Marx e la religiosità della società borghese

Marx, a partire dalla Questione ebraica, ritiene che nello Stato politico borghese l’uomo si pone come indipendente dalla religione, dal dualismo fra esistente ed ideale, che però si riproduce nella società civile in cui l’individuo è contrapposto alla sua essenza, alla sua attività vitale come a un estraneo: il capitale, ovvero il lavoro morto che comanda sul lavoro vivo.


Marx e la religiosità della società borghese

L’uomo della società borghese vive secondo Karl Marx una condizione d’estraniazione dalla propria essenza sociale simile a quella dell’uomo religioso. Razionale e reale permangono quindi in contrapposizione nel modo di produzione capitalista. Come osserva Marx: “quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato” [1]. 

Marx, a partire dalla Questione ebraica, ritiene che nello Stato politico borghese l’uomo si ponga come indipendente dalla religione, dal dualismo fra esistente ed ideale, che però si riproduce nella società civile in cui l’individuo è contrapposto alla sua essenza, alla sua attività vitale come a un estraneo: il capitale, ovvero il lavoro morto che comanda sul lavoro vivo [2].

Se l’uomo in carne e ossa, generalmente per la struttura dei rapporti sociali in cui vive, non è affatto essenza generica, lo è però formalmente, nell’empireo del suo essere persona giuridica e sovrana politicamente [3]. Perciò, osserva Marx, “è un progresso della storia che ha mutato le classi politiche in classi sociali, in modo che, come i cristiani sono eguali in cielo e ineguali in terra, così i singoli membri del popolo sono eguali nel cielo del loro mondo politico e ineguali nell’esistenza terrestre della società” [4].

La sovranità popolare affermata dalle costituzioni borghesi è dunque, secondo Marx, fantastica, religiosa, in quanto formale e in stridente contrasto con la sovranità reale di chi detiene mezzi di produzione e di sussistenza di cui abbisogna la classe lavoratrice non fosse altro che per riprodursi in quanto tale. L’emancipazione dello Stato dalla religione non corrisponde a quella dell’uomo, poiché l’uomo religioso entra in contraddizione con il suo essere cittadino solo come una delle diverse forme in cui si oppone la sua essenza di bourgeois a quella di citoyen [5].

Dunque la concezione idealista si sforza di dare veste razionale al dualismo religioso della società borghese, in cui lo Stato, l’astratto cittadino, dovrebbe dominare l’individuo privato[6]. Tuttavia il reale, ovvero il razionale non astratto ed idealizzato, non è l’uomo posto per sé solo a partire dalla totalità statuale, ma è l’individuo sociale, appartenente a una classe. Come osserva Marx nel Manifesto: “la storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi (…) In una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta” [7].

La libertà civile dell’uomo, l’eguaglianza formale, corrisponde alla liberazione stoico-cristiana dell’anima, nell’ineffettualità di un pensiero astratto, di una comunità solo rappresentata come la civitas dei, che serve da compensazione ideologica della schiavitù reale del suo esserci sociale reale, di una città umana, di una società storica condannata al dominio della differenza e dell’arbitrio del più forte. In altri termini, come ha a ragione osservato Umberto Cerroni, “al dualismo religioso fra città di Dio e città terrena subentra il dualismo laico fra stato di natura e stato di civiltà”[8].

Il dualismo Stato-società borghese riproduce la lacerazione fra l’esserci terreno dell’uomo, condannato alla disuguaglianza e all’asservimento, e la sua anima celeste – la rappresentazione politico-giuridica – che opera una epoché della differenza reale in una sfera trascendente. Quest’ultima però non solo non toglie la disuguaglianza reale, ma la naturalizza. Come ha osservato a questo proposito Stefano Garroni: “tale operazione è possibile solo in quanto si riproduce, nella società borghese, qualcosa di analogo a ciò, che troviamo nelle religioni: vale a dire la distinzione/separazione di due dimensioni della vita umana. L’una, presente nel Dasein (nell’esistenza effettiva), che è caratterizzata da differenze, disuguaglianze ed asservimento; l’altra, presente al livello della rappresentazione giuridico-politica, nella quale proprio quelle differenze, disuguaglianze e rapporti d’asservimento vengono posti tra parentesi, risultano trascesi e, insomma, scompaiono dalla scena” [9]. Nell’empireo dello stato politico si realizza idealmente il concetto cristiano della sovranità della persona, negata però nella corrotta deiezione dell’effettualità storica in cui l’uomo è separato dalla sua essenza sociale. Come ha fatto argutamente notare Bernard Bourgeois: “lo Stato politico, laico, ateo, democratico, realizza effettivamente il fondo umano che esprime idealmente (e cela, necessariamente) il cristianesimo, il postulato cristiano della sovranità di ogni uomo, in quanto che la sua realtà (contingente, corrotta) è quella dell’individuo separato dal suo essere generico: «Il compimento dello Stato cristiano, è lo Stato che si proclama puro Stato e si disinteressa della religione dei suoi membri»” [10]. L’emancipazione dalla religione dello Stato moderno è solo parziale, in quanto conserva in forma secolarizzata, nel formalismo giuridico, l’alienazione dell’intrasmutabile dalla coscienza in un’essenza astratta in cui non si riconosce. Come nell’intrasmutabile, così nel diritto formale si perde il suo fondamento reale dell’astrazione giuridica, rendendo così arduo un suo adeguamento agli sviluppi della società storica. In tal modo Marx dimostra “così che malgrado la frattura con l’Ancien Régime, lo Stato moderno conserva qualcosa della trascendenza di quello, sia pure in una forma secolarizzata. Dimostrerà anche che tale trascendenza si esprime in un universalismo giuridico che è un universalismo astratto e tronco, cieco ai propri presupposti e impotente a risolvere le questioni che esso stesso pone” [11]. Se l’uomo in quanto cittadino è libero ed eguale solo formalmente, nella sfera giuridica, in quanto individuo socialmente determinato, è nella stragrande maggioranza dei casi libero ed eguale solo ideologicamente, in quanto potenzialmente proprietario dei mezzi di produzione e di sussistenza, mentre realmente è ridotto alla necessità di alienare la propria essenza sociale, la propria forza lavoro a un altro, il capitale, in cui non può in alcun modo riconoscersi ed essere riconosciuto se non quale strumento. Il lavoro quale appropriazione della natura da parte dell’uomo si manifesta al salariato quale estraniazione, “l’attività propria come attività per un altro e come attività di un altro” [12].

