“La natura dell’impresa capitalistica” (EGEA, Milano, 2015) di Domenico Laise – docente di Economia e controllo delle organizzazioni, alla Facoltà di Ingegneria Gestionale, all’Università di Roma, La Sapienza – è un testo pubblicato nell’ottobre dello scorso anno, ma che non ha ancora avuto una sua giusta diffusione in ambito accademico e non solo. Il libro consta di 559 pagine e si suddivide in tre parti che fanno capo a un‘unica caratteristica centrale dell’impresa capitalistica: la gerarchia dispotica. Questa viene indagata in quanto funzionale all’ottenimento sia a) dell’efficienza economica o del profitto, sia b) dello sfruttamento del lavoro umano, sia infine c) alle connessioni tra la Teoria Economica delle Organizzazioni e la Scienza dell’Artificiale.
La gerarchia dispotica capitalistica non rappresenta un ordine naturale, necessario quanto generico interno all’impresa, bensì risulta essere organizzazione di un rapporto sociale stabilizzatosi storicamente in potere autocratico, che si promana in ogni dettaglio relazionale e in tutti gli altri rapporti sociali e istituzionali. In altri termini, il capitale (come concetto), che domina nella capillarità delle sue innumerevoli imprese, non può che esercitare un comando coercitivo nei confronti dei suoi agenti e sottoposti per la produzione di valore e plusvalore, unico proprio fine produttivo. Questo il risultato di un’attenta, puntuale e dettagliata analisi di altre teorie giustificatrici della gerarchia come “efficienza per il benessere sociale” borghese, o di eterarchia, ovvero di organizzazioni democratiche in cui non esiste un gerarca (auto-organizzazioni, mercato, ecc.). Il continuo confronto tra teorie diffusamente dominanti e quella marxiana (marxista o, più arbitraria ancora, neo-marxista), rimossa, ignorata o proprio contrastata, non solo è finalizzato all’arricchimento analitico per la comprensione del funzionamento economico-sociale di questo sistema, ma consente di far emergere i limiti di una mancata pluralità interpretativa alla luce della realtà storica, per “una epistemologia della non banalità” quale augurio nonché invito rivolto ad ogni lettore mosso da intento scientifico.
La strada per l’abbandono della banalità passa, ad esempio, dalla denuncia dell’ideologia degli “alti costi delle transazioni di mercato”, di quella morale ed etica dei cibernetici (che, “per l’uso umano degli esseri umani” vorrebbe essere pseudo-riparatrice di un sistema da lasciare però intatto) e di quella armonizzante ed efficiente dell’autoregolatore funzionamento del mercato, alla base delle formule politiche di comodo quali “più mercato meno stato”, in voga nell’era reaganiana e oltre.
La incalzante chiarificazione concettuale con cui tutto il testo costringe alla scelta teorica riproposta nei molteplici temi trattati, impone, per confutarne eventualmente la legittimità, una documentazione adeguata alla profondità e alla ricchezza argomentativa ivi riscontrabile. Per ragioni di spazio si è qui preferito soffermarsi sulla terza parte che affronta la “Scienza o Ideologia dell’Artificiale”, in quanto l’attualità dei problemi sollevati, e soprattutto il futuro verso cui questo sistema si protende, pongono ad ognuno riflessioni e approfondimenti conoscitivi continuamente sollecitati. L’indubbia adesione alla teoria marxiana da parte dell’autore ripropone all’attenzione del nostro presente non solo la costante riduzione della forza-lavoro viva nel processo produttivo dovuta all’uso delle macchine (o dal “sistema di macchine”, secondo l’accezione marxiana), ma anche la contraddizione fondamentale capitalistica della caduta tendenziale del tasso di profitto, per ovviare la quale si intraprende una spasmodica corsa alla riduzione dei costi (cioè riduzione dei salari o della quota di capitale variabile), soprattutto mediante l’aumento delle macchine (capitale fisso) quale potenziale argine al ricorrere delle crisi.
Già Marx si poneva la problematica dell’aumento di produttività del lavoro sociale mediante l’uso delle macchine, introducendo di necessità la prospettiva teorica dell’eventuale mutamento quali-quantitativo del lavoro umano. Nei nostri tempi il capitale ha già in parte attuata, oltre l’appropriazione del moto, anche quella del cervello umano mediante l’automazione del controllo, per cui tutta l’attività produttiva sembra scaturire dal capitale. Tra gli economisti borghesi c’è anche chi ha previsto (H. Simon, J.von Neumann) l’affermarsi rapida di un’economia completamente robotica, in grado di liberare l’uomo (generico, astratto, inserito in chissà quale società senza classi né dipendenze né conflitti!) dalla miseria, e di cooperare in vista di un Bene Comune, a negazione invece dell’attuale e materiale perseguimento del Benessere Privato di chi detiene il comando. La possibilità di organizzare fabbriche in parte robotiche è tecnologicamente attuabile, mentre si aprono vari problemi – per ora insolubili, ma da indagare – sia di natura sociale e politica, sia economica, relativamente alle finalità produttive, che però lasciano intravedere la necessaria transitorietà del sistema capitalistico.
