Una questione di grande attualità: il rapporto fra i comunisti e il sindacato. Gramsci, i consigli di fabbrica, la lotta contro il fascismo, le critiche della Terza Internazionale, i limiti della direzione bordighista del partito, la lotta contro le burocrazie sindacali.
di Claudio Gambini
La scissione di Livorno tra comunisti e socialisti è sufficientemente nota e non costituisce aspetto specifico della nostra ricerca. È altresì importante sottolineare come l’elemento di fondo della scissione prenda il suo sviluppo maggiore proprio dalla fine dell’occupazione delle fabbriche.
Fondamentale, quindi, orientare le nostre osservazioni sulla specifica politica sindacale portata avanti dalla frazione comunista sin dai primi passi del Convegno tenutosi il 30 novembre 1920 a Imola. Già a questo punto emerge l’attenzione verso le tematiche sindacali, soprattutto con la rottura della tradizionale impostazione socialista, testimoniata dal patto tra PSI e CGL. L’accordo, secondo la mozione comunista, doveva essere soppresso come “espressione inadeguata dei rapporti tra sindacato e partito” e sostituito dal nuovo principio della conquista dei sindacati da parte dei militanti rivoluzionari tramite le lotte quotidiane e gli organismi di base dei lavoratori.
I comunisti, quindi, nonostante considerassero la Confederazione del Lavoro come il principale centro del gradualismo riformista, si collocarono al suo interno come forza di opposizione escludendo radicalmente ogni tentativo di scissione sindacale. Parallelamente era necessario separarsi dall’Internazionale di Amsterdam e far aderire immediatamente la CGL alla costituenda Internazionale dei sindacati rossi.
La scissione, quindi, si era già consumata sul finire del 1920. A Livorno durante i lavori del XVII congresso del PSI fu Terracini a specificare, tra le altre cose, che la rottura avrebbe riguardato il partito e non il sindacato. Il collegamento con le tesi espresse al II congresso dell’Internazionale Comunista appare qui evidente. Nelle tesi sindacali di quel congresso redatte da Radek, e dallo stesso presentate il 3 agosto, si sosteneva che i comunisti non dovevano rimanere estranei alla attività sindacale o formare nuovi sindacati di “sinistra”, così come non dovevano ricorrere alla scissione a meno di non esserne costretti, ovvero quando fosse impossibile ogni tipo di propaganda o azione comunista, ma, anche in tal caso, badando ad evitare ogni isolamento dalle masse operaie sindacalizzate. Il compito indicato dalle Tesi per i comunisti di tutti i Paesi era quello di entrare
nei sindacati per trasformarli in consapevoli strumenti di lotta per la caduta del capitalismo e per il comunismo. Devono inoltre prendere l’iniziativa di costituire i sindacati là dove essi non esistono. Il tenersi volontariamente lontani dal movimento sindacale, il tentare artificiosamente di creare sindacati particolari senza esservi costretti o da atti eccezionali di violenza da parte della burocrazia sindacale (come lo scioglimento di singoli gruppi rivoluzionari locali dei sindacati per opera delle direzioni opportuniste) o da una gretta politica aristocratica che sbarra l’accesso alle organizzazioni alle grandi masse di operai meno qualificati rappresenta un gravissimo pericolo per il movimento comunista: il pericolo, cioè, di consegnare gli operai più avanzati e maggiormente provvisti di coscienza di classe nelle mani di capi opportunisti, i quali aiutano la borghesia.
Inoltre si specificava che nei paesi, come gli Stati Uniti, in cui la scissione era già avvenuta ed esistevano sindacati rivoluzionari, anche se non di tendenza comunista, “i comunisti sono tenuti ad appoggiare questi sindacati rivoluzionari, e ad aiutarli a liberarsi dei pregiudizi sindacalistici e a portarsi sul terreno del comunismo”. In maniera ancor più particolareggiata nell’ambito dei sindacati o, al di fuori di essi, nelle fabbriche ove si costituivano organizzazioni quali gli Shop Stewards (consigli di fabbrica) in appoggio alle azioni spontanee del proletariato, era ovvio che i comunisti dovessero “appoggiare con tutta la loro energia tali organizzazioni”. Ma anche in questo caso si sottolineava con forza che “questo appoggio ai sindacati rivoluzionari non deve portare all’uscita dei comunisti dai sindacati opportunisti in cui vi siano sintomi di fermento e volontà di porsi sul terreno della lotta di classe”. I comunisti, in questa ottica, dovevano contribuire al raggiungimento dell’unità tra sindacati e partito, costruendo all’interno delle organizzazioni sindacali e nei consigli di fabbrica “Frazioni Comuniste” in grado di assumerne la guida.
