Segue dalla prima parte
La materialità delle nazioni capitaliste
Il capitalismo soffre di molti tipi di crisi [6] anche se i suoi analisti più acuti si concentrano in particolare sulla sua tendenza alla sovrapproduzione di merci e capitali. Marx e Keynes hanno criticato la legge di Say secondo cui non ci possono essere eccedenze [7] mentre l'economista ungherese, Janos Kornai, contrapponeva il capitalismo, come sistema vincolato dalla domanda, con il socialismo vincolato dall’offerta. In Marx l'idea di pletora del capitale assume la forma della caduta tendenziale del saggio del profitto e in Keynes quella del declino dell'efficienza marginale del capitale. [8]
Dal momento che il capitalismo non è solo un sistema di sfruttamento e anarchico ma funge anche da struttura produttiva delle società in cui si è insediato, gli stati capitalisti sono inevitabilmente coinvolti, cercando di risolvere i suoi problemi e, così facendo, modificano considerevolmente il capitalismo stesso. Karl Polanyi ha esposto questo argomento in modo peculiare: nel capitalismo, lavoro, terra e denaro sono trattati come materie prime anche se non sono prodotti per la vendita. Questo trattamento sconvolge così tanto le società che le stesse e gli stati devono rispondere con la protezione sociale, attraverso forme di tutela del lavoro, regolamenti ambientali e sociali. [9] Quindi il capitalismo è sempre il sistema in cui i mercati sono intrecciati con le normative che li modificano.
Nel gestire le contraddizioni del capitalismo e i deficit di legittimità, gli stati agiscono a livello internazionale e/o a livello nazionale, a seconda dei costi relativi che i rapporti di forza sociali e internazionali impongono.
Gli stati nazionali possono regolare i rapporti tra i capitalisti per salvarli da una concorrenza potenzialmente rovinosa. Possono inoltre regolare le relazioni tra i capitalisti e altre classi - per esempio garantendo ai contadini prezzi di sostegno, o ai lavoratori normative sui salari o sulle condizioni lavorative, in modo che rimangano a disposizione forniture quantitativamente e qualitativamente adeguate di materie prime e manodopera. Le azioni statali riflettono l'equilibrio delle forze sociali: mentre possono aiutare i capitalisti a combattere la caduta dei profitti limitando le retribuzioni dei lavoratori imposte storicamente dalle lotte della classe operaia per democratizzare i rapporti sociali e costruire il welfare.
A livello internazionale, come hanno sottolineato le principali teorie classiche marxiste dell'imperialismo, la sistematica tendenza alla sovrapproduzione e al surplus di capitale, ha portato all'imperialismo formale e informale. [10] Territori deboli o privi di stato, che potevano essere colonizzati formalmente a buon mercato dai potenti stati capitalisti servivano da sbocchi per le materie prime e i capitali eccedenti, come pure molte colonie informali. La loro soggezione poteva inondare quella società di beni e capitali della madrepatria in eccesso. Mentre potevano sembrare momentaneamente vantaggiose, queste merci in genere distrussero le capacità produttive dei nativi e, in definitiva, la capacità delle colonie di consumare tutti i beni con cui esse erano inondate. Da parte sua, gli investimenti in entrata hanno messo gli apparati produttivi indigeni sotto il controllo dei capitalisti e dei poteri stranieri.
Mentre molte società non hanno potuto resistere alla colonizzazione, altre hanno potuto farlo, come il percorso delle ex colonie. È grazie a questa dialettica di dominio e resistenza internazionale che, contrariamente all’immagine di un capitalismo mondiale unificato e armonioso, la dinamica delle relazioni internazionali capitaliste ha mostrato fin dagli inizi una turbolenta logica stato-centrica, la logica dell'UCD.
Sviluppo irregolare e regolato (UCD)
Sebbene Trotsky abbia delineato l’UCD in modo più completo nella sua Storia della rivoluzione russa [11], le radici di tale idea risiedono in Marx ed Engels, nell'economia politica classica e nella struttura intellettuale comune con cui i rivoluzionari russi compresero perché la prima rivoluzione comunista del mondo avesse luogo in un paese arretrato. [12] L'intellettuale russo emigrato, Alexander Gerschenkron [13], che insegnò la storia economica sovietica ad Harvard, portò una versione dell’UCD nelle alte sfere accademiche americane del dopoguerra.
