L'Italia non è un paese per donne. A dirlo non sono soltanto i continui episodi di femminicidio e cronaca nera. Lo dicono anche i dati dell'Istat sul mercato del lavoro. Il tasso di occupazione maschile è maggiore di circa 20 punti rispetto a quello femminile (67,5% contro 48,6%), il primo tendenzialmente in aumento (+ 0,5%), l'altro in calo (- 0,2%). La disoccupazione femminile cresce (+ 4,6%) e la percentuale di donne che resta fuori dal mercato del lavoro, spesso non per scelta ma per mancanza di opportunità, è quasi doppia rispetto a quella degli uomini, in tutte le classi di età (44% contro il 25% dei maschi).
Parlano chiaro anche i dati sui differenziali retributivi. Lo scarto tra i salari degli uomini e delle donne è pari al 12%, con punte addirittura del 30% tra i laureati. Un gap che inizia a penalizzare le donne a monte, a partire dalle tipologie contrattuali, dai part time involontari, dalle mansioni e in generale dai percorsi di carriera.
Per non parlare dei dati sulla ineguale suddivisione del lavoro di cura: sempre secondo l'Istat, un uomo lavoratore svolge in media 650 ore di lavoro domestico in un anno, una donna lavoratrice oltre 1.500. Quasi tre volte di più.
Insomma, altro che parità! Segnali di cambiamento ci sono, ma sono lentissimi e diseguali tra Nord e Sud. E in ogni modo, il percorso verso condizioni di lavoro se non pari almeno simili è ancora molto lungo.
Su un'unica cosa da gennaio 2018 uomini e donne raggiungono la parità. Tutti e tutte andranno in pensione di vecchiaia a 66 anni e 7 mesi. L'unica parità di cui davvero non sentivamo il bisogno.
Paradossalmente questa misura deriva da una sentenza della Corte di Giustizia Europea, che nel 2009 sanzionava l'Italia perché discriminava gli uomini mandandoli in pensione dopo. Solo che, complici lo spread e le politiche di austerità imposte dall'Europa, nel 2011 non è diminuita l'età pensionabile degli uomini, ma è aumentata quella degli uni e delle altre. Tanto che oggi il sistema italiano è peggiore di quello di qualsiasi altro paese europeo. Per tutti, alla pari! Così, se in Svezia uomini e donne vanno in pensione alla pari a partire dai 61 anni, in Italia, altrettanto alla pari, ci vanno a 67. E le donne continuano ad avere percorsi di lavoro più discontinui e a svolgere la gran parte del lavoro di cura. Altro che parità!
L'unico vantaggio per le donne resta per ora nelle pensioni di anzianità, che sono ancora 41 anni e 10 mesi, un anno in meno degli uomini. Vantaggio relativo, considerata la maggiore discontinuità delle carriere delle donne e visto che, a regime, l'età è destinata ad aumentare ancora con gli scatti automatici. A breve, la pensione di anzianità (ipocritamente detta anticipata dalla Fornero) non esisterà più e sarà di fatto sostituita da quella di vecchiaia.
Per le donne, la riforma Fornero è stata, quindi, se possibile, ancora più odiosa che per gli uomini. Le lavoratrici sono passate da 60 anni a quasi 67 in meno di 5 anni (gli uomini partivano da 65).
Il punto è anche che le donne, dopo una certà età, rischiano persino più degli uomini di essere espulse dai processi produttivi e, una volta licenziate, con più fatica ancora trovano un'altra occupazione, tanto meno stabile e a tempo pieno. Non è un caso che tutti i meccanismi di fuoriuscita anticipata siano stati indirizzati proprio alle donne o addirittura pensati per loro. Così, per esempio, "opzione donna", con il quale le donne possono uscire prima ma con una riduzione media degli importi del 25-35%. Soluzione ipocrita e ulteriormente discriminante sui differenziali retributivi tra uomini e donne. Pare che nella prossima finanziaria "opzione donna" sarà sostituita dal sistema ancora più surreale dell’APE, l'anticipazione pensionistica tramite il prestito alle banche, che probabilmente sarà di nuovo incentivata per le donne.
Questa parità, insomma, proprio non va bene. Ma se non sarà bloccata, scatterà automaticamente nel 2018. Senza contare, nel 2019, l'ulteriore aumento di altri 3 o 4 mesi per l'adeguamento alla speranza di vita.
Questo autunno rischia di essere l'ultima possibilità che abbiamo per fermare il meccanismo perverso della legge Fornero e mobilitare il paese per rimettere al centro il tema della riduzione dell'età pensionabile e quindi della redistribuzione del lavoro.
Un tema che riguarda tutti, uomini e donne. Le donne, però hanno una ragione in più per mobilitarsi e mi auguro che sapremo farla vivere anche nel movimento femminista e nelle iniziative verso il 25 novembre. Perché se questi ultimi 30 anni hanno segnato un profondo processo di femminilizzazione del mercato del lavoro e se questo processo è stato positivo per l'autodeterminazione e la libertà delle donne, non altrettanto è stato per le condizioni di vita e di lavoro.
Le discriminazioni non sono affatto diminuite ma casomai aumentate. E oggi, l'unica parità che rischiamo di ritrovarci in mano è quella dello sfruttamento. L'unica che non volevamo.