Solo nello scambio con lavoro vivo il capitale (o lavoro sociale oggettivato, lavoro morto) è tale, la cui macchina (mezzo di produzione contenente lavoro sociale pregresso, qui funzionale al suo valore d’uso appropriato) aumenta la produttività della forza-lavoro e ne ingloba l’attività in funzione di ‘appendice’, estinguendone perciò l’indipendenza. Il lavoro è pertanto reso in parte ‘superfluo’ (Marx), oltreché oppresso, in quanto i suoi caratteri sociali ‘si contrappongono a esso’ come potenze del capitale, separando capacità e conoscenza dal singolo lavoratore e apparendo pertanto incorporate al capitale. Anche il lavoro vivo, come la macchina, diviene quindi capitale fisso, in quanto uso appropriato in forma duratura (dalla vendita della forza-lavoro continuamente reiterabile) nel processo di oggettivazione produttiva, cosicché si ha la falsa impressione, l’illusione, che scompaia del tutto il suo carattere di alterità creatrice di valore.
Già A. Smith aveva definito “l’officina...come una macchina le cui parti sono umani”, determinati questi solo come organi coscienti di essa, fornendo così significato alla valorizzazione automatizzata del capitale fisso, in cui veniva celata una maggiore produzione di valore da parte del lavoro vivo assorbito. Ciò che viene fissato è il capitale variabile – (relativo alla forma di valore) che è l’unica forma che è tale per antonomasia entro il capitale circolante – una funzione della forma variabile del capitale medesimo (che per un verso opposto è per definizione l’essere sempre costante). Il capitale circolante, del resto al pari di quello fisso, riguarda invece il carattere ‘materiale’, oggettuale di valore d’uso della ‘cosa capitale’, in grado di tramutarsi in capitale fisso, in base alla sua durata. Questo è il rapporto usuale fra capitale circolante e capitale fisso in maniera che entrambi, in quanto valori d’uso, debbano distinguersi solo per il tempo della loro rotazione, altrimenti le due proprietà, materiale e formale, sarebbero affatto incomparabili tra loro. È il capitale variabile ‘succhiato’, come dice Marx, dal capitale fisso ciò con cui si è comprato l’uso della forza-lavoro e che si rinnova in quanto “una parte del capitale circolante si fissa, ovvero anche una parte della sussistenza viene scambiata con il lavoro vivo per produrre capitale fisso”[Q.VII-F. 12]. Così “tutte le forze del lavoro” sembrano (tuttora) trasposte in “forze del capitale”, “nel capitale fisso, con la produttività del lavoro che è posta fuori di esso e come esistente indipendentemente, in modo oggettivo, da esso”.
“Senonché, è sempre il lavoro, pur continuamente rattrappito e reso invisibile, a produrre macchine mediante macchine. Lo sviluppo del capitalismo nasconde, cioè, il lavoro nelle pieghe del macchinismo”. Il lavoro umano c’è ma non si vede! “Il macchinismo occulta il lavoro umano come fondamento del valore” (Gianfranco Pala, “Il valore della teoria”, 2003, e “Il nano e l’automa” 1984), ossia crea l’illusione che il lavoro umano sia scomparso completamente dal processo produttivo. Queste ultime riflessioni costituiscono solo alcuni punti di sviluppo, stimolati dall’analisi serrata di questo testo, in cui si dimostra l’importanza e l’insostituibilità del lavoro umano, pur ridotto, nonostante il martellamento degli interessi neocorporativi e di classe continuamente dissimulati da economisti, premi Nobel, teorici politici, ecc., organici al potere dominante. A sostegno di questa tesi, Laise evidenzia la realtà storica in cui, dal taylorismo al toyotismo e oltre, fino ai nostri giorni, il sistema di capitale – in cui siamo tuttora – ha provveduto a incrementare sempre più la produttività del lavoro umano, attraverso l’intensificazione e la condensazione dei suoi tempi. La perdita di questa consapevolezza, unitamente alla conoscenza dell’impasse attuale dell’economia mondiale, e quindi della nostra stessa sopravvivenza, significa la perdita di ogni capacità difensiva di fronte alla gerarchica distruttività dilagante che la propaganda ufficiale continuamente nasconde. Una “organizzazione democratica” economica e sociale potrà sorgere, conclude lo studioso, “quando le forze produttive e la coscienza dei lavoratori dipendenti, a livello mondiale, avranno raggiunto un grado di sviluppo molto più elevato di quello che attualmente possiedono”.