Il Poletti-pensiero di questa settimana probabilmente si può riassumere così: studiare tanto, e soprattutto farlo bene, vuol dire solo perdere tempo. L’importante è prendere ‘sto benedetto pezzo di carta, che dia niente di più che conoscenze immediatamente spendibili per trovare un lavoro da svolgere ovunque ti trovi, a qualunque orario, senza sapere quanto guadagni esattamente.
di Carmine Tomeo
Secondo il ministro del Lavoro, bisogna partecipare in maniera attiva e responsabile all’attività aziendale ed alla produzione del valore, attraverso un lavoro da considerare semplicemente un’attività umana, che si può fare in mille posti.
Evidentemente, a Poletti “otto ore gli sembran poche”. E se la sintesi è corretta, è normale, dopo averla letta, sentirsi un po’ nei panni di Cipputi.
Il tentativo di mistificare il quotidiano sfruttamento con romanticherie quali «il lavoro è un’attività umana», che perciò «si può fare in mille posti», non riesce a nascondere i riferimenti ad un lavoro basato sul cottimo ed in condizioni peggiori di quelle classiche.
Certo, il ministro Poletti ha provato a correggere il tiro. Alla Luiss aveva invitato i ricercatori a studiare il tema del superamento del contratto di lavoro basato sull’orario di lavoro, da sostituire con un altro che abbia come riferimento «la misura dell’apporto dell’opera»; pochi giorni dopo, davanti ai giornalisti, Poletti afferma di non riferirsi al cottimo ma ad una «partecipazione attiva e responsabile del lavoratore alla propria attività di lavoro, alla produzione del valore e dell'opera che realizza».
Il linguaggio si è fatto più aulico, ma il senso rimane intatto: il salario del lavoratore deve essere legato al suo rendimento.
Quanto è distante il senso delle affermazioni di Poletti, da quelle del presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi che parla di salario legato alla produttività ed alla flessibilità? Cos’ha di diverso l’idea del ministro del Lavoro, rispetto a quella di Marchionne di salario legato agli obiettivi aziendali? Le risposte, ovviamente, sono scontate: non c’è differenza.
Non a caso il presidente di Federmeccanica, Fabio Storchi si dice «pienamente d’accordo con il ministro Poletti» ed auspica che si possano «riformulare, insieme al sindacato, i profili professionali adeguandoli all’oggi, nel contempo adegueremo questi livelli ai dei minimi salariali di garanzia. Questi minimi di garanzia saranno poi adeguati in azienda».
Non è difficile immaginare affinità tra queste formulazioni e quelle di Cgil, Cisl e Uil, che dopo il vertice del 25 novembre hanno parlato di «sperimentazione di nuovi livelli di partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori al governo dei processi produttivi aziendali».
I fautori di questo modello giustificano tale necessità con il fatto che la tecnologia oggi permette questo passaggio qualitativo, che consentirebbe ad ognuno maggiore indipendenza e autonomia. Non a caso lo stesso Poletti, nel correggere il tiro sul contratto sganciato dall’orario di lavoro, ha affermato di avere «un'idea molto positiva della tecnologia e dell'innovazione e molte aziende hanno già portato avanti contratti con queste modalità di organizzazione del lavoro».
Il dramma è che Poletti ha descritto una realtà che in parte già esiste e che si sta consolidando in varie forme dell’organizzazione del lavoro. Il tema, ora, è generalizzare questo approccio proiettato ad un’intensificazione dello sfruttamento e farlo accettare nella sua forma occultata.
Dal lavoratore del call center a quello della logisitca, dall’operaio in fabbrica al lavoratore con la finta partita Iva, fino anche ai lavoratori della scuola, tutti stanno sperimentando sulla propria pelle, seppure in forme diverse, la sostanza del lavoro basato sulla cosiddetta “partecipazione”. Che non investe solo la sfera del compenso, ma anche l’organizzazione del lavoro. Perché per quanto si voglia addolcire la pillola con un linguaggio mistificatorio, oltre il velo della “partecipazione” rimane intatta la gerarchia ed il comando padronale sull’organizzazione del lavoro. Anzi, sono accresciuti per l’imposizione di una flessibilità che travalica le mura dei luoghi di lavoro e investe la vita dei lavoratori che devono essere sempre più disponibili, anche fino a 24 ore per 7 giorni.
Non è forse questa la direzione assunta in stabilimenti Fca organizzati su 18 turni di lavoro e l’aumento degli straordinari comandati? E nel terziario, l’ipotesi di Poletti non è già per molti versi realizzata? E gli accordi sulla produttività, l’articolo 8 della manovra di Ferragosto 2011 che permette deroghe a contratti e leggi, lo stesso Testo Unico sulla rappresentanza, non subordinano forse i diritti dei lavoratori agli obiettivi aziendali?
È, insomma, questa la forma di organizzazione del lavoro che il capitale sta adottando. Non sarà sufficiente limitare i danni, difendere qualche diritto ancora non cancellato, contestare un provvedimento del governo o anche fare uno sciopero per non peggiorare le condizioni di lavoro in una fabbrica. Bisognerà fare anche quelle cose, certo, ma la risposta a questa riorganizzazione del lavoro va trovata sul tentativo di erodere al capitale il controllo sulla produzione. Vuol dire condurre una lotta di classe? Sì, proprio questo. E non basterà a ciò costituire a tavolino o nelle aule parlamentari un nuovo soggetto politico genericamente di sinistra. Sarà necessario tentare di rimettere insieme pezzi di movimenti antagonisti al capitale, per organizzare un nuovo blocco sociale che abbia un progetto ed un programma antiliberista e anticapitalista.