Secondo l’UCD, lo sviluppo capitalista è intrinsecamente squilibrato, concentrato in particolari paesi e regioni. Nello stesso modo in cui creano disuguaglianze di classe all'interno delle singole società, il capitalismo le crea tra di esse e pertanto esiste sia la lotta di classe fra le nazioni, che quella al loro interno. A differenza delle trite formulazioni dell'IR "realista" sulle eterne lotte interstatali, nell'UCD, la lotta internazionale è specificamente capitalista. Le nazioni capitaliste più avanzate cercano di mantenere ed estendere le disuguaglianze e con esse la loro capacità di esternalizzare le conseguenze delle contraddizioni del capitalismo. Questo è, in effetti, l’imperialismo. Tuttavia, lo sviluppo regolato assicura che esso non sia una struttura costante e immutabile.
Le altre nazioni non subiscono volentieri questo dominio. Quelle che possono cercano di sfidarlo, attraverso lo sviluppo regolato o concorrenziale, promuovendo lo sviluppo industriale con il protezionismo e la pianificazione delle loro economie. Ciò può assumere forme capitaliste, come nell'industrializzazione degli Stati Uniti, della Germania e del Giappone alla fine del diciannovesimo secolo, o forme non capitaliste come in Unione Sovietica e in Cina. Anche se lo sviluppo regolato non sempre riesce, senza di esso non è possibile alcun recupero della crescita, né in Occidente né altrove. [14]
Mentre gli stati dominanti perseguono la complementarità tra le loro economie e quelle dominate, per esempio assegnando loro il ruolo di mercati per i prodotti industriali e quello di fornitori di materie prime o manodopera a basso costo, le nazioni competitrici cercano di raggiungere i primi, in termini di livelli di industrializzazione e sviluppo tecnologico.
L’UCD, al pari della lotta di classe, si traduce anche in una maggiore regolamentazione statale. Il mantenimento e l’estensione delle diseguaglianze implica vaste azioni degli stati tanto quanto l’impegno nello sviluppo regolato. Entrambi gli sforzi modificano anche il funzionamento del capitalismo. La principale differenza è che in genere il primo caso implica l’allargamento delle libertà del capitale a livello interno e internazionale mentre il secondo comporta la loro restrizione e il controllo e direzione dell'economia nello sviluppo capitalista, addirittura eliminando del tutto tali libertà con il comunismo. Non c'è da meravigliarsi se i capitalisti di solito sono preoccupati per lo sviluppo regolato: molti di loro sono stati creati grazie a tali politiche ma potrebbero anche esserne disfatti in quanto, come ha sottolineato Fred Block, è "del tutto possibile che il capitalismo di stato [cioè lo sviluppo regolato] costituisca puramente una tappa sulla via di una qualche forma di socialismo ". [15]
Naturalmente, lo sviluppo regolato è ostacolato anche dai paesi dominanti. La prima guerra fu notoriamente combattuta tra nazioni che difendevano lo "status quo" e quelle concorrenti. La guerra fredda fu qualcosa di più che una gara tra capitalismo e comunismo: venne condotta contro lo sviluppo regolato in generale, sia esso capitalista o comunista. Quest'ultimo era, tuttavia, la forma più forte di sviluppo regolato e ancora oggi, quello della Cina, governata dal Partito Comunista, è la più forte delle sfide affrontate dalle potenze capitaliste, mentre il potere militare ancora forte della Russia che le fronteggia è un lascito dell’epoca sovietica. Nonostante la retorica del libero mercato, la direzione statuale si è storicamente dimostrata più capace di produrre crescita rispetto al coordinamento del mercato. [16 ]
Il multipolarismo è il risultato del fatto che, nello svolgersi della dialettica tra sviluppo irregolare e quello regolato, quest'ultimo ha prevalso sul primo. Esso ha diffuso la capacità produttiva in tutto il mondo in ondate successive: l'industrializzazione rivaleggiante di Stati Uniti, Germania e Giappone intorno al 1870; l'industrializzazione dell'URSS negli anni '30 accompagnata da briciole di industrializzazione nei paesi coloniali, divenute possibili perché la Grande Depressione aveva interrotto i legami commerciali tra l'Occidente e le sue colonie; i rilanci postbellici a conduzione statuale dell'Europa occidentale e del Giappone; la prima ondata nei paesi di recente industrializzazione (Corea del Sud e Taiwan) negli anni '70, poi seguiti da altri; e, in questo scorcio di XXI secolo, i BRIC e altre economie emergenti. Dal momento che ogni ondata ha lasciato un gruppo più numeroso di sistemi economici emergenti di successo che competono tra loro per i mercati e gli sbocchi degli investimenti, si sono presentate ai paesi meno sviluppati più possibilità di scelta e si è ulteriormente agevolato lo sviluppo regolato.
