Segue da COVID-19, l’untore dell’economia mondiale (prima parte)
L’uscita dalla situazione venutasi a creare con questa pandemia non è semplice e riguarda sia l’emergenza che la successiva riparazione dei danni, sia gli aspetti economici e finanziari che quelli medici e più in generale legati al modello di società che dovrebbe essere progettato, visto che il virus ha messo allo scoperto tutta l’inadeguatezza di quello attuale. In ogni caso, più durerà il fermo di gran parte delle attività, più saranno necessari ingenti risorse economiche per affrontare l’emergenza e la successiva ricostruzione.
Le proposte in campo sono diverse e non sempre adeguate. Soprattutto, purtroppo sono inadeguate quelle che sta adottando chi detiene le leve della politica economica, in primis l’Ue e la Bce.
In Usa la Federal Reserve ha messo in atto un massiccio quantitative easing (Qe) da 700 miliardi di dollari e Trump ne promette altri 2 mila. Sulla sua scia anche la Bce, dopo la gaffe (ma è stata davvero una gaffe?) della sua governatrice, Christine Lagarde, che ha suscitato le ire perfino del fin troppo cauto Mattarella, ha lanciato un analogo piano da 750 miliardi. Il problema di un simile approccio è che in assenza di un intervento nel “mercato primario” (tradotto: nell’acquisto di titoli di stato direttamente presso il tesoro emittente), o almeno la modifica di alcune regole di modo che gli istituti di credito siano messi in condizione di detenere la loro riserva presso la banca centrale in titoli di stato, gli acquisti da parte della Bce di titoli del debito pubblico presso il sistema bancario serviranno solo a sgravare le banche del fardello di bond che il mercato tende a svalutare in relazione al rischio di solvibilità degli stati. Le stesse banche potranno utilizzare la nuova liquidità ottenuta in maniera speculativa (di solito prestano l’ombrello quando non piove!), creando le premesse per ricostruire la bolla speculativa fino al prossimo scoppio, e gli stati dovranno continuare a dipendere dagli umori dei mercati, pagandoli in termini di elevati tassi di interesse. Questa grossomodo è la storia del quantitative easing di Draghi. Una manovra monetaria espansiva sarà certamente necessaria, ma da sola, e fatta con queste modalità, non sarà risolutiva.
Il timore che si tenti di costruire la ripresa sulla base di un traballante castello di carte è suffragato dall’annuncio che la vigilanza della Bce autorizzerà le banche a una maggiore flessibilità gestionale cioè a utilizzare pienamente "i cuscinetti di liquidità e capitale” e operare "temporaneamente sotto il livello di capitale Pillar 2” per fronteggiare l'emergenza. Questo, tradotto per noi profani, significa che anche con le banche si chiuderà un occhio, che in questa fase non verrà richiesto tutto quanto è stato preteso da loro in precedenza: ricapitalizzazione o commissariamento, se non addirittura fallimento, come è avvenuto con le vicende di Monte dei Paschi, Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Banca Etruria, Carige e molte altre, non verrà richiesto.
Molto più interessante, anche se ancora insufficiente, è l’annuncio della sospensione del patto di stabilità. Ci voleva il coronavirus per capire che non si può rispondere alle crisi con una politica di bilancio austera! Anni e anni di tagli hanno ridotto la sanità italiana (e a quanto pare, sia pure in misura variabile, quella degli altri partner europei) ai minimi termini e ai loro sostenitori andrebbero addebitati tutti i danni e le vittime conseguenti alla assoluta incapacità del nostro sistema sanitario di far fronte a questa emergenza. Per non parlare della scuola, delle pensioni, della svendita delle industrie pubbliche ecc. Il popolo greco, messo alla fame dalla Troika a causa dell’insostenibilità di queste regole, avrà probabilmente qualcosa da dire a questo proposito. Si cerca ora di chiudere la stalla quando molti buoi sono scappati, tuttavia non sottovalutiamo l’importanza di questa decisione, che tuttavia è dubbio che possa preannunciare un ripensamento delle stesse basi su cui si è costruita l’Unione Europea a Maastricht, dimostratesi del tutto controproducenti, oltre che arbitrarie.