 

Note:

[1] Karl Marx, Manoscritti economico filosofici del 1844 a cura di Norberto Bobbio, Giulio Einaudi editore, Torino 1968, p. 131.

[2] “L’economia politica, questa scienza della ricchezza, è quindi nello stesso tempo la scienza della rinuncia, della privazione, del risparmio, e giunge realmente sino al punto di risparmiare all’uomo persino il bisogno dell’aria pura o del moto fisico (…) Il suo vero ideale è l’avaro ascetico ma usuraio, e lo schiavo ascetico ma produttivo” id., p. 130.

[3] “Non è dunque – come denunciano Marx ed Engels – lo Stato che tiene uniti gli atomi della società civile, ma il fatto che essi sono atomi solo nella rappresentazione, nel cielo della loro immaginazione, – il fatto che nella realtà sono esseri fortemente distinti dagli atomi, cioè non sono egoisti divini, ma uomini egoistici. Solo la superstizione politica immagina ancora oggi che la vita civile debba di necessità essere tenuta unita dallo Stato, mentre, al contrario, nella realtà, lo Stato è tenuto unito dalla vita civile”. K. Marx e F. Engels, La sacra famiglia [1845], traduzione italiana di A. Zanardo, Editori riuniti, Roma 1967, p. 158. Perciò, come osserva a ragione Eustache Kouvélakis: “il senso dell’insieme di questi dispositivi è chiaro: si tratta di distruggere lo Stato in quanto macchina specializzata, centralizzata e strettamente gerarchizzata. Una macchina separata da qualsiasi controllo popolare che si erige, perciò, a istanza trascendente e che si «vuole indipendente dalla nazione stessa, e ad essa superiore», mentre è soltanto «mezzo di asservimento del lavoro al capitale»” Eustache Kouvélakis, Marx e la critica della politica, in Marcello Musto [a cura di], Sulle tracce di un fantasma. L'opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, Manifestolibri, Roma 2005, p. 204.

[4] Karl Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Marx-Engels, Le opere, Editori Riuniti. Roma 1971, p. 35.

[5] Separando in maniera netta società politica e civile la rivoluzione politica borghese lascia all’individuo in quanto tale, senza il supporto di elementi sociali quali le corporazioni, il compito di farsi carico dell’interesse pubblico e delle attività vitali materiali.

[6] Marx considera una concezione tipicamente tedesca e piccolo-borghese quella che vede nello Stato un potere autonomo e addirittura dominante sulla società civile, di cui costituisce, invece, l’espressione nella forma di pubblico potere. Tale concezione tipicamente tedesca è legata alla particolare evoluzione storica del paese in cui, tanto nell’epoca della monarchia assoluta, quanto nell’epoca post rivoluzione francese, le funzioni amministrative dello stato hanno avuto un’autonomia non riscontrabile in altri paesi, rafforzata dall’ipertrofia della burocrazia prussiana. Da ciò deriva l’apparente autonomia dell’apparato statuale tedesco rispetto alla società civile borghese, che si ripercuote anche nella rappresentazione teorica della filosofia tedesca che riproduce questa antinomia solo parvente con gli interessi borghesi.

[7] K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista [1848], in Id., Opere complete 1845-1848, vol. VI, tr. it. di P. Togliatti, Ed. Riuniti, Roma 1978, p. 486.

[8] Umberto Cerroni, Marx e il diritto moderno, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 241.

[9] Stefano Garroni, Dialettica e differenza, Napoli, Città del Sole, 1997, p. 74. “In altre parole – prosegue Garroni – ecco che la società borghese si mostra intrisa di religiosità, perché spezza l’uomo in una parte terrena ed una ultra-terrena e perché fa di quest’ultima la sanzione, la legittimazione della prima” ibidem.

[10] Bernard Bourgeois, Philosophie et droits de l'homme: de Kant à Marx, éditions PUF, Parigi 1990, pp. 102-03.

[11] Eustache Kouvélakis, Critica della cittadinanza; Marx e la “Questione ebraica”, tr. it. di N. Augeri, in «Marxismo Oggi» 1, Milano 2005, pp. 45-78, pp. 63-64.

[12] K. Marx, Manoscritti economico…, op. cit., p. 86. Il giovane Marx fa inoltre notare che “in relazione all’operaio, che si appropria la natura col lavoro, l’appropriazione si presenta come estraneazione, l’attività propria come attività per un altro e come attività di un altro, la vitalità come sacrificio della vita, la produzione dell’oggetto come perdita dell’oggetto in favore di un potere estraneo, di un uomo estraneoibidem.

03/06/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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