I soggetti colpiti dalla crisi sono innumerevoli e destinati a crescere nei prossimi mesi. La pandemia, soprattutto se si protrarrà ancora per molto, creerà nuovi poveri e iniquità che andranno ad aggiungersi alle contraddizioni già palesate dalla struttura capitalista.
Il virus determinerà nuovi poveri soprattutto in alcuni settori nei quali i contratti atipici e stagionali, a chiamata o precari che siano, nel corso degli anni hanno rappresentato una fonte di sostentamento da integrare magari con la Naspi o il reddito di cittadinanza, con qualche impiego temporaneo e occasionale al nero.
Stiamo pensando ai lavoratori dello spettacolo che invocano un contratto analogo a quello degli intermittenti francesi. Tuttavia il ragionamento andrebbe ampliato fino a investire l’intero sistema degli ammortizzatori sociali. In Italia il welfare per anni è stato costruito pensando a una famiglia monoreddito nella quale la donna o era disoccupata (e dedita alla cura di minori e anziani) o part-time. Provenendo da civiltà contadine, già nell'immediato dopoguerra, si pensò a rafforzare il sistema previdenziale nella prospettiva di assegni pensionistici dignitosi. E si pensava che un anziano con una pensione dignitosa avrebbe rappresentato un aiuto concreto ai figli e così è stato per almeno un trentennio. Ma oggi la situazione è profondamente cambiata.
Negli ultimi trent’anni le pensioni sono state investite da controriforme (dal sistema di calcolo dei contributi fino, al mancato recupero del potere di acquisto, all’aumento dell’età pensionabile) che in una vita lavorativa costellata da anni di precarietà determineranno presto un futuro da fame ritardando peraltro l’uscita dal lavoro, a una età sempre più vicina ai 70 anni.
La riforma degli ammortizzatori sociali è stata invocata da quanti volevano distruggere il modello previdenziale retributivo e al contempo attaccavano tutele collettive come quelle dell'art 18.
Il risultato delle controriforme è stato quello di subire il ricatto dello scontro generazionale, pensioni più leggere in cambio di aiuti ai giovani, peccato che i risultati siano ben diversi: disuguaglianze salariali e sociali, precarietà, pensioni e salari da fame, perdita di tutele collettive e individuali.
Chi oggi invoca la digitalizzazione dimentica come 300.000 alunni siano senza connessioni e personal computer: compito dello Stato sarebbe stato quello di dotare, nei mesi scorsi, di strumenti informatici le numerose famiglie che ne sono sprovviste. Al contrario lo Stato risparmia, si lavora da remoto con i nostri pc e le connessioni pagate dai singoli lavoratori; si studia in didattica a distanza con i mezzi informatici delle famiglie. Sono esempi lampanti di come lo Stato abbia abdicato al suo ruolo. Del resto per decenni la ricchezza prodotta è andata alle rendite e non ai salari e oggi paghiamo le scellerate scelte dell’ubriacatura liberista.
Sarebbe utile costruire una contronarrazione degli ultimi trenta/quarant’anni per capire come dalla crisi capitalista sia uscito un modello sociale sempre più iniquo con la forbice salariale decisamente allargata. Da qui nasce la cosiddetta polarizzazione del reddito con una mobilità sociale fortemente ridimensionata (il figlio di operai ha meno possibilità di ascesa sociale di quante ne avesse negli anni Ottanta e Novanta solo per fare un esempio). Detto in altri termini, la polarizzazione sancisce la crisi della classe media che la pandemia potrebbe portare alle estreme conseguenze, per esempio con la proletarizzazione di settori lavorativi e sociali, soprattutto quelli di certo lavoro autonomo.
Pensiamo sempre ai lavoratori del turismo e dello spettacolo: si guarda al welfare francese come un modello da seguire pensando al regime di solidarietà totalmente finanziato dallo Stato. Trattasi di assistenza (reddito minimo garantito dallo Stato) pensata per integrare la classica disoccupazione tutelando per esempio i disoccupati a lunga durata. In Francia l’indennizzo mensile è forfettario (sopra i 300 fino a poco più di 600 euro mensili), si basa su regole complicate e viene rinnovato ogni tre mesi se il disoccupato può vantare un minimo periodo di lavoro. In Francia i lavoratori dello spettacolo sono considerati a tutti gli effetti salariati e non liberi professionisti e ricevono tutele diverse da quelle dei bonus accordati in tempi di covid. Ma anche in Francia gli ammortizzatori sociali tradizionali sono sotto attacco dal governo Macron.
La questione è complicata ma di grande attualità, in ogni caso una riforma degli ammortizzatori sociali non potrà essere scissa dal ritorno al sistema previdenziale retributivo, dalla attuazione del salario minimo (pensare che gli attuali contratti nazionali possano garantirlo è pura follia) per superare i contratti pirata, da meccanismi di automatico adeguamento al costo della vita per salari e pensioni (non certo quelle elevate), da una riforma reale delle regole del lavoro che nell’arco di pochi lustri hanno rafforzato la precarietà a discapito del contratto a tempo indeterminato.
Riflettere sulla crisi in atto senza dimenticare che si tratta di crisi strutturale del capitalismo acuiti dalla pandemia, analizzare la condizione economica dei lavoratori e dei pensionati senza permettere che la riforma degli ammortizzatori sociali possa avvenire a discapito dei salari o delle pensioni di domani, ricomporre quella unità di intenti tra generazioni che l’ideologia del capitale ha reciso per rendere tutti vulnerabili e facilmente attaccabili è un compito ineludibile.
È arrivato il momento di entrare nel merito della crisi sistemica e dei suoi effetti, facciamolo in fretta per dotarci di strumenti necessari a scongiurare l’ennesima frantumazione della forza lavoro sotto la scure ideologica del tradeunionismo, un modello sindacale oggi funzionale agli interessi padronali. Il solo modo per resistere alla ideologia dominante è ricostruire una mappa dei soggetti colpiti dalla crisi per unificarne le istanze con rivendicazioni forti e capaci di andare oltre al singolo settore o alla semplice vertenza.