La fisica di Aristotele – questo grande trattato giovanile di filosofia naturale – occupa una posizione di primaria importanza “per l’ampiezza e la profondità delle analisi teoriche che le sono dedicate, e per la vastità delle ricerche sul mondo naturale che il filosofo avrebbe condotto durante la sua intera esistenza” [1]. Aristotele, per sviluppare la sua filosofia della natura, doveva fare i conti con due opposte tradizioni, quella dei naturalisti presocratici – tanto innovatori quanto confusi sul piano concettuale – e quella di Platone, che si scindeva in due concezioni peraltro opposte. Per Platone la natura costituiva da una parte il piano del mondo empirico, in costante divenire e perciò non oggetto di conoscenza scientifica, d’altra parte natura era anche il mondo delle idee. Secondo Aristotele queste le concezioni platoniche erano destinate a rimanere contraddittorie, in quanto i tentativi di porle in relazione messi in campo da Platone – l’imitazione, la partecipazione e il ruolo del Demiurgo, che forma i fenomeni sul modello ideale – erano delle immagini poetiche, inutilizzabili sul piano rigoroso della scienza. Aristotele mira a superare dialetticamente queste tradizioni precedenti, riprendendo dai fisiologi presocratici la riflessione fondativa, ma confusa, sui principî e gli elementi della natura, da Platone l’esigenza di una trattazione rigorosamente concettuale, ma non più limitata alle forme ideali isolate dalla realtà, ma estesa all’intero mondo fisico.
Aristotele, sebbene in modo discreto, rivoluzionava le concezioni precedenti: la concezione ancora mitica di una natura una e personificata dei naturalisti presocratici, cui contrapponeva gli enti per natura, la cui unità era solo analogica e che andavano studiati in modo rigoroso, analitico e scientifico per individuarne le cause e i principî; dall’altra parte dimostrava – di contro alla tradizione aristocratica eleatica, pitagorica e platonica – “che il mondo delle «cose per natura» è dotato di consistenza ontologica e di principî d’ordine sufficienti a farne l’oggetto di un sapere stabile, universale, epistemicamente legittimo, e non soltanto di un’opinione (doxa) incerta e mutevole” (126). Ciò era possibile per Aristotele nonostante gli enti per natura siano, almeno in parte, materiali e quindi soggetti alla generazione e al mutamento. D’altra parte, a differenza dei prodotti tecnici, artificiali – che ricevono dall’esterno generazione e movimento – gli enti naturali hanno in sé il principio del loro mutamento.
Per quanto tale mutamento non sia retto da leggi costanti e immutabili, in quanto l’essere materiale dei fenomeni naturali non lo rende possibile, ciò non significa che siano disordinati e senza regole come ancora li giudicava la scuola platonica. Al contrario, come la stessa esperienza ci mostra continuamente, tali mutamenti dei fenomeni naturali sono per lo più costanti e regolari. “La via regia per la legittimazione epistemologica di un sapere sulla natura non poteva consistere per Aristotele se non nella comprensione dei «principî» e delle «cause» che fondano la spiegazione delle «cose per natura», nelle loro strutture e nei loro processi” (127).
Si tratta di partire dall’osservazione della natura, che ci consente di superare le tesi eleatiche, e di passar in rassegna le principali ricerche in materia, per poter sviluppare una scienza rigorosa e analitica della natura. I fisiologi avevano personificato “le forze che dànno origine e governano i movimenti della natura” (128). Si erano poi divisi fra l’ipotesi eleatica di un unico principio e quella atomistica di infiniti principî, in entrambi i casi non erano stati in grado di spiegare i movimenti degli enti naturali. Tuttavia, erano stati in qualche modo costretti, dall’evidenza della cosa stessa, a riconoscere nei contrari il principio comune degli enti naturali. “Con questa mossa ermeneutica Aristotele guadagnava il livello desiderato della ricerca sui principî, trasponendola dalla domanda sulle forze attive nei processi naturali a quella sulla struttura comune che consente di comprenderli e di descriverli” (128-29). Il rapporto fra i contrari non può essere immediato, altrimenti si avrebbe il passaggio, contraddittorio, dal non essere all’essere. Deve venir mediato da un substrato, da un soggetto che, ad esempio, dal non essere acculturato lo diviene, ossia la privazione da cui era afflitto viene tolta nella nuova e contraria forma che assume.
Anche la generazione assoluta non significa il nascere dal nulla. A una statua preesiste il suo materiale, all’uomo lo spermatozoo nel suo sviluppo embrionale. I tre principî di Aristotele sono universali, qualsiasi soggetto può essere sostrato, qualsiasi determinazione o relativa assenza possono occupare il posto della forma. Il sostrato corrisponde alla materia che, però, non significa più come per i Platonici privazione – il che portava necessariamente al dualismo fra materia e forma. “L’unità solo posizionale dei principî nella struttura dei processi naturali permette di parlarne in modo concettualmente unificato (come se ognuno di essi fosse uno) solo a patto di essere consapevoli che si tratta di un’unificazione analogica e non sostanziale” (130). Dunque, nonostante l’enorme varietà dei fenomeni naturali, il loro divenire si svolge secondo una struttura che li rende razionali. Nella concettualizzazione della natura da parte di Aristotele hanno una posizione importante anche il rapporto fra potenza e atto, poi ulteriormente sviluppato nella metafisica, che riprenderà anche il rapporto fra forma e materia. “Nonostante per certi aspetti esse possano risultare sovrapponibili, in realtà le coppie materia / forma e quella potenza / atto si differenziano almeno per una ragione importante. La prima descrive infatti la struttura statica delle sostanze naturali, la loro «anatomia» teorica. La seconda descrive invece la dinamica di formazione di queste sostanze, la loro «fisiologia», e, proprio per questo, costituisce in Aristotele una straordinaria legge d’ordine dei processi naturali” (131).
