Complice le imminenti elezioni europee, si sta sviluppando un dibattito politico sulla questione europea tesa a delineare una posizione politica di classe alternativa a quelle che vanno per la maggiore nel quadro politico italiano ed europeo: quella europeista liberista e quella nazional-sovranista.
Nelle minoritarie forze comuniste, o in quelle che quantomeno rimangono ancorate ad una visione di classe ed ad una prospettiva di società socialista, sembra essere abbastanza acquisito il fatto che le due impostazioni ideologico-politiche dominanti, in apparenza contrapposte, siano in realtà due facce della stessa medaglia, che rispondono, all’interno del fronte borghese, l’una alla grande borghesia sovranazionale, l’altra alla piccola e media borghesia nazionale del piccolo capitale, accomunate però da un’unica politica di classe antidemocratica ed antipopolare. Appare scontato ricordare che proprio la grande borghesia sovranazionale, quella del grande capitale monopolistico finanziario transnazionale, in concomitanza con il deflagrare e acuirsi della crisi dagli anni 70/80 in poi, ha diretto e gestito il processo europeo e che la contrapposizione nazional-sovranista della piccola borghesia è espressione di una contraddizione intra-capitalista in cui essa è storicamente e strategicamente perdente, contraddizione tutta interna al campo borghese.
Per non rimanere però ad un livello di critica sovrastrutturale è bene ricordare, seppur in modo succinto e schematico, alcuni aspetti che definiscono l’attuale fase imperialista europea, quella del grande capitale monopolistico finanziario transnazionale europeo. Innanzitutto il processo di “transnazionalità” che ha interessato i vari imperialismi nazionali europei, così come li abbiamo conosciuti nel secondo dopoguerra, è tuttora un aspetto che opera in maniera forte nel quadro economico del vecchio continente, anche se è ben lungi dal determinare l’esito di un imperialismo europeo univoco e strutturato, come è il caso di quello usa-americano e che come tale si pone come unico e unitario attore sulla scena imperialista internazionale. In questo quadro, al fine di “gestire” al meglio la crisi e di dispiegare tutte le possibili controtendenze ad essa, si è proceduto a determinare strumenti e istituzioni pseudo-statali europei, avvalendosi a tal fine di ideologie “europeiste”, perlopiù di estrazione democratiche liberali, con la funzione di sostegno e regolazione, in un’ottica rigidamente liberista, dell’economia capitalista in genere e del grande capitale in particolare, collaterali alle altre istituzioni politico economiche sovranazionali mondiali.
Tali politiche, attivamente sostenute dalle “sezioni nazionali” della grande borghesia sovranazionale, hanno compenetrato, negli ultimi decenni, tutte le politiche dei vari stati europei (al di là dei vari governi) portandoli ad un ulteriore assoggettamento agli interessi del grande capitale transnazionale e alle sue politiche economiche tese al superamento e risoluzione della crisi e in particolare nella sua lotta di classe contro il proletariato e le classi popolari. Tale compenetrazione e assoggettamento ha per molti versi determinato una cessione di sovranità delle istituzioni nazionali a favore di quelle sovranazionali europee.
Le precise scelte di politica economica in cui si concretizzano le controtendenze alla crisi, non si applicano solo al campo avversario, quello proletario e popolare, ma anche all’interno del proprio blocco e fronte sociale dove, ad esempio, lo scontro inter-imperialista in Europa ha portato a ridefinire in termini negativi i rapporti di forza dell’imperialismo italiano nei confronti di quello tedesco e francese. Tali politiche vengono dispiegate al fine di annullare a favore dei più forti, da un lato la concorrenza e le contraddizioni inter-imperalistiche (che appunto permangono nonostante l’intrecciarsi delle cordate e filiere economico-finanziarie transnazionali e degli sforzi di tutti gli istituti sovranazionali nell’armonizzazione e regolamentazione dell’economia capitalistica del mercato mondiale) e dall’altro di mantenere la subalternità del piccolo capitale agendo nei termini di un suo inserimento in una filiera industriale più vasta, di committenza garantita per l’indotto, di prezzi bassi imposti in cambio di una profittabilità limitata, anche se formalmente certa, di stringenti normative economiche produttive, di facilitazioni al credito ecc.. Il tutto in una fase in cui la speculazione finanziaria è la risposta fondamentale in una fase di crisi economica, pur operando insieme ai classici processi di concentrazione e centralizzazione capitalistica e alla riattivazione, a danno in primo luogo del proletariato, delle controtendenze alla crisi, comportando, come è storicamente connaturato all’imperialismo, sviluppo e crisi diseguali tra i vari stati e, nelle varie aree regionali, sacche di povertà e spoliazione economica accanto a realtà statuali e regionali connotate dal massimo sviluppo industriale e finanziario.
