La vera e propria svolta nell’interpretazione contemporanea del Platone politico è costituita dalla pubblicazione della fortunata opera di Karl Popper: La società aperta e i suoi nemici. In quest’opera Popper individua nella filosofia politica di Platone il principale antecedente ideologico dei regimi totalitari, ovvero il nazismo e il comunismo. Per quanto estremamente discutibile l’opera di Popper è stata in grado di condizionare praticamente tutta la successiva interpretazione del Platone politico. In effetti, gli interpreti successivi – pur cercando di recuperare Platone quale padre nobile del pensiero occidentale e criticando perciò Popper per non aver colto l’aspetto liberal-democratico di Platone, o per averlo interpretato politicamente o per aver preso sul serio i suoi progetti esposti ne La Repubblica – ne hanno fatto propri gli impliciti presupposti teorici. Innanzitutto hanno fatto proprio il principio del pensiero unico dominante per cui l’unica politica accettabile sarebbe quella liberal-democratica, mentre le altre concezioni alternative non possono che avere tendenze totalitarie.
Così una parte significativa degli interpreti successivi hanno cercato di dimostrare, naturalmente senza nessuna base filologica, che la concezione di Platone possa essere interpretata in senso liberal-democratico, nonostante tale filosofo non abbia mai nascosto le sue profonde e radicali critiche del sistema democratico.
Diversi altri interpreti hanno tentato, in modo ancora più inverosimile, di leggere anche i dialoghi più apertamente politici di Platone in senso apolitico. Altri, come ad esempio Gadamer, hanno cercato di interpretare La repubblica di Platone come un’opera appartenente al genere dei castelli in aria, anche in questo caso andando evidentemente contro non solo lo spirito, ma anche la lettera dell’opera platonica. Infine, la lettura che ha avuto forse maggiore successo è quella fondata dall’interpretazione di Leo Strauss che ha considerato come ironica la prospettica indicata da Platone ne La repubblica. Anche in questo caso, stravolgendo completamente il Platone politico, Strauss e i suoi nipotini ne hanno fatto un filosofo decisamente antipolitico, che ne La Repubblica avrebbe voluto denunciare come la prospettiva di una filosofia politica nelle sue realizzazioni pratiche non avrebbe che potuto produrre l’orizzonte distopico di uno Stato totalitario.
Vegetti – dopo aver puntualmente confutato tutte queste derive interpretative, prive di qualsiasi fondamento non solo filosofico, ma anche filologico – ha cercato di mostrare come non solo Platone ritenesse il suo progetto di Stato, tendenzialmente comunistico, come il migliore dei mondi possibili, ma si sia costantemente sforzato di dimostrare come non si trattasse di un progetto campato in aria, ma di un obiettivo cui mirare, anche se non di immediata e semplice realizzazione a causa della sua radicalità. D’altra parte solo tenendo fermo questo altro obiettivo sarà possibile sviluppare una serrata critica alle concezioni politiche dominanti, tenendo al contempo viva la lotta per la progressiva affermazione di una società collettivista.
Per quanto riguarda L’etica degli antichi – una delle prime grandi opere dedicate da Vegetti alla filosofia antica – nonostante i diversi anni trascorsi dalla sua prima pubblicazione, l’opera rimane estremamente attuale e utilissima a comprendere lo sviluppo delle concezioni etiche e morali nel mondo greco e poi romano. L’opera si apre con un capitolo dedicato ai primi sviluppi della concezione etica e morale nell’antica Grecia. Dopo aver analizzato il ruolo della morale e la delimitazione del soggetto morale, Vegetti ne individua e analizza le costanti nella felicità e nella virtù, mostrandone lo sviluppo attraverso tre autori che segnano i punti salienti dello sviluppo della concezione dell’etica nella Grecia antica, ovvero Omero, Socrate e Aristotele.
Nel secondo capitolo Vegetti risale alle origini dell’etica antica, rinvenute nell’Iliade con la sua virtù della forza, attraverso cui analizza il primo momento di sviluppo della morale, ancora pre-politica, e della sua dialettica. Nel terzo capitolo l’autore inquadra l’apogeo e la crisi della concezione dell’etica nella civiltà greca antica, in cui si sviluppa una concezione politicizzata della morale, in rottura più o meno aperta con l’antica concezione omerica. Vediamo così come attraverso l’impresa di Solone, mediante cui si afferma l’idea dell’eguaglianza fra gli uomini, da realizzare attraverso l’opera di formazione che deve svolgere la polis, si giunge a una analisi critica della natura del potere. Da tale critica assistiamo alla crisi della precedente concezione politicizzata della morale, fino al sorgere della nostalgia per la polis antica oramai perduta.
Da questa crisi, sorge e si afferma una concezione vieppiù interiorizzata della morale, con il progressivo affermarsi dell’anima individuale. Tale sviluppo avviene attraverso l’orfismo e i riti dionisiaci, cui seguono filosoficamente il pitagorismo, l’affermazione con Socrate del dèmone interiore, fino all’elevarsi nel Socrate di Platone dell’anima al vero io. Tale concezione entra in crisi con l’emergere in Platone delle stratificazioni e delle lotte interne alle diverse configurazioni dell’anima, per cui l’anima finirà per volgersi contro se stessa, sino al progressivo fallimento della sua interpretazione come verità dell’Io. Ciò nonostante vi sarà una forte ripresa della concezione dell’anima nel mondo romano con il neoplatonismo e, in seguito, con il progressivo affermarsi del cristianesimo.
