L’ultimo rapporto ISTAT sull’Italia relativo all’anno 2022 e da poco pubblicato merita di essere analizzato alla luce dei prossimi provvedimenti governativi.
Non si tratta solo di rispondere con argomenti fondati alle strategie della destra, prima ancora dovremmo avere un’idea precisa dello stato in cui versa il nostro paese e aprire un confronto reale tra le forze politiche e sindacali, visto che all’orizzonte si intravedono interventi in materia di welfare, lavoro e istruzione, anzi i primi provvedimenti sono già stati adottati rafforzando la precarietà occupazionale e con la progressiva riduzione delle tasse che alla fine impoverirà lo Stato sociale acuendo le disuguaglianze rafforzate nei due anni pandemici.
Molto è stato detto e scritto sull’ascensore sociale fermo, sui salari italiani da quarant’anni in caduta libera quanto a potere di acquisto, del potere contrattuale ridotto o ad appannaggio esclusivo di sindacati rappresentativi che per essere tali hanno accettato di tutto.
Per sfuggire a questo stato di cose sono iniziate le raccolte di firme per leggi di iniziativa popolare sul reddito minimo, un percorso difficile e tortuoso destinato forse a essere arrestato dall’invalicabile muro della maggioranza parlamentare di centro-destra che, al pari di altri governi , mostrerà maggiore attenzione alle istanze datoriali e alle sirene ammonitrici della BCE piuttosto che prendere atto della fragorosa caduta dei salari e del loro potere di acquisto.
Il rapporto ISTAT dovrebbe essere di aiuto per una fotografia aggiornata del nostro paese, dati alla mano aprire una riflessione senza preconcetti perché in tempi magri di lotte e conflittualità diffuse è doveroso non lanciare anatemi ma percorsi inclusivi anche quando restiamo scettici sui percorsi e sulla loro efficacia.
Ascensore sociale fermo, aspettativa di vita in ripresa dopo due anni (anche se il divario di genere inizia a farsi sentire) dacché ipotizzare una profonda revisione della Fornero abbattendo l’età pensionabile diventa difficile, soprattutto quando i dettami del risparmio e del contenimento di spesa continuano a farla da padrone nell’agenda politica del governo e perfino delle organizzazioni sindacali rappresentative. Chiedere al governo di anticipare l’uscita dal lavoro è difficile se pensiamo che persino davanti alla sentenza della Corte sui tempi di pagamento del TFR e TFS per i dipendenti pubblici si sono trovate soluzioni inaccettabili tra gradualità del provvedimento (demandato al governo) e tempi di attuazione non certo rapidi per porre fine a questa autentica iniquità.
Siamo alquanto scettici sull’immediato futuro, la proposta di salario minimo potrebbe diventare il paravento dietro al quale nascondere la nostra incapacità politica e sindacale di mobilitare la forza lavoro alzando la conflittualità nel corpo sociale, lo diciamo consapevoli che un reddito minimo sia necessario e indispensabile insieme alla revisione profonda dell’accordo del 2009 sulla rappresentanza. È proprio quella intesa, l’accordo quadro del 22 gennaio 2009 sugli assetti contrattuali, la madre di ogni sventura avendo determinato un meccanismo di adeguamento dei salari al costo della vita deciso a livello europeo, ma applicato in Italia con particolare efficacia per contenere i costi datoriali, un’intesa che ricordiamo ha introdotto il codice IPCA, ma allo stesso tempo dilatato i tempi dei rinnovi contrattuali con meccanismi risarcitori veramente ridicoli come l’indennità di vacanza pari a una dozzina di euro al mese.
Mettere insieme la questione della rappresentanza, il salario minimo con i meccanismi che regolano gli aumenti contrattuali e i tempi necessari per i nuovi contratti dovrebbe rientrare in una sorta di programma minimo di classe di cui invece non intravediamo traccia alcuna.
Ma allo stesso tempo è bene prendere atto delle indicazioni derivanti dal rapporto ISTAT che fotografano l’inadeguatezza del nostro welfare soprattutto rispetto alle giovani generazioni e alle famiglie; siamo allora certi che davanti ai prossimi atti governativi serva una lettura articolata ma anche capace di smontare pezzo dopo pezzo la narrazione tossica di uno Stato sociale che darebbe troppo agli anziani e poco ai giovani.
Per uscire dall’impasse saremo costretti a rivedere il dogma, ormai tale è, della riduzione delle tasse sul costo del lavoro, un’idea alla fine funzionale alle associazioni datoriali e con effetti malefici anche sulla contrattazione di primo e secondo livello con innumerevoli accordi aziendali in deroga al CCNL e con il baratto tra aumento dei ritmi, dei tempi e della produttività e pochi euro. E se dobbiamo destinare minori risorse agli anziani, la soluzione praticabile diventa quella delle pensioni e della sanità integrative dentro le quali ritroviamo i sindacati rappresentativi in un autentico conflitto di interessi.
In qualunque modo si voglia leggere la realtà, welfare, reddito, salario, tassazione e rappresentanza sono questioni dirimenti destinate a intrecciarsi, dividerle allora in compartimenti stagni non aiuta la forza-lavoro a comprendere la posta in gioco e ancor meno sarà utile per quanti, e sono sempre meno, nel nostro paese si pongano ancora l’obiettivo del conflitto sociale e di riforme radicali per combattere disuguaglianze sociali ed economiche crescenti.