In questo quadro, con uno stato capitalistico del grande capitale che ha sempre più accentuato l’aspetto della espropriazione economico-fiscale nei confronti dei settori sociali non alto borghesi, la tendenza alla proletarizzazione della piccola borghesia e del “lavoro autonomo” si rende sempre più materialmente palpabile fino a spingere tali settori sociali a rendersi disponibili, a livello politico-ideologico, a momenti di contrapposizione sempre più forte, a volte assumendo connotati pseudo-rivoluzionari nei confronti del vero “dominus” della nostra società. Quanto questa contraddizione in seno al blocco capitalistico possa però essere realmente rivoluzionaria, dal punto di vista del cambiamento dei rapporti sociali di produzione, se non incanalata nel processo di emancipazione proletaria, appare indubitabile e pressoché scontato.
Il piccolo capitale e la piccola borghesia rifiutano, sia per la propria condizione materiale di esistenza che per la loro collocazione ideologica di principio, la possibilità e necessità di una limitazione e tantomeno un rivoluzionamento, anche se storicamente lontano, del modo di produzione capitalistico. Ideologicamente spesso, proprio gli strati di media e piccola borghesia sono quelli che maggiormente hanno introiettato i principi capitalistici e liberisti che, sulla base della proprietà privata di classe, prevedono la giustezza economico morale dello sfruttamento del proletariato, della “iniziativa privata”, della concorrenza di mercato come regolatore economico, dell’assoluta estraneità dello stato dall’economia, ma al contempo di una sua piena dipendenza alle esigenze dell’economia capitalistica, stato che quindi non deve essere quello “sovranazionale” rispondente agli interessi del grande capitale monopolistico finanziario transnazionale, ma “nazionale”, quello più vicino al medio e piccolo capitale nazionale, se non in molti casi regionale.
È sulla base di queste particolari modalità con cui la contraddizione citata si manifesta, che emergono tutta una serie di richieste/obiettivi della galassia sovranista, spesso giornalisticamente identificati nel “piano B”: uscita dall’UE, uscita dall’Euro, ripristino del ruolo “nazionale” della Banca d’Italia, ripristino della Lira, rottura dei trattati, ecc. Il presupposto a tutto ciò è che ci sia un governo italiano pienamente “sovrano”, un esecutivo politico fortemente coeso su tale politica nazional-sovranista, con un sostegno non secondario del mondo economico finanziario e svincolato dai “lacci” parlamentari e popolari, un governo disposto a rompere i trattati (visto che i trattati li “rompono” i governi statuali e non altri), ad aprire all’ipotesi quantomeno di una seconda moneta, ecc. In sostanza, sottinteso a questa sequela di proposte sta l’idea del ritorno ad uno stato italiano, ovviamente imperialista, che, maggiormente condizionabile dai settori sociali nazionali espressione del piccolo e medio capitale, sappia contrapporsi sia ai vincoli e alle politiche sovranazionali dell’Europa del grande capitale, sia alla concorrenza imperialistica dei “fratelli” imperialisti tedeschi, francesi, ecc.
