L’ultimo saggio di Giacchè dimostra che i Trattati esprimono un’idea di società che confligge con la nostra Costituzione, violandone i diritti fondamentali, a partire dal diritto al lavoro. Come uscire dalla gabbia dei mercati e dai vincoli dell’euro? Intervista all’autore.
di Alba Vastano
“Nessuno ha il potere di modificare, se non in meglio (cioè se non ampliando i diritti), i primi dodici articoli della nostra Costituzione. Né la Corte, né il Parlamento, né il Governo. Nessuno.” Vladimiro Giacchè
Incontro Vladimiro Giacchè a “Casale Alba2”, uno dei cinque casolari immersi nella cornice naturale del parco Aguzzano di Roma. È un luogo dove si svolgono attività socio-culturali-didattiche e di ristoro L’occasione è la presentazione del suo ultimo libro “Costituzione italiana contro i Trattati europei”. Un saggio che l’autore, economista d’eccellenza, presenta con maestria.
Il tema è intricatissimo, intrigante (ndr: nell’accezione di affascinante, che incuriosisce, che cattura) ed è assolutamente attuale. Giacchè, ne argomenta i punti focali: l’attacco alla Costituzione italiana, come uscire dalla gabbia economica, in cui ci hanno rinchiuso i Trattati europei, riaffermando la validità dell’impianto della Costituzione e la sua priorità sugli stessi Trattati. Si sofferma a lungo l’economista sul nuovo art.81 che prevede l’obbligo del pareggio di bilancio, in conformità delle regole europee del Fiscal compact, e fa un’accurata analisi “dolens” sulla sua incostituzionalità. Offre spunti per riflettere su come l’inserimento in Costituzione dell’art.81 sia “un vero e proprio cuneo che scardina il sistema dei fondamentali diritti”. Nell’intervista a seguire, concessa da Giacchè in esclusiva per La Città futura, pillole di economia per i lettori.
Mi permetta una domanda iniziale che non vuole essere una critica al titolo del suo saggio. Ma, con l’occhio europeista, è la Costituzione italiana a essere contro i Trattati europei o viceversa? O c’è, come poi si afferma nel sottotitolo, un’incompatibilità che è diventata conflitto fra le due leggi-principe fondanti, ovvero la Costituzione e i trattati Ue?
La Sua domanda non è affatto strana. Qualcuno ha criticato il titolo del mio saggio, osservando che sono i Trattati europei a essere contrari alla nostra Costituzione e non viceversa. Il che ovviamente è vero, se non altro perché arrivano dopo. Ma il mio titolo ha un’intenzione polemica e politica: intende alludere al fatto che oggi la Costituzione può essere e deve essere usata come un’arma per demistificare e combattere i Trattati europei nei loro contenuti regressivi.
Perché? Quali sono, nel suo “Costituzione italiana contro i Trattati europei”, i punti centrali della costruzione politica giuridica europea che lei intende focalizzare e che considera destrutturanti o destabilizzanti per la nostra Costituzione?
Il punto essenziale è la “stabilità dei prezzi” assunta come vero e proprio valore centrale dei Trattati europei, e in particolare quale obiettivo economico che deve avere l’assoluta priorità su tutti gli altri. Nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, ad esempio, si legge che l’“obiettivo principale” dell’Unione è quello di “mantenere la stabilità dei prezzi”, e solo “fatto salvo questo obiettivo”, ossia dopo e solo se esso è conseguito, ci si deve occupare degli altri (art. 119, co.2; concetto ripetuto nell’art. 127, co.1). Ora il problema è che l’obiettivo della “stabilità dei prezzi”, se assunto come prioritario, è contraddittorio rispetto al diritto al lavoro e a una retribuzione decente previsti dalla nostra Costituzione. Nel nome della lotta contro l’inflazione gli aumenti salariali sono sbagliati e le politiche espansive pubbliche finalizzate a creare occupazione vanno addirittura vietate. La Commissione Europea ha usato nella valutazione delle manovre di finanza pubblica italiane il cosiddetto “livello di disoccupazione di equilibrio”; politiche pubbliche dirette a ridurre il livello di disoccupazione al di sotto di questo livello sono “troppo espansive”, non vanno bene perché creano inflazione. E a quanto fissa la Commissione europea questo livello “giusto” di disoccupazione per l’Italia per il 2016? All’11,4%!