D’altra parte come i principî e le causa, anche potenza e atto sono connessi in modo analogico. Aristotele poi stabilisce tre assiomi di ordine del divenire: qualcosa per essere atto doveva essere in potenza, ma l’atto precede la potenza dal punto di vista concettuale (per definire la potenza dobbiamo già conoscere l’atto), sostanziale (l’atto è il fine della potenza) e in parte anche cronologico, in quanto per l’individuo viene prima la potenza, ma per la specie l’atto. In terzo luogo ciò che è potenza non necessariamente diviene in atto. Potenza e atto permettono di stabilire un principio d’ordine per i processi naturali, che non dipendono dal caso come credevano gli atomisti, né erano privi di legalità come riteneva il pensiero aristocratico, compresa la scuola platonica. Il processo che dalla potenza produce l’atto è definito da Aristotele con il neologismo di entelècheia, ossia ciò che porta in sé il proprio fine. Perciò nello stato attuale delle cose possiamo riconoscere la realizzazione di potenzialità già presenti nelle cose stesse. D’altra parte l’applicazione di tale struttura del divenire anche all’ambito sociale, avrà conseguenze decisamente conservatrici.
L’atto tende da Aristotele a essere identificato tanto con la forma, quanto con il fine, che sono aspetti decisivi per comprendere le cause della fisica. L’introduzione storico-filosofica di queste ultime è nel primo libro della Metafisica, coevo al secondo libro della Fisica, in cui si indagano le cause. Tale storia, da Talete a Platone, trova il suo compimento in Aristotele. Anche in questo caso l’atto precede concettualmente e sostanzialmente il fine e consente di ricomprendere i pensieri precedenti come momenti di costruzione della filosofia attuale, secondo dei progressi che sono stati favoriti dalla pressione della verità stessa.
In Aristotele il concetto di causa (aitìa) ha un significato decisamente “più ampio, più ricco, meno univoco e lineare di quanto lo sia la nostra nozione di causa”, che coincide con la sola causa efficiente. Mentre causa in Aristotele “può significare propriamente «causa», come ciò da cui dipende il verificarsi di un fenomeno, ma anche «spiegazione» di un evento, o «ragione» di un comportamento” (133-34). L’ampiezza del concetto di causa è dovuto al fatto che Aristotele lo ritiene necessario per spiegare i fenomeni o i processi che ne sono effetto, nella loro dimensione strutturale.
Le cause servono a spiegare nel modo più compiuto il perché di un fenomeno e di un evento, anche perché causa si può dire in modi differenti. Del resto anche in questo caso Aristotele muove dalla “concretezza fenomenica dell’uso linguistico” (134). Si tratta di individuare con la causa materiale di cosa è fatto un determinato ente. Di indicare che cosa è?, ovvero la causa formale, per individuarne l’essenza. Occorre inoltre determinare chi è ad aver prodotto o messo in moto un ente o un processo, ovvero la sua causa efficiente. Infine bisognerà comprendere, il fine, lo scopo ultimo di un ente o un processo, cioè la sua causa finale.
Peraltro non sempre è possibile definire le quattro tipologie di causa. Ad esempio in matematica non si dà causa materiale o finale. Quest’ultima è, però, per Aristotele la più importante, come appare evidente nell’ambito delle azioni umane e dei prodotti tecnici, in cui appare decisivo il fine. Per Aristotele quest’ultimo è essenziale per spiegare i processi e i fenomeni naturali, per contrastare la concezione casualista del materialismo meccanicistico. Anche se si tratta di uno scopo proprio di ogni specie, i cui membri hanno il fine di perpetuarla. Inoltre la concezione finalistica ha un’importanza euristica nell’indagine aristotelica della natura, che lo porta a considerare ogni organo come legato a uno scopo, per cui nulla è privo di senso, ed è possibile giungere a importanti conclusioni sul piano comparatistico.
Nell’analisi della natura le cause si riducono a due, quella materiale e la formale, finale e agente che vengono unificate. In tal modo la causa materiale indica la necessità, mentre le altre tre si unificano nella finalità. Non si torna però al dualismo platonico fra forma e materia, in quanto la necessità è in qualche modo ricompresa nella finalità in quanto necessità condizionale. D’altra parte spesso le due cause tendono a integrarsi in quanto sovente la materia si configura secondo la finalità dei diversi organi o organismi. Ciò non toglie che vi sono, non di rado, casi in cui la necessità materialistica entra in contraddizione e ha la meglio sul finalismo. Peraltro il finalismo per Aristotele vale soltanto, e nemmeno sempre, all’interno della specie. Non vi è, dunque, quella visione provvidenzialistica che si affermerà con lo stoicismo.
Peraltro il ruolo del caso e dello spontaneismo materialistico in natura, mettevano in difficoltà il tentativo aristotelico di superare la posizione platonica per cui la natura non è oggetto di scienza. Per contrastare tale posizione Aristotele sostiene che almeno per lo più i fenomeni naturali non dipendono dal caso. Mentre la spiegazione meccanicistica ha per Aristotele un valore generalmente secondario, dinanzi alla – il più delle volte – prioritaria spiegazione finalistica.
Note:
[1] Vegetti, Mario e Ademollo, Francesco, Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi, Torino 2016, p. 125. D’ora in avanti citeremo quest’opera direttamente nel testo, inserendo fra parentesi tonde le pagine dei brani riportati.