1. La Poetica
Le scienze poietiche (dall’antico greco poiesis, traducibile letteralmente in italiano con il termine: produzione) comprendono tutte quelle attività finalizzate alla produzione degli oggetti. Aristotele le considera come arti e non come mere tecniche, in quanto oltre alla produzione le arti comprendono anche una disposizione al ragionamento (alcune regole sulla base delle quali sviluppare l’attività produttiva e le ragioni per cui si sono stabilite alcune regole e non altre). Le belle arti sono trattate da Aristotele nella Poetica o almeno avrebbero dovuto esservi trattate, in quanto a noi, a differenza degli altri scritti composti a uso interno per il Liceo e i dibattiti che in esso si tenevano, è giunto esclusivamente il libro dedicato all’analisi della tragedia. Perciò diversi studiosi ritengono che dovesse molto probabilmente esserci almeno un secondo libro dedicato allo studio della commedia, presumibilmente andato perduto. Come è noto, proprio da tale ipotesi, si è sviluppato il famoso romanzo di Umberto Eco: In nome della rosa.
L’arte come attività mimetica
Come per Platone, anche per Aristotele l’arte è imitazione, nell’antico greco mimesis. D’altra parte tale definizione in Aristotele non mantiene l’accezione negativa che aveva nel suo maestro Platone, secondo il quale l’arte, imitando la realtà, che a sua volta imiterebbe l’idea, sarebbe una inutile e deleteria imitazione di un'imitazione, una cattiva copia di una già di per sé brutta copia, come sarebbe la cosa reale rispetto al suo modello ideale. Al contrario, per Aristotele, l’arte come attività mimetica assume un significato decisamente positivo, in quanto imitando l’unica realtà effettiva e sostanziale – dal momento che le idee platoniche non sarebbero altro che un inutile doppione – ci aiuta a comprendere meglio la verità che in essa si manifesta, quantomeno in potenza.
La bella arte, in effetti, non si limita a descrivere l’esistente, ma ne coglie i caratteri generali, gli aspetti universali o, meglio, sostanziali trasformando un oggetto o una persona in un tipo che rappresenta tutti gli altri tipi analoghi, assumendo in tal modo un valore esemplare. L’arte assume, dunque – nella misura in cui sia bella, cioè mimetica, diremo noi realista – una funzione conoscitiva addirittura superiore a quella che aveva a quel tempo la storia, che non si era ancora sviluppata in senso scientifico (filosofico). In effetti, la storia allora ancora fondamentalmente cronachistica si limiterebbe, secondo Aristotele, a tramandare esclusivamente gli eventi degni di nota, senza la pretesa di universalità, cioè di cogliere gli aspetti sostanziali. Perciò la storia permetterebbe – sulla base della concezione limitata che ne aveva Aristotele e, più in generale, gli scienziati-filosofi del tempo – di cogliere esclusivamente degli aspetti particolari, per quanto di rilievo, mentre la tragedia, per fare un esempio molto indicativo, narra ciò quello può accadere universalmente, quindi ci consente di cogliere il verosimile, che se non è proprio il vero universale, sostanziale, è comunque qualche cosa di analogo.
La funzione catartica dell’arte e, in particolare, della tragedia
Per Platone l’arte in generale e la tragedia in particolare erano da condannare perché suscitavano passioni, cioè alimentavano gli aspetti irrazionali dell’uomo. Per Aristotele questo è vero, tuttavia, in particolare la tragedia, risvegliando negli spettatori passioni molto forti, rappresentandole sulla scena consente agli spettatori di oggettivizzarle, così il pubblico nel vederle dall’esterno diviene in grado di liberarsene. Proprio questa sarebbe la decisiva funzione catartica dell’arte. Il termine catartica, proveniente dall’antico greco catarsis, indica la funzione purificatrice e liberatoria dalle passioni svolta, in particolare, dalla tragedia.