In quest’ottica ai lavoratori e ai settori popolari italiani nulla cambierebbe nei termini di maggior possibilità e agibilità politica per la difesa dei loro interessi e per un processo di emancipazione in direzione socialista. Anzi si determinerebbero le condizioni per una maggior coercizione neocorporativa, di stampo nazionalista ed apertamente autoritaria e reazionaria. L’idea di far fare ai sovranisti il “lavoro sporco” con l’Europa e il grande capitale, magari appoggiandoli in alcune loro battaglie, per poi gestirci noi, in casa, il processo politico di emancipazione, condizionando capitale e borghesia a questo punto potenzialmente in crisi, è puramente infantile, irrealistico e suicida. Alla fine non sarebbe Salvini a lavorare per noi, ma noi a lavorare per lui. L’accodarsi, da parte dei comunisti e della sinistra di classe, a questa contraddizione nei termini sovranisti con cui viene posta, porta inevitabilmente, sia alla reazione aperta, sia, tra l’altro, allo scontato esito vincente del grande capitale nei confronti del piccolo capitale.
La contraddizione tra piccolo e grande capitale, invece, può e deve essere sfruttata tatticamente dal blocco proletario e popolare solo dal suo punto di vista. Ciò vuol dire che, se non potrà mai esserci alleanza con questi settori sociali sul nostro “programma massimo”, cioè l’inizio di una fase di transizione socialista, su obiettivi e battaglie economiche politiche di un “programma minimo” che veda il proletariato e i settori popolari battersi principalmente contro il grande capitale e il suo stato in funzione della difesa sia del salario e delle condizioni di lavoro, sia del salario sociale di classe, sia delle condizioni politiche democratiche, è possibile stabilire con tali ceti sociali soggetti al processo di proletarizzazione, momenti di alleanza o, quantomeno, di neutralità sociale.
Un programma di obiettivi e lotte di questo tipo è l’unico possibile e necessario in questa fase non rivoluzionaria che abbia la capacità di unificare il blocco proletario e popolare (e le forze politiche che ambiscono a rappresentarlo), di favorire un’accumulazione delle forze e di stabilire rapporti di alleanza con quelle forze sociali che, come dicevamo prima, si rendono disponibili ad una lotta unitaria con il fronte popolare. Questo a maggior ragione in una fase in cui, dati i rapporti di forza, è improponibile ogni possibilità di controllo e di limitazione dello stato capitalistico, delle sue istituzioni e dei suoi istituti posti a difesa del grande capitale, come talune “ipotesi B” di uscita dall’UE e dall’Euro, come abbiamo visto, sembrano prospettare.
Già in altre occasioni si ebbe a dire come un programma minimo abbia un valore non solo a livello nazionale, ma anche internazionale e quindi a maggior ragione soprattutto in ambito europeo. Gli obiettivi e le conseguenti battaglie per la riduzione dell’orario di lavoro giornaliero e di quello complessivo nell’arco della vita, per un aumento del salario, contro la precarizzazione e il salario a cottimo, contro la disoccupazione e per una tutela del complessivo e composito esercito industriale di riserva nazionale o immigrato, per la difesa del salario sociale di classe in termini di istruzione, sanità pubblica, trasporti ecc., di salario differito (pensioni), di difesa degli spazi democratici in contrapposizione, in una fase di fascistizzazione della società, alla democrazia autoritaria e ai suoi istituti svincolati dal controllo popolare ecc., sono gli obiettivi su cui è possibile e necessario intervenire unitariamente in ambito europeo, ipotizzando a tal proposito una peculiare forma politica, organizzata e unitaria, adeguata allo scontro sul piano europeo.
Il constatare che le politiche e i trattati europei, voluti, approvati e messi in pratica dagli stati nazionali, siano vincoli e impedimenti micidiali, in termini di politiche di austerità e impossibilità di controllo pubblico e democratico dell’economia, al dispiegarsi della difesa e lotta per l’emancipazione delle condizioni di vita e di lavoro delle masse lavoratrici e popolari e che perciò sono da combattere decisamente, non comporta però che si risponda con obiettivi di lotta che, rimanendo al solo livello sovrastrutturale (obiettivi come l’uscita dall’Ue, dall’Euro, dai trattati internazionali), presuppongono un rafforzamento dello Stato capitalista (nazionale) e del fronte sociale borghese , proprio perché si consegna di fatto in mano a loro, e non ad un controllo popolare, la potestà e la gestione politica economica della (ipotetica) rottura. Si ricade con ciò, di fatto, in una concezione sovranista. Quando nel movimento si sbandierano tali obiettivi, lungi dall’essere “più radicali” si avvallano solo posizioni massimalistiche e includentemente estremistiche. Basta infatti chiedersi: “chi” esce dall’EU, dai trattati ecc., “come”, per andare “dove”, con quali “rapporti di forza”?
