Questo mese, il governo tedesco ha annunciato nuovi stimoli fiscali per un valore di 130 miliardi di euro. Tra le misure adottate c’è la temporanea riduzione dell'imposta sul valore aggiunto (IVA) per circa 20 miliardi le cui aliquote verranno temporaneamente ridotte dal 1° luglio al 31 dicembre 2020: quella standard passerà dal 19% al 16% e l'aliquota ridotta dal 7% al 5%.
Il governo italiano, dal canto suo, sta studiando qualcosa di simile pur all’interno di una riforma complessiva del fisco che visti i rapporti di forza tra le classi non prefigura nulla di buono per i lavoratori e le masse popolari. Ma perché il taglio della più odiosa delle imposte indirette vada davvero a beneficio delle fasce a basso reddito non solo c’è bisogno che ad essere coinvolti siano se non tutti i beni, quantomeno quelli che entrano nel consumo dei lavoratori, ma soprattutto che i prezzi siano controllati affinché il risparmio sia trasferito ai consumatori, e che il buco di bilancio che si andrà creando per via del minor gettito venga riempito con soldi presi dalle tasche dei possidenti.
Sia chiaro: chiunque si dica di sinistra non può che essere favorevole ad una misura che diminuisce o abolisce l’IVA. Questa, infatti, è un’imposta che colpisce il consumatore finale, indipendentemente da quanto sia ricco o guadagni. Tanto il miliardario quanto l’operaio che comprano un chilo di pane pagano la stessa imposta. Inoltre, l’IVA sottrae ai più poveri una percentuale di reddito maggiore di quella che sottrae ai più ricchi in quanto i primi consumano per il proprio sostentamento una percentuale maggiore del proprio reddito rispetto ai secondi che, al contrario, hanno denaro che supera le loro necessità. Pertanto, i più poveri vedranno una quota consistente del proprio reddito tassata dall’IVA, i più ricchi invece solo la quota parte destinata ai consumi, mentre ciò che investono ne è esente. Ciononostante, è importante monitorare e valutare il modo in cui l’annunciata riduzione verrà realizzata e compensata al fine di verificare se le classi popolari ne trarranno effettivo beneficio.
Chi ci guadagna
La prima cosa che andrebbe assicurata è che la diminuzione delle aliquote, se non può essere totale e generalizzata, prediliga i beni di largo consumo, quelli che entrano nel paniere delle classi lavoratrici e popolari. Per farlo è necessario agire non solo sulle aliquote ma anche sulla composizione dei relativi panieri. Al momento l’IVA ordinaria è del 22% e si applica a tutti quei beni, inclusi molti di prima necessità come i pannolini, che non sono contenuti nella tabella A del DPR 633/72 per i quali è prevista un’aliquota ridotta al 2% (una quarantina di beni di prima necessità), al 5% (prestazioni socio-sanitarie, assistenziali ed educative rese dalle cooperative sociali) o al 10% (servizi turistici, bar, ristoranti, alberghi, e altri beni di prima necessità). Esistono poi operazioni esenti (ad es. transazioni creditizie, assicurative, compravendita di titoli, oro, valute estere, giochi d’azzardo, locazioni e compravendite immobiliari) o non imponibili (esportazioni).
Sarà quindi importante andare a vedere quali aliquote verranno ritoccate e come muterà la composizione dei panieri per essere sicuri che ci possa essere un guadagno per le classi popolari. In 47 anni di vita dell’IVA, infatti, aliquote e panieri sono variati 67 volte, per lo più a danno dei lavoratori che oltre all’aumento delle aliquote hanno visto diminuire il numero di beni agevolati.
Ma per far sì che la riduzione del gettito si traduca in un aumento del potere di acquisto dei lavoratori, vale a dire nella possibilità di consumare un po’ di più con gli stessi soldi, cosa che a parole tutti i politici si dicono disposti a perseguire per rilanciare i consumi, non basta avere una diminuzione delle aliquote sui beni di prima necessità. È oltremodo necessario introdurre sistemi di monitoraggio, controllo e correzione dei prezzi. Al contrario, il risparmio potrebbe rimanere nelle tasche degli imprenditori.
Uno studio pubblicato l’anno scorso relativo all'incidenza del forte taglio dell’IVA per i ristoranti francesi nel 2009, infatti, attesta che i proprietari hanno incassato oltre il 55% del taglio dell'IVA mentre consumatori e fornitori si sono spartiti il restante 45%, con i consumatori che ne hanno beneficiato meno di tutti. Meglio di niente, si dirà. Se non fosse che tale risultato aumenta la capacità di spesa degli imprenditori e quindi il loro potere contrattuale, a danno ovviamente dei lavoratori la cui forza-lavoro deve essere compravenduta.
