Vi porto un messaggio che sembrerà sconcertante ai più: la riduzione delle imposte non è cosa di sinistra! Esaminiamo il caso del cuneo fiscale.
Nella letteratura economica il cuneo fiscale è utilizzato secondo due distinte accezioni, pur essendo evidenti le somiglianze fra le due.
Nella prima accezione si considerano gli effetti della tassazione sulla produzione o sul consumo di una merce in generale. Secondo la imperversante teoria liberista tali effetti sarebbero negativi, in quanto viene alterata la situazione di equilibrio “naturale”. I prezzi di queste merci verrebbero cioè ad essere maggiorati rispetto al livello che si sarebbe affermato in assenza di tassazione. Se la cosa danneggi di più i produttori/venditori o i consumatori dipende dalla cosiddetta elasticità della domanda, cioè da come reagiscono i consumatori a un aumento del prezzo di una certa merce. Nel caso dei beni di prima necessità ci rimetterebbero di più i consumatori che non potrebbero ridurre considerevolmente i loro acquisti, nel caso dei beni di lusso ci rimetterebbero di più i produttori/venditori, che con un prezzo maggiorato vedrebbero diminuire le loro vendite. In ogni caso, per i dogmatici del liberismo, ogni intervento statale altera l’armonia del creato e quindi è sempre bene farne a meno. Fanno eccezione i provvedimenti che smantellano i diritti dei lavoratori, perché sono questi diritti che non sono conformi all’Ordine naturale.
Ma la discussione e la promessa di questo nuovo governo di ridurre il cuneo fiscale, si riferisce alla seconda accezione, quella che riguarda la tassazione di una merce particolare, la forza-lavoro. A questo proposito, ormai dovrebbe essere noto, essendo stato ripetutamente ribadito in questo giornale, che il valore sociale della forza-lavoro è dato dall’insieme dei costi di riproduzione della classe lavoratrice: costi diretti (il salario diretto, la busta paga), costi indiretti (le spese che sostiene lo Stato per sanità, istruzione, abitazione, mobilità e altri servizi essenziali), costi differiti (il sostentamento, tramite le pensioni, dei lavoratori quando non saranno più in grado di lavorare). Tutto ciò che va oltre il salario diretto viene finanziato attraverso la tassazione e i contributi sociali, posti in parte a carico del ‘datore di lavoro’ e in parte a carico dei lavoratori. Direttamente o indirettamente questi oneri fanno parte dell'impropriamente detto “costo del lavoro” (più corretto sarebbe dire costo della forza-lavoro).
In questa seconda accezione, la tassazione e la contribuzione sociale non alterano il valore della forza-lavoro ma sono proprio lo strumento che permette di avvicinare il salario sociale a tale effettivo ammontare, al costo di riproduzione dei lavoratori. Ogni riduzione del cuneo fiscale sul lavoro, quindi, facendo venire meno risorse pubbliche da destinare al salario sociale, riduce il tenore di vita dei lavoratori, i beni e servizi che in una data fase costituiscono le sussistenze storicamente determinate dei lavoratori. Con ciò diminuisce il valore forza-lavoro, a meno che il minor gettito non venga coperto con la fiscalità generale, quindi con una diversa tassazione, per mantenere inalterate le prestazioni sociali.
La parola d’ordine “ridurre il cuneo fiscale” è quantomai vaga. Come lo si fa? Quale sarà il rapporto tra la diminuzione dei contributi e delle imposte a carico del lavoratori e quella a carico del padrone? Nel discorso di presentazione del governo Conte bis alle Camere, il Presidente del Consiglio ha dichiarato: “Il nostro obiettivo prioritario è ridurre le tasse sul lavoro, il cosiddetto cuneo fiscale, a totale vantaggio dei lavoratori”. Anche nell’improbabile ipotesi che davvero tutti i benefici conseguenti all’abbattimento del cuneo fiscale vadano ai lavoratori, non è detto che questi ultimi ci guadagnino o quantomeno ci facciano pari.