Questo è semplicemente contrario al diritto al lavoro previsto dalla Costituzione italiana come uno dei diritti fondanti della nostra repubblica (e fondante, tra parentesi, per la stessa democrazia – che ovviamente è soltanto formale se le persone sono disoccupate e ricattabili).
Parliamo di Costituzione italiana. In riferimento ai principi fondamentali che non possono essere modificati neppure dalla Corte costituzionale è palese invece che siano stati attaccati pesantemente dai Trattati europei. Quali Trattati in particolare, hanno inciso sulla nostra Costituzione?
Questo è un punto centrale. Nessuno ha il potere di modificare, se non in meglio (cioè se non ampliando i diritti), i primi dodici articoli della nostra Costituzione. Né la Corte, né il parlamento, né il governo. Nessuno.
La torsione liberista e anticostituzionale dei trattati europei comincia con l’Atto unico europeo del 1986 e si afferma con il trattato di Maastricht del 1992 e con la moneta unica. Che, a differenza di quanto qualcuno pensa, non è soltanto una moneta, ma il condensato di un ordine giuridico: che prevede, oltre alla stabilità dei prezzi, la banca centrale indipendente, lo smantellamento dell’economia mista (in cui settore pubblico e privato convivono) e una concorrenza all’interno dell’Unione tutta giocata sul dumping salariale (pago meno i salari) e sul dumping fiscale (faccio pagare di meno le tasse alle imprese). Nulla di tutto questo sarebbe stato accettato dai nostri costituenti.
E invece il nostro Parlamento ha accettato – alla Camera senza un solo voto contrario – di inserire nella Costituzione quel vero e proprio tarlo del nuovo articolo 81, che costituzionalizzando il pareggio di bilancio impone politiche di austerity anche se esse confliggono con diritti fondamentali: posso chiudere gli ospedali anche se questo va contro il diritto alla salute, posso ridurre stipendi e pensioni anche se questo va contro il diritto a una remunerazione civile, ecc..
Da quali dinamiche nasce la crisi europea, intesa o fraintesa dai più come crisi del debito pubblico? Ci spieghi le dinamiche che stanno affondando in particolare l’economia dei paesi del sud dell’Europa.
La crisi europea nasce da squilibri della bilancia commerciale tra i paesi membri. Squilibri che vedevano in particolare un paese (la Germania) in forte attivo grazie a una aggressiva politica mercantilistica (attuata – in conformità con i trattati – abbassando salari e tasse alle imprese), altri in passivo per l’impossibilità di reggere la concorrenza senza più la via d’uscita di riaggiustamenti del cambio e con un debito in aumento a causa dei bassi tassi d’interesse. Come ho spiegato tre anni fa nel mio Titanic Europa, il debito pubblico è in gran parte una derivata di questo squilibrio della bilancia commerciale e poi dello scoppio della crisi.
Interpretare la crisi come crisi del debito pubblico ha avuto due vantaggi per chi oggi guida l’Europa: ha impedito di affrontare alla radice il vero problema (il mercantilismo tedesco, che sfruttava la rigidità introdotta dalla moneta unica) e legittimato politiche di austerity che hanno colpevolizzato le vittime (i cittadini degli “Stati spendaccioni”) e tagliato, guarda caso, proprio i salari indiretti (i servizi sociali) e differiti (le pensioni). Sono stato tra quelli che avevano previsto che questo avrebbe inferto un colpo formidabile alla domanda interna e peggiorato la situazione economica del nostro paese, finendo per appesantire anche il debito pubblico a causa del crollo del prodotto interno lordo. Purtroppo le cose sono andate proprio così. L’Italia ha perso circa un quarto della sua produzione industriale dall’inizio della crisi. I tre quarti della produzione industriale perduta sono stati persi nella fase dell’austerity.
La resa della Grecia ha dato all’Europa antiliberista e a quel che resta della sinistra il colpo di grazia?
