli investimenti privati in piena depressione, senza un vero piano di investimenti pubblici, senza il ruolo trainante dell'industria di stato – accuratamente smantellata negli anni della massima ebbrezza liberista – per di più con insignificanti risorse messe in campo, e senza misure fiscali di redistribuzione più equa del reddito, è una strategia destinata a fallire.