La centralità del plot
Secondo Aristotele, di contro alle concezioni formaliste tutt’ora imperanti, nell’arte in generale e nella tragedia in particolare è sempre centrale e decisiva la vicenda narrata. Inoltre, per essere efficace la tragedia deve avere una unitarietà nell’azione di fondo, in altri termini deve narrare una vicenda in cui tutti i singoli eventi sono concatenati in modo unitario, senza dispersività. Le unità di luogo e di tempo della vicenda narrata nella tragedia sono delle aggiunte posteriori, che sono state canonizzate dalla tradizione aristotelica che tenderà ad affermarsi come dominante per diversi secoli. Tanto che ancora nel ventesimo secolo un eccezionale drammaturgo come Bertolt Brecht, per indicare gli aspetti rivoluzionari della sua poetica, definirà in negativo la sua drammaturgia come antiaristotelica, tanto grande era l’influenza e la capacità di egemonia che possedeva ancora l’opera di Aristotele. Anche se, lo stesso Brecht, più che contestare e rivoluzionare la poetica di Aristotele intendeva criticare quella tradizione aristotelica scolastica che aveva finito con il dogmatizzare alcuni aspetti della riflessione di questo eccezionale scienziato-filosofo.
2. La retorica
Anche la retorica, in modo ancora più netto della bella arte, era stata condannata da Platone in quanto arte della persuasione e non della verità. La retorica, del resto, era centrale nell’insegnamento dei sofisti che insegnavano agli intellettuali in formazione ad ammaliare il proprio pubblico con dei lunghi discorsi. Da questo punto di vista il contenuto dei discorsi, centrale per Platone, era del tutto indifferente per i sofisti, che insegnavano ai loro allievi a convincere il proprio pubblico un giorno di una tesi e il giorno dopo della tesi opposta. Era proprio questa attitudine formalista dei sofisti che Platone intendeva contrastare. Inoltre Platone, da buon allievo di Socrate, contrapponeva ai lunghi discorsi ammalianti dei sofisti, la forma dialogica delle sue opere, fatta di continue botte e risposte fra gli interlocutori. Anche in questo caso, per Aristotele, si trattava di superare dialetticamente quelli che gli apparivano ormai i limiti storici della lezione del proprio maestro. Del resto Aristotele, pur non simpatizzando certo per i sofisti, non considera più come il proprio maestro necessario accentuare lo scontro e la polemica anti sofista. Così, secondo Aristotele, la retorica – purché non applicata all’ambito delle scienze teoretiche che si occupano di ciò che è necessario – possiede una sua legittimità. Ciò non toglie che la retorica non può pretendere di conseguire la certezza nei suoi assunti ma, esclusivamente, la ragionevolezza. Quindi gli assunti della retorica risultano validi solo nell’ambito di ciò che è semplicemente possibile. Il procedimento sillogistico di cui si giova la retorica non è, secondo Aristotele, dimostrativo come quello scientifico ma, meramente, persuasivo (entimema). Tanto più che il sillogismo della retorica si basa su premesse probabili e non certe. Infine, il sillogismo retorico, il più delle volte, non segue la struttura triadica del sillogismo scientifico, ma sottintende una delle premesse. Volendo fare un esempio abbiamo: “sono un uomo” premessa maggiore, “posso sbagliare” conclusione. In questo caso specifico, si lascia sottintesa la premessa minore, cioè: “gli uomini possono sbagliare”. In tal modo il discorso risulta essere più diretto e fascinoso.
Le regole della retorica
Aristotele analizza anche le regole specifiche della retorica, soffermandosi sulle tecniche utilizzate dai retori per rendere più efficace il loro discorso. A tale scopo, abbiamo questi precetti di ordine generale: la lunghezza del discorso non deve essere eccessiva, altrimenti il pubblico si stanca e tende a distrarsi. Occorre fare spesso ricorso ad esempi e metafore, che rendano più concreto, vivace e comprensibile il proprio discorso. È, infine, consigliabile partire da premesse accettate universalmente, in quanto è sempre preferibile, non entrare immediatamente in contrasto con il senso comune. La retorica non è però, secondo Aristotele, come la consideravano i sofisti, una semplice arte della persuasione del tutto indifferente ai contenuti. Il principio fondamentale è in effetti, per Aristotele, che le tesi formulate anche nel discorso retorico siano adeguatamente sostenute da argomentazioni, da ragionamenti corretti e condivisibili da tutti o, quantomeno, da tutti coloro che fanno un adeguato uso della propria ragione.