Ha dato il colpo di grazia soprattutto all’illusione che si possa cambiare questa Europa senza affrontare alla radice i problemi. Ossia senza affrontare il tema della moneta unica e di quello che essa implica in concreto. Su questo tema purtroppo la sinistra è più indietro, nella comprensione dei meccanismi in gioco, dello stesso establishment europeo, che pure non brilla per lungimiranza strategica. In un testo della Commissione, ad esempio, si legge tra l’altro quanto segue:
“Venuta meno la possibilità di svalutare la moneta, i paesi della zona euro che tentano di recuperare competitività sul versante dei costi devono ricorrere alla "svalutazione interna" (contenimento di prezzi e salari). Questa politica presenta però limiti e risvolti negativi, non da ultimo in termini di un aumento della disoccupazione e del disagio sociale...” [Il testo citato è scaricabile da internet qui: http://europa.eu/rapid/press-release_IP-14-43_it.htm , N.d.R.].
Insomma: con la moneta unica la via maestra per il recupero di competitività è la riduzione dei salari.
Io credo che dopo la “capitolazione” del governo greco (la definizione è di Varoufakis) molti a sinistra stiano aprendo gli occhi sull’impossibilità di avere “un’altra Europa” sulla base dei trattati e delle politiche attuali. È molto importante che questa consapevolezza si diffonda.
Tornando all’art.81: perché questo inchino che l’Italia ha regalato al fiscal compact, e alle politiche neoliberali europee? Era una strada obbligata?
L’inserimento in Costituzione dell’art. 81 è il risultato di un ricatto: i paesi creditori del nord Europa, a cominciare dalla Germania, hanno sostanzialmente detto che senza questo tipo di garanzie avrebbero lasciato l’Italia (e gli altri paesi cosiddetti “periferici” dell’Europa) sulla graticola dei mercati finanziari, che erano tornati a chiedere rendimenti molto elevati per comprare i titoli del nostro debito pubblico. Il primo errore è consistito nell’accettare questo ricatto: l’Italia avrebbe invece dovuto prendere atto del fatto che il patto fondativo dell’euro (perdita della sovranità monetaria contro guadagno di bassi tassi d’interesse) era stato violato (da altri), e trarne le dovute conseguenze. Il secondo errore è consistito nel piegarsi a questo ricatto quasi gioiosamente, senza la minima consapevolezza delle conseguenze reali sulla nostra economia, e anzi credendo nel potere magico delle politiche di austerity. Che sono invece risultate disastrose. Paura e subalternità culturale hanno fatto un disastro.
E per approfondire la questione del pareggio di bilancio, Manin Carabba, ex presidente della Corte dei Conti, che lei ha richiamato nel suo saggio, definisce “abnorme e inaccettabile che il principio debba prevalere su ogni diritto dei cittadini costituzionalmente garantito”. Costituzionalizzandolo si è dato quindi il via ad un’economia nemica dello stato e dei diritti dei cittadini?
Si è inserito nella Costituzione un tarlo che la rode, mangiandosi valori e diritti. Determinati diritti già oggi non sono considerati più esigibili a fronte dei vincoli del pareggio di bilancio. Qui però c’è un errore di prospettiva che va sottolineato: infatti l’articolo 81 in nessun modo può prevalere sui diritti fondamentali tracciati nei primi 12 articoli della Costituzione. Chi afferma qualcosa del genere non sa nulla della Costituzione e della gerarchia che esiste tra la prima sua parte e le altre. Precisamente per questo Manin Carabba parla di qualcosa di “abnorme e inaccettabile”. E ha ragione.
E per tornare all’Europa e ai trattati, oggi per il nostro Paese è conveniente più Europa o meno Europa? E se “più”, quale Europa?
Chi oggi vuole davvero un futuro con più Europa, dovrebbe volere meno Europa adesso. Mi spiego. Il percorso di integrazione che si è intrapreso, mettendo la moneta davanti alle politiche e – soprattutto – alla convergenza economica tra i paesi membri, sta distruggendo l’Europa, ponendo le basi dell’implosione dell’Unione e di conflitti disastrosi. Ha già creato forti rancori, assenza di solidarietà e recriminazioni reciproche a non finire. Si tratta di capire che questa integrazione non è “insufficiente” – come spesso si dice (come se bastasse mettere un cappello politico alla moneta unica), ma che essa ha preso una strada sbagliata. Si tratta di tornare indietro e di eliminare ciò che fa da ostacolo alla convergenza economica tra i paesi dell’Unione. A cominciare dalla moneta unica. Solo quando si sarà dato vita a un reale percorso di convergenza si potrà parlare di un’integrazione più stretta. Altrimenti, quello che si chiama “integrazione” è un abbraccio mortale. Dal quale prima o poi uno o più paesi – giustamente – si divincoleranno.