Vegetti passa quindi al cuore della sua storia dell’etica, ovvero al capitolo V in cui affronta il decisivo sviluppo in senso politico della conflittualità interna all’anima nel grande dialogo di Platone La Repubblica. Viene così esposta la dialettica platonica fra anima e polis che ha di mira un superamento dei conflitti interni a entrambe mediante una ricomposizione. A tal proposito Vegetti muove da una essenziale presentazione dei personaggi protagonisti del grande dialogo platonico, da Socrate a Glaucone a Trasimaco. Platone va a fondo nell’analisi della crisi dell’etica greca tradizionale, analizzando in parallelo la crisi dell’anima e della polis, attraverso la loro scissione interna e i conflitti che si producono in loro. La ricomposizione al livello della dimensione politica della polis si realizza nel progetto di Platone attraverso la realizzazione di una società giusta in cui ogni uomo abbia il posto che si merita all’interno della totalità organica della comunità razionale. Per quanto concerne l’anima la componente razionale deve dominare, in alleanza con la componente irascibile, la parte irrazionale, legata ai desideri immediati del corpo.
Affinché ognuno stia al suo posto nella kallipolis e così si abbia una polis giusta è necessaria una importante azione pedagogica, volta alla formazione – in particolare e in primo luogo – delle classi dirigenti. D’altra parte, con il passare degli anni e presumibilmente anche per le critiche di utopismo da parte di Aristotele, Platone si rende conto che non vi sono le condizioni, almeno in quella fase storica, per realizzare questa grande opera pedagogica volta alla formazione dell’uomo nuovo. Per questo nell’ultimo suo dialogo, Le leggi, Platone – anche per fornire uno strumento più immediatamente utile ai molti accademici impegnati nella direzione diretta o indiretta di poleis – architetta un sistema di leggi che guidi in modo anche coercitivo le anime dei cittadini affinché seguano la legge razionale.
Tornando alla Repubblica, Platone indica nel buono in sé ciò che consente a chi governa di gestire il potere in modo giusto. Per giungere alla conoscenza del buono vi è bisogno di sviluppare lo studio della dialettica, che diverrà poi essenziale per convincere anche la massa che non lo conosce a seguire i filosofi-Re, che dovranno governare a turno la polis.
Tutto ciò non toglie che anche l’etica platonica, come un po’ tutte le concezioni morali del mondo greco antico, abbia come fine la felicità. Anzi è proprio questo stimoli naturale che dovrebbe a poco a poco spostare un numero di uomini sempre maggiore a battersi per la kallipolis, in quanto costituisce l’unico modo per poter raggiungere una felicità piena e duratura. Tanto più che quella della kallipolis per Platone non può rimanere una pura utopia, non solo in quanto è conforme a natura e ha, dunque, un valore normativo-razionale, ma perché può essere realizzata o essere stata realizzata in un luogo e in uno spazio anche molto distante da noi. Perciò la scuola platonica, fino al suo scioglimento da parte di Giustiniano, continuerà a cercare il luogo più propizio per lavorare in vista della realizzazione dell’ideale di città giusta.
L’altro gigante del pensiero greco: Aristotele – che vale nell’opera di Vegetti come punto di riferimento generale, e a cui è dedicato come a Platone un intero capitolo – cerca di ricomporre le dinamiche anche contraddittorie dell’anima e più in generale della polis in modo, a differenza di Platone, non conflittuale. Anche perché i rapporti di forza nell’età di Aristotele e la sua stessa posizione di meteco, che gli impediva di poter praticare l’attività politica ad Atene, gli faceva apparire del tutto utopistica la prospettiva della conquista del potere. Perciò in Aristotele tende a venir meno lo spirito dell’utopia che muove Platone, portandolo a ragionare sull’etica non più nei termini del dover essere, ma dello studio “scientifico dell’essere”, per cui l’etica non è più pensabile come un paradigma in cielo, ma le sue premesse e fondamenta vanno ricercati come già presenti nei costumi e nelle istituzioni delle poleis e nella natura stessa dell’uomo, che assume un valore normativo.
Nella sua necessità di fondare una nuova filosofia, superando quella platonica, Aristotele abbandona la dialettica strettissima fra teoria e prassi sostenuta dal suo maestro. Per Aristotele non solo il piano teorico non deve guidare come in Platone l’ambito pratico, ma anche quest’ultimo si deve necessariamente sviluppare in maniera autonoma. Le stesse decisioni che muovono le azioni umane derivano dalla volontà e l’ambito teorico e, più in generale razionale, è utile solo per vagliarne la realizzabilità pratica.
Inoltre, sempre in rottura con Platone, a guidare l’uomo nella realizzazione di una città per quanto possibile giusta non è più il buono in sé, ma sono le singole cose e azioni buone. In Aristotele il rapporto fra la virtù e la felicità, che resta la causa finale dell’azione, si complica, diviene più complesso, anche se il filosofo fa di tutto per mantenerlo. Il rapporto fra etica e politica resta stretto anche in Aristotele, anche se i due ambiti accrescono la loro autonomia rispetto alla concezione di Platone.