La sospensione non significa ancora la revoca di queste regole, una parte delle quali peraltro parrebbe rimanere, come quella della separatezza della politica monetaria, di pertinenza di una Bce indipendente, da quella fiscale, di pertinenza dei singoli stati, sia pure all’interno dello strettissimo recinto delle regole europee. Sono invece proprio i “valori”, nella duplice accezione del termine, della fondazione europea che debbono urgentemente essere messi in discussione. E comunque anche una revoca del patto di stabilità o una sua sospensione sine die non sarebbe sufficiente. Perché in questo modo si consentirebbe agli stati di produrre deficit in eccedenza rispetto al 3% del Pil e debito in eccesso rispetto al 60% del Pil, senza l’obbligo di rientrarvi nell’immediato con manovre lacrime e sangue. Però si produrrebbe comunque un debito che, anche per l’assenza di una sovranità monetaria, verrebbe sottoposto ai giudizi del mercato. Il quale pretenderà alti tassi di interesse, cosa che in questa complessa situazione non possiamo assolutamente permetterci. Inoltre le regole europee, se ammettono lo sforamento dei parametri in circostanze eccezionali come questa, impongono un rientro nel medio tempo. Lo spettro del fiscal compact, cioè l’obbligo di rientro a ritmi forzati, oppure del Mes, cioè il “salvataggio” subordinato al sostanziale commissariamento da parte della troika, si insinuerebbe nella nostra non lontana prospettiva.
Questo timore è rafforzato dall’ultima uscita di Mario Draghi. Paragonando la situazione attuale a uno stato di guerra, tira fuori dal cilindro la soluzione dell’indebitamento pubblico. Come durante le guerre, gli stati, indebitandosi, dovrebbero, secondo lui, farsi carico dei problemi del sistema delle imprese che non è non in condizione di far fronte ai propri debiti. Gli stati dovrebbero costituire un fondo di garanzia di modo che le banche possano erogare credito ai privati, a tasso vicino allo zero, a prescindere dalla loro capacità di restituzione, perché in caso di insolvenza interverrebbe lo stato. Banche e imprese, insomma, non rischierebbero niente e il debito privato si trasformerebbe in pubblico, più di quanto, aggiungo io, non sia avvenuto finora attraverso differenti meccanismi.
Notate bene, non è che Draghi abbia un ripensamento sulla criminalizzazione del debito pubblico, criminalizzazione che proprio sotto la sua presidenza alla Bce ha condannato la Grecia. No, gli stati si devono indebitare perché siamo in guerra. Debbono supportare il sistema delle imprese e i profitti in questo momento di difficoltà. Poi, se ne deduce, finita la guerra, si tornerà all’austerità. E allora è facile immaginare chi pagherà la montagna di debito pubblico accumulata. Tanto per ritornare alla sanità, sarà possibile ricostruirla in termini pubblici e universalistici con dotazioni di strumenti e personale adeguati, o sarà oggetto di ulteriori tagli? E le pensioni, per il cui pagamento cui già oggi l'Inps lamenta la mancanza di fondi in relazione alla sospensione dei versamenti dei contributi, potranno essere adeguate, o ci saranno altri tagli? Insomma l’uomo della troika, che ha avuto un ruolo formidabile nella compressione del tenore di vita dei lavoratori europei, potrebbe girare il coltello nella piaga con l’imposizione di nuovi sacrifici. Tanto più che Draghi si guarda bene dall’invocare un qualche ruolo della Bce nel sostegno del debito pubblico, che verrebbe così lasciato nelle mani della speculazione, con la conseguente ascesa dei tassi.
Alla gravità della proposta economica si aggiunge il pericolo della sua acclamazione da parte delle destre, di Renzi, di europeisti e di settori del Pd come uomo della provvidenza. A economia di guerra potrebbe associarsi politica di guerra, con l’umiliazione degli strumenti democratici, già ampiamente compressi, in un “volemosi bene” che accomuni tutti nella difesa della Patria per sconfiggere il microscopico nemico.
Enrico Grazzini, nel blog di MicroMega, propone di trovare i soldi emettendo titoli fiscali, la “moneta parallela” o “quasi moneta” che aveva ipotizzato a suo tempo Varoufakis e di cui avevamo già trattato tempo fa. Il problema principale di questa soluzione è che lo stato interverrebbe indebitandosi nella sostanza, anche se non formalmente. Infatti questa moneta verrebbe accettata dallo stato in pagamento delle imposte e di altre somme dovutegli, facendo venire meno alla scadenza le corrispondenti entrate di denaro fresco. Gli economisti keynesiani ribattono a questa mia obiezione che tuttavia, la nuova quasi liquidità immessa attraverso questo strumento rilancerebbe l’economia attraverso il moltiplicatore keynesiano e con ciò aumenterebbe il gettito fiscale. Quindi al momento del pagamento delle imposte il bilancio dello stato avrebbe le risorse per permettersi di accettare questa carta in pagamento.