Vuole spiegare quali sarebbero i vantaggi per l’Italia da una exit monetaria? Come verrebbero trattati i debiti e i crediti italiani dopo una exit? Nel periodo di transizione cosa accadrebbe all’economia italiana, già provatissima e quanto tempo occorrerebbe per risalire la china?
Come dicevo, il vincolo monetario è stato centrale nel determinare il peggioramento delle nostre dinamiche economiche. Ormai questo è il segreto di Pulcinella. Ecco cos’ha twittato giorni fa Jonathan Tepper, l’autore assieme a John Mauldin di alcuni ottimi libri sugli scenari economici:
Mi sembra che ogni commento sia superfluo. È evidente che la nostra priorità è uscire da questa situazione prima che sia troppo tardi: ossia prima che la deindustrializzazione del nostro paese abbia raggiunto il punto di non ritorno.
Riappropriarsi della sovranità monetaria consentirebbe di riattivare il meccanismo di riequilibrio basato sui riallineamenti del cambio (svalutazione esterna), in assenza del quale si deve far ricorso all’abbassamento dei salari reali e nominali (svalutazione interna). Inoltre, se chi produce ricomincia a vendere le proprie merci, sarà anche incentivato a ricominciare a investire (mentre gli investimenti in questi anni sono crollati del 25%).
Ovviamente a tale riappropriazione dovrebbero accompagnarsi misure quali la fine dell’indipendenza della banca centrale e controlli sui movimenti di capitale.
Quanto al resto della Sua domanda, cercherò di rispondere limitando al minimo i tecnicismi (che servono eccome, ma in altre sedi).
I debiti e crediti dovranno essere trattati in base alla legislazione e alla moneta del paese in cui i contratti sono stati stipulati. Questo significa che, nell’ipotesi di un’uscita dalla moneta unica, i debiti sarebbero pagati nella nuova moneta nazionale e non in euro. Da questo punto di vista non si avrà quello che qualcuno (disinformato o in malafede) paventa, ossia un’enorme crescita del debito pubblico. Lo stock di debito non conoscerà questo aumento, né il fatto di ripagare il debito pubblico nella nuova moneta costituirà uno svantaggio per i detentori italiani di titoli di Stato. Sicuramente gli interessi sul nuovo debito aumenteranno nel breve periodo, per poi tornare a scendere a situazione stabilizzata e in presenza della ripresa economica.
Non si avrà alcuna fiammata inflattiva, come non si è avuta dopo le svalutazioni del 1992-1995: all’epoca si svalutò complessivamente di oltre il 50% sul marco e di oltre il 30% sul dollaro, e l’inflazione scese (dallo 6,4% del 1992 al 5,4% del 1995). Oltretutto, se il timore è la crescita del prezzo delle materie prime (pagate in dollari), vale la pena di notare due cose: in primo luogo, che nei confronti degli Stati Uniti svaluteremmo molto meno che nei confronti del neo-marco (già, perché la nostra non sarebbe l’uscita di un paese, ma la fine della moneta unica); e in secondo luogo con il petrolio ai minimi attuali la prospettiva di un suo rincaro non è davvero fonte di particolare preoccupazione.
Quanto al resto, succederà quello che è successo allora: una forte ripresa della produzione, dell’occupazione e delle esportazioni (e questo fornirà la base materiale per la ripresa di rivendicazioni salariali, oggi impensabili).
Ovviamente, ogni fine di un ordine monetario comporta turbolenze e instabilità anche forti sui mercati. Non sarà un pranzo di gala, ma sono fenomeni che si possono governare, come si è sempre fatto dacché esistono le monete. E comunque l’alternativa – questo dovremmo ormai averlo capito – è peggiore.
Testi recenti dell’autore:
-“La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea” (2011)
-“Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato” (2012)
-“Anschluss-L’annessione L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa” (2013)