E ancora, in Italia, come ciascuno può facilmente constatare, i prezzi dei materiali sanitari e farmaceutici necessari per contrastare il diffondersi dell’epidemia di Sars-Cov-2 che beneficiano di un regime IVA di favore hanno continuato a salire, preda della speculazione finanziaria e commerciale. E quando il governo ha imposto il prezzo politico di 0,5 euro per le mascherine chirurgiche - comunque cento volte il prezzo pre-crisi [1] - le grandi catene commerciali ed i supermercati le hanno tolte dal mercato per esportarle dove venivano pagate meglio.
Chi paga
C’è poi il problema di come coprire il buco di bilancio causato dalla diminuzione del gettito. L’IVA in Italia vale 136 miliardi di euro l’anno, il 29% delle entrate erariali totali. In un contesto di forte crisi economica è impossibile che i consumi finali possano aumentare, e conseguentemente ridurre l’impatto sulle casse dello Stato generato dalla diminuzione delle aliquote. Al contrario, è verosimile che ad aumentare sia l’evasione dell’imposta mentre i consumi diminuiranno, con conseguente incremento dell’impatto in termini di mancato gettito. Per far fronte all’ammanco le strade sono sostanzialmente due: ridurre la spesa pubblica oppure aumentare altre imposte (aumentare il debito pubblico significa aumentare le imposte future per cui questa non è che un’alternativa temporanea). Ci sarebbe una terza via, quella maggiormente favorevole alle classi lavoratrici, vale a dire l’aumento delle risorse produttive a disposizione tramite requisizioni e nazionalizzazioni, ma il tema è già stato trattato e si rimanda ai relativi articoli [2].
Una riduzione della spesa pubblica è quanto di più probabile date le dichiarazione contenute nei documenti ufficiali già analizzati che parlano esplicitamente per il prossimo decennio di “surplus di bilancio primario” e “revisione e riqualificazione della spesa pubblica”. Una riduzione dell’IVA così ripagata, dunque, potrebbe risultare indifferente o addirittura controproducente per i lavoratori, nella misura in cui ad essere tagliati sono i servizi loro dedicati e non, ad esempio, le spese militari. Anche perché mentre la diminuzione delle aliquote è temporanea - le clausole di salvaguardia sono state solamente sospese - il taglio dei servizi sociali sappiamo che è strutturale.
La compensazione mediante l’aumento delle altre imposte, invece, potrebbe risultare utile se ad essere colpite fossero le classi possidenti. Escluso che si possa avere alcun beneficio dall’aumento delle altre imposte indirette, dato che esse, oltre a non rendere visibile l’effettivo carico fiscale, tendono ad essere tutte tendenzialmente regressive, cioè a colpire di più chi ha di meno, l’unica speranza è nell’aumento delle imposte dirette a carico delle società o dei grandi contribuenti, attraverso una patrimoniale ed il ripristino di una vera progressività quantomeno nell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF).
A dispetto di quanto afferma la nostra costituzione, infatti, il nostro sistema fiscale non è più costruito per far pagare di più a chi ha di più. Le imposte indirette costituiscono il 47% di tutte le entrate e tra quelle dirette, solo l’IRPEF, da cui provengono il 41% delle entrate totali, è progressiva con cinque aliquote che vanno dal 23 al 43%. Si noti però che quando l’imposta nasceva, nel 1974, le aliquote erano trentadue e andavano dal 10 al 72%. Ciò significa che non solo il carico fiscale si è spostato dai ceti abbienti a quelli disagiati mediante l’incremento delle imposte indirette a danno di quelle dirette ma anche mediante la diminuzione della progressività di queste ultime.
Per quanto riguarda il contributo derivante dalle singole classi sociali, l’81% dell'IRPEF è attribuibile ai redditi da lavoro dipendente e da pensioni e solamente il 9% a redditi di impresa, partecipazioni e capitale (con i redditi da lavoro autonomo e quelli da fabbricati da cui provengono rispettivamente il 6,5% ed il 3% del gettito). Si noti che nel 1980 le percentuali erano rispettivamente del 76% e 12%. Sommando tutte le imposte statali e locali che gravano sulle società, quindi, si scopre che esse contribuiscono solamente al 13% delle entrate totali, con le persone fisiche che si sobbarcano il restante 87% [3].
Note:
[1] Cercando su google e filtrando i risultati escludendo quelli a partire dalla pandemia è possibile rintracciare i prezzi delle mascherine pre-crisi. Esempio: capitolato di gara ASL di Oristano.
[2] Sul tema si veda: Nazionalizzare non solo è possibile, è urgente!, Come gestire l'emergenza da Coronavirus, A proposito delle nazionalizzazioni, Autostrade e Nazionalizzazioni, La nazionalizzazione delle autostrade è un passo avanti?
[3] I dati sono tratti da: Dipartimento Finanze - Entrate tributarie gennaio-dicembre 2019 e da Dipartimento delle finanze - Statistiche sulle dichiarazioni fiscali.