In Italia, di conseguenza, sin dalle origini della costituzione del partito si riaffermava con convinzione: “noi comunisti non creeremo mai delle organizzazioni le quali debbano svolgere la loro attività in concorrenza della Confederazione Generale del Lavoro; perché noi comunisti abbiamo, di fronte ai sindacati, la nostra tattica, la quale non mira a spezzarne gli organismi, ma mira a conquistarli”.
Compiutamente Terracini sosteneva: “divisione del Partito ma unità del proletariato, e (...) noi vi diciamo che uno dei nostri scopi sarà di creare l’unità sindacale in Italia, perché la CGL deve riunire nelle sue file tutte le organizzazioni proletarie d’Italia”.
Conquistare la CGL e tutti gli “organismi economici” proletari era dunque il programma del PCd’I.
Per l’attuazione di tale progetto venne costituito il Comitato Sindacale Comunista come minoranza organizzata dei comunisti italiani: “a far esplodere qualcuna delle contraddizioni confederali è valso tuttavia il combattivo esordio del Comitato sindacale comunista, diretto da un pugnace operaio metallurgico milanese, Luigi Repossi, membro del Comitato esecutivo del Pcd’I”. La corrente sindacale rappresentava una minoranza che, seppur presente in tutte le zone e categorie associate alla CGL, solo in pochissimi casi esercitava un’influenza tale da permettere la conquista di organi dirigenti, anche se lo stesso Terracini - ma cinquantuno anni dopo la scissione di Livorno, e con una testimonianza su Rinascita del 27 ottobre 1972 - ricorda che nella CGL il partito disponeva di un terzo degli iscritti.
Nello specifico le Camere del Lavoro a maggioranza comunista erano quelle di Torino, Trieste, Livorno, Salerno e Taranto, ma è da notare che i maggiori consensi al PCd’I vennero dagli organismi orizzontali della CGL piuttosto che dalle strutture verticali (Federazioni di mestiere), espressione degli interessi delle categorie più forti e saldamente controllate dai dirigenti sindacali di orientamento riformista.
La fotografia di tale situazione era data dalle votazioni del Congresso della CGL di Livorno, dove la mozione comunista tra i delegati delle Camere del Lavoro riportò 287.966 voti contro i 556.608 della mozione socialista; tra i delegati delle Federazioni 130.459 contro 797.618.
La conquista della CGL non era un obiettivo a breve termine, anzi, secondo la testimonianza de L'Ordine Nuovo, con un articolo non firmato di Gramsci:
I comunisti non avranno la maggioranza nel congresso confederale che sta per riunirsi a Livorno: è anzi quasi certo che neppure nei futuri congressi, nonostante ogni sforzo di propaganda e di organizzazione, i comunisti avranno la maggioranza.
E infatti al V Congresso della Confederazione che si aprì il 26 febbraio 1921 la mozione comunista ottenne 432.558 contro il milione e 435.873 di voti della mozione dei socialisti, che così approva il complesso dell’opera svolta dalla Confederazione. È opportuno ricordare, non come semplice dato di cronaca ma per capire il contesto in cui si svolgevano gli avvenimenti, che il giorno dell’inaugurazione del Congresso i fascisti toscani, diversamente da quanto accaduto durante l'assise di fondazione del partito il mese precedente, misero in atto provocazioni nei confronti dei partecipanti, in particolare verso la delegazione comunista.