A tale livello sovrastrutturale statuale è possibile agire solo in una situazione di scontro di classe e di rapporti di forza necessariamente più favorevoli a noi, in una fase pre-rivoluzionaria dove gli obiettivi sono appunto quelli della rottura degli istituti statuali e pseudo-statuali, nazionali e sovranazionali, dello stato borghese imperialista. In tal senso è esplicativa l’esperienza greca. Sull’aspetto dei rapporti di forza ciò che è successo in Grecia è sicuramente di grande insegnamento, soprattutto se si pensa che per poter attuare quello che la prima Syriza voleva fare (se non l’azzeramento del debito una sua drastica riduzione, congelamento e ricontrattazione, con l’eventuale corollario di grexit e di seconda moneta), tale partito, con il suo governo e la sua maggioranza, avrebbe probabilmente dovuto avere (la non piena certezza è più che necessaria visto che qui si rischia di praticare fantapolitica più che analisi politica) il controllo/nazionalizzazione di una reale Banca Centrale e delle principali Banche elleniche, per non dire, per gli effetti e contraccolpi che ciò avrebbe determinato in politica e nell’economia nazionale, di settori non secondari di industrie, trasporti, commercio-turismo e per ultimo, anche se non per importanza, di “garanzie” dell’esercito e degli apparati di polizia. Praticamente essere ad un passo da una situazione prerivoluzionaria! Penso che sia palese che non esistessero reali rapporti di forza tali da supportare quegli obiettivi, visto che non si riusciva nemmeno a fare una “patrimoniale” e conseguentemente l’esito era abbastanza scontato.
In vista delle elezioni europee si è sviluppato tra le forze politiche a sinistra del P.D. un confronto, a tratti molto duro, sul modo e sulle alleanze con cui andarci e sui contenuti programmatici. Proprio sulle modalità per arrivare ad una unità programmatica si sono palesati diversi problemi e limiti. Proprio nella (mancata) elaborazione di un “programma minimo” infatti, si è manifestato non solo il problema della corretta valutazione dei “rapporti di forza”, e più in generale della fase “non rivoluzionaria”, ma anche, come abbiamo già accennato, il problema della “radicalità” vista come antidoto al “tradimento” di classe e al “riformismo”. Tale ragionamento purtroppo è vecchio quanto il movimento comunista. Periodicamente si ripresenta e si concretizza nell’intraprendere la scorciatoia della riaffermazione in termini agitatori politici del “programma massimo”, dell’ideale di nuova società di cui dobbiamo essere portatori. Ciò è visto come antidoto e soluzione autocritica agli errori/tradimento delle forze politiche, anche della sinistra “radicale” dell’immediato passato e spesso è accompagnato da un atteggiamento giovanilistico/rottamatorio dove il problema sembra essere solo l’età e il “cadreghino” dei gruppi dirigenti e dove, coerenza vuole, non si eviti ciò che è divisivo a scapito di posizioni di “principio”.
In realtà l’autocritica e la ricerca di unità la si può svolgere, non tanto sui “principi”, così come ad ognuno di noi ci sono pervenuti dalla precedente fase storica di disgregazione del patrimonio teorico conoscitivo del marxismo, ma sulla capacità di misurarsi nell’elaborazione del programma minimo, nella misura in cui riattiva proprio, in relazione al programma massimo e alla sua ridefinizione, l’analisi concreta della situazione concreta in stretto rapporto con i nostri soggetti sociali, raggiungendo con ciò, anche tra le forze politiche disponibili, quel livello di unità possibile a livello programmatico che non sia il solito pateracchio elettoralistico.