L'UCD considera le lotte di classe e internazionali nella medesima cornice, e scorge che possono spesso rinforzarsi l'una con l'altra. Ecco un esempio importante. Le classi lavoratrici dei paesi imperialisti potrebbero aver beneficiato dell'imperialismo per il fatto che i capitalisti hanno investito i profitti realizzati in tutto il mondo in modo eccessivo nel paese d'origine, espandendo l'occupazione. Tuttavia, hanno beneficiato ancora di più della decolonizzazione e del perseguimento dello sviluppo regolato da parte dei nuovi paesi indipendenti nel periodo post-bellico. Mentre i paesi imperialisti perdevano i mercati coloniali e dovevano fare assegnamento più sui mercati interni e su un consumo più elevato della classe lavoratrice, potevano avere maggiore successo le richieste della di quest’ultima di salari più elevati. Il consumo della classe lavoratrice in proporzione al reddito nazionale totale subì un aumento univoco dopo la seconda guerra mondiale e da allora è rimasto più o meno costante. Nel frattempo, anche tentativi moderatamente riusciti di sviluppo regolato riuscivano a registrare tassi di crescita dei redditi pro capite multipli di quelli pressoché nulli sotto il colonialismo. [17] È stata questa crescita dei paesi capitalistici, sviluppati e in via di sviluppo, trainata prevalentemente a livello nazionale, che ha gettato le basi per la favolosa crescita del periodo post-bellico, nota come "l'età dell'oro".
Note:
[6] Nel mio The Value of History and the History of Value (cit.) una tabella sistematizza la varietà delle crisi capitalistiche
[7] Claudio Sardoni, Keynes and Marx, in G. C. Harcourt e P. Riach (a cura di), Una "Seconda edizione" di The General Theory. Londra, Routledge, 1997.
[8] Alan Freeman, Going for the Juglar: Keynes, Schumpeter e Theoretical Crisis of Economics, Presentato al Congresso della conferenza annuale Arts and Humanities, Ottawa, 3 giugno 2015.
[9] Karl Polanyi, The Great Transformation. Boston, Mass, Beacon Press, 1985.
[10] Nel mio Geopolitical Economy (cit.) ho sostenuto che, insieme all'idea dell’UCD, queste furono le prime teorie delle relazioni internazionali. I lavori chiave sono opere marxiste come Nikolaĭ Bukharin, Imperialism and World Economy, [Imperialismo ed economia mondiale],Londra, Bookmarks 1917/2003; Rudolf Hilferding, Finance Capital. A study of the latest phase of capitalist development, [Il capitale finanziario], Londra. Routledge e Kegan Paul, 1910/1981; Vladimir Lenin, Imperialism, the Highest Stage of Capitalism, A popular outline, [L’imperialismo, fase suprema del capitalismo], Mosca, Progress, 1916/197 e Rosa Luxemburg, The Accumulation of Capital, [L’accumulazione del capitale], Londra, Routledge, 1913/2003. La chiave del lavoro non marxista è stata John Hobson, Imperialism: a study, Ann Arbor, Mich, University of Michigan Press, 1902/1965.
[11] Londra, Gollancz, 1934.Kees Van der Pijl
[12] Queste origini sono tratteggiate in Desai, Geopolitical Economy (cit.).
[13] Alexander Gerschenkron, Economic Backwardness in Historical Perspective: A book of essays. Cambridge, Mass, Harvard University Press, 1962.
[14] Per il mondo sviluppato vedi Chang, op. cit.; sui paesi in via di sviluppo Alice Amsden, Escape from Empire: The developing world’s journey through heaven and hell, Cambridge, Mass, MIT Press, 2007.
[15] Fred Block, The Origins of International Economic Disorder: A study of United States international monetary policy from World War II to the Present, Berkeley, California, University of California Press, 1977, p. 9.
[16 ] Che questo sia oggi ampiamente riconosciuto, sia pure inconsciamente, emerge con chiarezza dalla conversazione con un piccolo uomo d'affari dalle visioni tipicamente neoliberiste che si lamentava della sfida cinese: aveva un "ingiusto vantaggio", disse, quello di pianificare!
[17] Radhika Desai, ‘Look Back in Hope? Reassessing Regulation Theory’. InHandbook of the International Political Economy of Production, ed. Kees Van der Pijl,Cheltenham, Edward Elgar, 2015.