Il nuovo corso politico di Syriza è ancora più evidente dopo l’ultima affermazione elettorale. Prevale ormai apertamente la prospettiva “realista” di gestione dei vincoli accettati come non più discutibili. Ci si rassegna a muoversi all’interno dei rapporti sociali esistenti, senza lotte per modificarli, ma limitandosi alla conta dei voti. Tutt’altro deve essere il compito di una sinistra comunista.
di Carmine Tomeo
Il cambio di passo di Syriza rispetto allo scorso gennaio è reso evidente dalle dichiarazioni rilasciate dopo il voto, non solo da Tsipras e dai suoi sostenitori anche incalliti, ma anche da esponenti che con il leader greco dovrebbero mostrarsi antagonisti.
All’indomani della vittoria di gennaio, Tsipras annunciava una collaborazione con l’Ue per “trovare una nuova soluzione” affinchè si potesse “far tornare l’Europa verso la crescita e verso la stabilità e per far risorgere i valori europei come la democrazia e la solidarietà”, ma al tempo stesso mostrava una certa durezza nell’affermare che “Ciò che ci ha chiesto il popolo della Grecia è qualcosa che non si può discutere: dobbiamo mettere fine all’austerità”. Mesi di trattative con la troika e l’imposizione di un nuovo memorandum hanno dimostrato che la collaborazione con l’oligarchia europea non è possibile se si mette in discussione l’austerità. Così, a distanza di otto mesi dalla prima vittoria elettorale, Tsipras sale di nuovo sul palco da vincitore, ma l’obiettivo comunemente accettato di Syriza diventa la gestione dell’austerità per ammorbidirne le ricadute sugli strati sociali più deboli.
Anche in Italia, mentre la vittoria elettorale di Syriza è stata salutata con i soliti toni trionfalistici, non si sente più echeggiare slogan tipo “E adesso rivoltiamo l’Europa come un calzino!”. La prospettiva della sinistra anche radicale è sempre più marcatamente elettoralistica: “In Grecia si riconferma la stessa maggioranza che aveva vinto le scorse elezioni con Syriza al 35,5 e il partito di Anel sopra il tre. Difficile pensare ad un risultato migliore”, afferma il segretario nazionale del Prc, Paolo Ferrero. Mentre in un comunicato de L’Altra Europa con Tsipras si legge: “Il popolo greco ha risposto con la forza della democrazia a chi ha fatto di tutto per cacciare Tsipras e il suo governo. Tsipras vince e con lui vince la democrazia e vince la Sinistra Europea”.
Ciò che viene fuori, leggendo i commenti di chi, partendo dall’Italia vince le sue partite elettorali in trasferta, è una separazione tra l’economia e la politica, con la prima che mostra tutta la sua iniquità nelle conseguenze sociali sugli strati sociali più deboli e la seconda a fare da contrappeso. La soluzione alla crisi ed il superamento dell’austerità, pertanto, si sostanzierebbe in una proposta politica che separa la sfera della produzione (cioè il luogo dove si sostanziano i rapporti sociali di classe) dalla sfera della circolazione. In quest’ultima sfera di intervento si cerca una soluzione, non solo alle difficoltà economiche e sociali di quanti si trovano in uno stato di bisogno, ma anche (e inutilmente) allo squilibrio dei rapporti di forza, grazie alla “forza della democrazia”. Quei rapporti di forza così favorevoli alle oligarchie europee da costringere, il primo governo di Syriza ad accettare il terzo memorandum ed il secondo a gestirlo.
In questo ambito è facile rintracciare un punto di incontro tra una sinistra che tenta di regolamentare le condizioni reali presenti (quindi, fondamentalmente, una sinistra di stampo socialdemocratico) ed un certo liberismo (per così dire) illuminato. In questo senso, non meraviglia ad esempio notare che per il ministro dell’economia greco, Stathakis la priorità è quella di “rispettare il piano di riforme concordato con i creditori, anche se occorreranno anche degli investimenti per compensare l’austerità”; parole che nella sostanza non si differenziano molto da quelle scritte da Paolo Mieli in un editoriale per il Corriere della Sera, per cui “le cose da fare [cioè quelle del memorandum] sono pressoché segnate e alla sinistra tocca il compito enorme di farle e di difendere ad un tempo i diritti dei più deboli”. Per Mieli, questo atteggiamento di Syriza è una “lezione di realismo”. Una lezione che deve i suoi presupposti all’illusione di poter incidere, in questa fase storica, sulle politiche neoliberiste agendo, con “la forza della democrazia”, sul terreno della redistribuzione, dove i rapporti di classe ed i rapporti di forza tra le classi sono già storicamente determinati e così sfavorevoli alle classi subalterne da vedersi imporre politiche neoliberiste a colpi di memorandum. In pratica, il realismo di Syriza non è che l’espressione politica della sua illusione. Sua e della sinistra riformista, delle terre di mezzo… tra la socialdemocrazia ed il liberismo europei.
Per usare una formula leninista, più che di lezioni di realismo avremmo bisogno di tornare a sognare pur osservando attentamente la vita. Scriveva Lenin sul Che Fare? che “Di sogni di questo genere ve ne sono disgraziatamente troppo pochi nel nostro movimento. E ne hanno colpa soprattutto i rappresentanti della critica legale e del ‘codismo’ illegale, che fanno pompa della loro ponderatezza, del loro ‘senso del concreto’.”
Insomma, oggi avremmo bisogno, quantomeno, di un sogno di liberazione delle politiche neoliberiste, di un sogno di ribaltamento dei rapporti di forza e lavorare “coscienziosamente all'attuazione del suo sogno”. Il forte astensionismo delle elezioni greche di settembre, mai visto dal secondo dopoguerra; i 320.000 voti che Syriza ha perso, pari il 15 % dei suoi elettori dello scorso gennaio; i quasi 900.000 voti persi complessivamente dai partiti che in qualche modo si sono pronunciati per il rispetto del memorandum; la tendenza al calo della partecipazione e della mobilitazione popolare, dimostrano che Syriza non fa più sognare. Dimostrano una certa rassegnazione.
Quel sogno leninista, invece, deve essere strumento di lotta quotidiana. Quando non è così, il realismo della borghesia illuminata coincide con la rassegnazione delle classi popolari. È a questo punto che il momento elettorale viene illusoriamente assunto come momento di possibile trasformazione sociale e l’elettoralismo è percepito come il solo sbocco praticabile. È la sconfitta della sinistra, almeno (e soprattutto) di quella che dovrebbe lavorare per “l’abolizione dello stato di cose presente”. Soprattutto è la sconfitta delle classi sociali più deboli, strette in una morsa tra illusione e realismo.
La sinistra, quella radicale, quella che lavora per la trasformazione delle condizioni reali esistenti, la sinistra comunista, dovrebbe tornare a confrontarsi non con il realismo ed il senso di responsabilità e di concretezza di cui parlano i liberisti illuminati, ma con la realtà, con i presupposti reali e storicamente dati. Ci si accorgerebbe, in questo modo, che l’irrilevanza politica è di chi si illude di poter incidere nella gestione del presente senza una lotta per spostare i rapporti sociali esistenti, ma affidandosi alla conta dei voti. Se ci si confrontasse con la realtà, anziché con il realismo borghese, ci si accorgerebbe che per tentare un’emancipazione delle classi sociali più deboli non esistono scorciatoie ad un lavoro di lunga lena che abbia alla base un programma minimo di fase per la trasformazione dei rapporti sociali, intorno al quale le classi subalterne possano aggregarsi ed organizzarsi.