L’ultimo congresso si era svolto 7 anni prima, nel 1914, e in seguito non vi era stata alcuna verifica complessiva da parte degli iscritti della linea adottata dalla CGL: “l’organizzazione – scriveva polemicamente L’Ordine Nuovo – fu completamente lasciata in balia di un ristretto gruppo di funzionari, che minuziosamente montarono su la macchina che oggi dà loro l’assoluto dominio. Sette anni senza congresso hanno permesso di più: tutto un nugolo di funzionari è stato scaglionato nelle più importanti posizioni, e si è costituita una fortezza imprendibile e inaccessibile anche ai più tenaci e volenterosi”.
L’analisi rendeva abbastanza bene l’idea dei problemi interni in cui versava la CGL, di fronte ai quali i comunisti, dati i rapporti di forza al congresso, posero praticamente solo questioni di principio.
A questi obiettivi si aggiungeva l’agitazione di parole d’ordine concrete, quali la difesa del salario e le lotte contro i licenziamenti, il tutto nel quadro di una critica complessiva ai riformisti.
Il Congresso, quindi, aveva definitivamente fatto emergere le posizioni inconciliabili di chi reputava, come Tasca, la tattica gradualista come un “rottame del passato”, da quelle di chi, Baldesi e D’Aragona, la consideravano ancora valida poiché non era ancora giunto il tempo della rivoluzione e anzi, come si espresse Baldesi, giudicavano opportuno incrementare la ricchezza nazionale per creare uno stato di benessere in cui il processo verso il socialismo, anche se più lento, fosse più sicuro.
Non a caso – sostiene Claudio Natoli – la CGL non prese alcuna iniziativa sulla crisi economica, la disoccupazione dilagante e le rappresaglie politiche che cominciavano a colpire le rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro, né elaborò alcuna direttiva per fronteggiare quella che, ormai, andava delineandosi come una controffensiva generale dell’avversario di classe.
Nel clima contrastante del congresso non emergeva, di conseguenza, una consapevolezza adeguata agli eventi, anche se ancora una volta era Gramsci a manifestare una comprensione più complessa della situazione del sindacato:
Il campo di attività del Partito comunista è tutta la massa degli operai e contadini; la Confederazione è teatro di maggior propaganda e maggiore attività solo perché numericamente abbraccia la maggior parte degli operai e dei contadini italiani organizzati, cioè più consapevoli e preparati. La lotta per la formazione e lo sviluppo dei Consigli di fabbrica e di azienda crediamo sia la lotta specifica del Partito comunista (...). Con la lotta per i Consigli sarà possibile conquistare in modo stabile e permanente la maggioranza della Confederazione.
In tale contesto neanche la grave perdita del comunista Spartaco Lavagnini, segretario del Sindacato Ferrovieri di Firenze, trucidato al suo tavolo di lavoro, suscita tra i delegati una adeguata lettura degli avvenimenti. La mozione presentata dai comunisti venne bocciata. Nonostante ciò il Comitato Sindacale Comunista con un manifesto riaffermò: “la lotta deve continuare entro i quadri della Confederazione Generale del Lavoro” poiché “l’uscita dalle sue fila sarebbe il più grave servigio che si potrebbe rendere ai controrivoluzionari che ancora la dirigono”.
Ma è al termine del Congresso che avviene un fatto importante ai fini della nostra storia:
La lusinghiera affermazione indusse i nostri rappresentanti a riunirsi nuovamente dopo il Congresso per concretare le norme d’azione e di propaganda maggiormente atte allo sviluppo del movimento sindacale comunista.In questa riunione venne costituito il Comitato Centrale Sindacale. Il lavoro del Comitato Sindacale venne però bruscamente interrotto dalla reazione scatenatasi contro il Partito Comunista. Il 20 marzo veniva dalla polizia occupata la sede del Partito ove erano pure gli uffici del Comitato Sindacale.
Qualche giorno dopo, in seguito ad uno scoppio di una bomba al teatro Diana di Milano, la reazione poliziesca si sfrenava più violentemente contro i comunisti.
Riguardo al lavoro politico all’interno del sindacato, è opportuno ricordare la presenza comunista anche nell’USI, in cui i comunisti si rapportarono a Nicola Vecchi, dirigente della corrente più favorevole a Mosca.