È molto probabile, infatti, che i servizi e le pensioni sostitutivi delle prestazioni dello Stato, che così cadrebbero a carico dei singoli lavoratori i quali dovrebbero procurarseli nel “libero mercato”, siano più costosi dei benefici in busta paga. Ma questa è solo un’ipotesi estrema, che corrisponde a quanto promesso dal governo ma che va verificata nei fatti. Più realisticamente, una parte non trascurabile della detassazione e decontribuzione si tradurrebbe più o meno direttamente (le vie del Signore sono infinite) in un abbattimento dei costi per il datore di lavoro o in un taglio drastico di altre voci del salario sociale. Ciò sarebbe perfettamente in linea con le politiche fin qui seguite in Eurolandia, volte a favorire i profitti e la competitività nel mercato mondiale attraverso l’abbattimento del “costo del lavoro”. In questo caso, anche se una parte cospicua della riduzione fiscale andasse ad aumentare i salari netti, l’operazione si tradurrebbe in una beffa per i lavoratori.
Possono essere valutati anche gli effetti redistributivi di una riduzione del cuneo fiscale. Se essa si traducesse in un vantaggio per le imprese, cosa realisticamente ipotizzabile, si accentuerebbe la tendenza affermatasi negli ultimi decenni a una riduzione della quota di reddito nazionale che va ai lavoratori. E con ciò si accentuerebbero le diseguaglianze, anch’esse crescenti. La stessa cosa avverrebbe se in relazione agli aumenti fittizi in busta paga i sindacati si accontentassero e rinunciassero a chiedere alle imprese contratti più favorevoli ai lavoratori. Si sa infatti che quando governa il centrosinistra come per incanto il conflitto sociale si spegne, figuriamoci se c’è una contropartita.
Naturalmente una valutazione compiuta dell’ipotesi governativa avrebbe bisogno di conoscere i dettagli, dentro cui, com’è noto, si annida il demonio. Occorrerebbe poter confrontare i benefici della spesa pubblica finanziata dal gettito del cuneo fiscale con quelli dello sgravio a favore di questo o quel soggetto. E questo non sarà possibile se la proposta non verrà specificata nei dettagli e analizzata in relazione agli altri provvedimenti di politica economica. Ma l’ipotesi massimamente ottimistica, al limite dell’irreale visti i rapporti di forza, è che i lavoratori possano andarci pari.
Secondo i dati dell’Ocse, in Italia il cuneo fiscale si attesta nel 2018 al 47,9%, una misura sensibilmente inferiore a quella di Belgio e Germania e di pochissimo superiore a quella di Francia e Austria. Sostanzialmente è in linea con i paesi più sviluppati dell’Europa. Fa eccezione solo il Regno Unito (30,9%) e alcuni paesi del Nord Europa, dove però i lavoratori devono destinare una buona quota dei propri stipendi per finanziare gli acquisti nel mercato di prestazioni sociali che lo stato non assicura. Nel 2007 il governo Prodi effettuò un taglio del 5% del cuneo fiscale, di cui il 3 a favore delle imprese e il 2 a favore dei lavoratori. Tale provvedimento, se ha prodotto nell’immediato una riduzione di questo valore, non ha impedito che nel tempo esso si riportasse al livello dei precedenti valori, anzi al di sopra di essi, se si considera nel nel 2006 ammontava al 45,2%, 2,7 punti al di sotto dell’attuale, sempre secondo i dati Ocse. Neppure la decontribuzione di renziana memoria in favore dei contratti a tutele “crescenti”, cioè del lavoro stabilmente precario, pare abbia inciso significativamente sul cuneo fiscale. Segno evidente che ogni ipotesi di riduzione viene a cozzare nel tempo con la necessità di finanziare lo Stato sociale per quanto ai minimi livelli quest’ultimo sia stato ridotto proprio dalle politiche liberiste.
I lavoratori non hanno bisogno di mance o bonus vari (80 euro di Renzi, reddito di cittadinanza del governo gialloverde, riduzione delle trattenute in busta paga ecc.), di volta in volta elargiti per addolcire l’immagine dei vari governi, ma di investimenti pubblici per accrescere l’occupazione, di normative più stringenti per ridurre la precarietà e di sindacati in grado di tutelare effettivamente i loro interessi, anche promuovendo il conflitto sociale.