Si tratta di una scommessa che non mi sentirei di sottoscrivere per una molteplicità di motivi. Trattandosi di moneta fiduciaria, potrebbe essere accettata in pagamento solo se il valore all’atto dell’emissione sia notevolmente inferiore a quello di rimborso, la cosa si tradurrebbe comunque in un onere a carico del bilancio dello stato, analogo nella sostanza a quello degli interessi. Altro elemento di criticità è che, per usare un eufemismo, è difficile stimare il moltiplicatore in questo frangente, in cui non sussistono solo problemi di domanda aggregata, ma anche necessità di rimettere in piedi l’apparato produttivo. Infine, una soluzione apparentemente neutrale, che non fa menzione di chi sosterrebbe il carico del maggior gettito fiscale, in realtà neutrale non è in quanto non è difficile prevedere che pagheranno i soliti noti, i lavoratori, a carico dei quali pesa la maggior parte dei proventi fiscali.
Mentre la soluzione prospettata dal responsabile economia del Pd, Emanuele Felice, cioè quella di chiedere più flessibilità all’Unione Europea, e magari anche qualche soldino, viene scavalcata dai fatti, ormai è assodato che in questa situazione straordinaria verranno chiusi entrambi gli occhi sul debito pubblico. Ma ci sarà prima o poi il problema di restituire i prestiti e di ricondurre tale debito a una misura sostenibile. E anche il denaro fresco, che sarà richiesto da molti, perché molti saranno gli stati in difficoltà, sarà difficile ottenerlo se non viene fatto ricorso a strumenti straordinari.
La durezza dei fatti è che questa epidemia colpisce soprattutto gli operatori sanitari e le classi più deboli: i lavoratori costretti a rischiare l’infezione per tenere in piedi il sistema produttivo, gli anziani a cui spesso è negata la possibilità di cure adeguate perché la carenza di dotazioni impone una selezione, i senzatetto, i carcerati, compresi quelli per brevi detenzioni, messi in libertà dal decreto governativo e che tuttavia sovente devono uscire senza avere la possibilità di trovare un alloggio. A un male di classe debbono corrispondere risposte socialmente giuste.
Le risorse per questa risposta, e per rilanciare il sistema produttivo, oltre che attraverso una maggiore giustizia fiscale e una efficace lotta alle evasioni, debbono essere reperite con misure straordinarie, quali ad esempio quella di una straordinaria stampa di euro con cui acquistare direttamente presso l’emittente “virus bond” o dell’Ue stessa o degli stati nazionali, titoli che dovrebbero essere a scadenza lunghissima, o meglio perpetui, e a tasso bassissimo, o meglio a tasso zero. Il pericolo inflazione non sarebbe la cosa più preoccupante, perché il guaio è proprio che non si riesce a raggiungere il tasso di inflazione obiettivo del 2%, nonostante il quantitative easing di Draghi. Giungerà questa Europa a questa importante deroga alle sue ferree leggi? Il ministro dell'Economia tedesco Altmeier intanto si è espresso contro: "C'è già lo scudo della Bce, non si conducano dibattiti fantasma", ha dichiarato. Dello stesso tenore è la replica del governo olandese. Ma dalla risposta a questo quesito dipenderanno non solo gran parte delle chance di ripresa, ma anche la possibilità di assicurare una coesione dentro l’Ue, la quale, in difetto, andrà giustamente verso l’implosione.
Anche coloro che fin qui hanno sostenuto con fermezza le regole di Maastricht, si stanno ponendo degli interrogativi di fronte alla gravità della crisi. Così la Commissione Ue ha proposto la costituzione di un fondo da utilizzare sia per gli interventi sanitari che per ristorare le “parti più vulnerabili” del sistema produttivo e il commissario Gentiloni, sollecitato dal ministro Gualtieri, ha prospettato “politiche di bilancio coordinate” idonee ad affrontare “iniziative straordinarie”. Da parte sua l’Ufficio Parlamentare di Bilancio ha richiesto, come indispensabile, il ricorso agli eurobond per sostenere i paesi colpiti.
Essendoci focalizzati sui meccanismi finanziari e fiscali europei, abbiamo dovuto lasciare fuori da questa trattazione cose ancor più importanti, quali il ruolo dello stato nella ricostruzione economica, il ritorno a una programmazione, la necessità di realizzare un sistema sanitario interamente pubblico, universale, gratuito e dotato di mezzi adeguati. Peraltro questo giornale ha già trattato alcuni di questi argomenti e ci tornerà ancora. In questa sede mi limito a sottolineare che la crisi sanitaria ed economica potrebbe diventare l’occasione per avviare un radicale cambiamento della nostra organizzazione sociale, anche alla luce dei diversi esiti della crisi nei paesi in cui permane un forte ruolo dello stato rispetto a quelli in paesi, che come il nostro, hanno subito decenni di ubriacatura liberista. Il cosiddetto libero mercato e la logica del profitto non reggono a queste prove mentre la pianificazione democratica rimane la via maestra da perseguire.
Tuttavia chi detiene attualmente il potere, ha in mente prospettive di segno opposto (Draghi docet), pertanto sarà indispensabile la mobilitazione di una ampio fronte popolare per imporre i cambiamenti indispensabili.