Partiamo dalla citazione di un brano molto significativo del grande storico britannico Eric Hobsbawm: “tutte le controversie politiche degli ultimi anni di Marx furono a sostegno di tre principî: a) un movimento politico di classe del proletariato; b) una rivoluzione non considerata semplicemente come trasferimento definitivo del potere, cui sarebbe seguita qualche utopia settaria, ma come momento di crisi che avrebbe dato inizio a un periodo di transizione complesso e difficilmente prevedibile; c) il mantenimento necessariamente conseguente di un sistema di autorità politica, di una ‘forma rivoluzionaria e transitoria di Stato’. Di qui la particolare asprezza della sua opposizione agli anarchici, che rifiutavano tutti questi principî” [1]. Dunque, la conquista del potere da parte del proletariato non doveva affatto comportare, secondo Karl Marx, l’affermarsi dell’anarchia, ma piuttosto un argine al progressivo affermarsi di quest’ultima nella società borghese, né poteva significare un attacco ai fondamenti etici della società, dal momento che le stesse prostitute, ad esempio, avrebbero seguito, lì dove il potere dei lavoratori si fosse affermato – come nel caso della Comune di Parigi – “le orme dei loro protettori, gli scomparsi campioni della famiglia, della religione e soprattutto della proprietà” [2].
Essendo la transizione al socialismo un processo tutto da compiere – in cui gli unici elementi prevedibili sono un acutizzarsi della lotta di classe, quantomeno a livello internazionale, dal momento che solo in teoria tale processo si innescherà sincronicamente in tutti il mondo – la piena liberazione degli individui dai vincoli sociali e naturali è tutta da conquistare sul piano produttivo e sovrastrutturale, ancora improntato, anche ideologicamente, alle forme del passato sistema. Unicamente se l’individuo reale diviene in grado nella sua prassi sociale, nel lavoro volto a soddisfare il suo bisogno pratico, di riappropriarsi della sua universalità alienata nel cittadino astratto, solo quando diviene in grado di riappropriarsi dello Stato, soltanto quando “ha organizzato e riconosciuto le sue ‘forces propres’ come forze sociali, e perciò non separa più da sé la forza sociale nella figura della forza politica, soltanto allora l’emancipazione umana è compiuta” [3]. Solo quando l’assetto sociale non ostacolerà più, ma favorirà lo sviluppo delle condizioni necessarie all’esercizio e alla realizzazione delle forze sociali umane, anche la libertà si libererà del tutto della sua veste negativa. Solo qualora citoyen e bourgeois perverranno al compimento della loro astratta contrapposizione nell’uomo individuale reale, le determinazioni particolari della vita sociale e politica non si limiteranno a vicenda, ma germoglieranno nella totalità delle mediazioni della vita umana. Non si tratterà, infatti, di superare la libertà dei moderni in una comunità fusionale, come alcune pagine del giovane Marx potevano dare a intendere.
In effetti, Marx coglie gli aspetti positivi delle libertà borghesi, che portano con sé anche la sicurezza, la libertà di stampa e di opinione, e che perdono tendenzialmente senso nelle società socialiste, in quanto in esse si cercherà di superare, eliminando l’individualismo e il liberismo che caratterizza la circolazione borghese, il suo utilitarismo individualista, ma conservando e anzi estendendo – per quanto è possibile tenendo conto della lotta di classe fra proletariato, elevatosi a classe dominante, e borghesia sul piano interno e sul piano internazionale, dal momento che è poco probabile che il socialismo si affermi ovunque allo stesso tempo – le libertà borghesi rendendole reali, economiche, ovvero strutturali, positive e non più negative.
Del resto Marx pone come fine teleologico intrinseco alla storia dei rapporti sociali, quale loro linea di sviluppo e progressiva realizzazione del loro concetto, l’individualizzazionedell’esistenza sociale. L’individualità nel mondo antico, per quanto garantita a priori dal diritto di cittadinanza, è ancora priva del momento decisivo del porsi per sé, rispetto all’eticità naturale della polis. Come osserva Umberto Cerroni, ampliando il discorso anche alla società feudale: “Se la libertà greca era una libertà eguale di pochi, la libertà medievale è una libertà diseguale di tutti. Né la prima né la seconda potevano esprimere dunque una parificazione universale e terrena di tutti, un diritto eguale di tutti gli individui alla soggettività autonoma” [4]. La più ricca individualità del mondo borghese, fondamento della libertà dei moderni è solo universale, in quanto la sua particolarità sociale è priva di riconoscimento nella giungla della società civile. Solo nella realizzazione della transizione al socialismo l’individualità potrebbe trovare un suo primo compimento, mediante la libera associazione dei produttori individuali che dispiegano pienamente nella produttività cooperativa la loro essenza sociale. Nel comunismo, in ultimo, sarà proprio lo sviluppo dispiegato di ogni individualità la condizione essenziale per lo sviluppo sociale e dell’individuo stesso.
La libertà dei moderni troverà, dunque, il suo compimento nella mediazione fra il suo portato universalistico, capace di togliere corpi particolari e disuguaglianze formali, e il suo opposto la libertà antica con il suo portato di organica compenetrazione fra individuo e comunità statuale. Non si tratterà però della sintesi semplice degli opposti, dal momento che una sintesi razionale e non meramente intellettuale implica il reciproco togliersi del particolarismo che li pone in contraddizione reciproca. La nuova totalità dovrà esser capace di tenere insieme i contrari nella loro differenza specifica, ma al contempo tolta dialetticamente nella mediazione reciproca. Il comunismo dovrà essere una relazione, un nesso socialeimmanente al rapporto fra gli individui, non qualcosa che domina, sottomette le individualità, una totalità non più trascendente, ma immanente alle relazioni fra gli individui. La conciliazione di cui si fa portatore non comporta la cancellazione della contraddizione, ma si configura quale capacità di tenere insieme gli opposti in quanto distinti e al contempo tolti dialetticamente nella loro sintesi. L’universalismo della nuova totalità non sarà, dunque, più astratto e formale, ma concreto e assolutamente mediato quale soluzione della contraddizione fra borghese e cittadino, fra libertà dei moderni e vita etica, fra natura e spirito.
La ricostituita comunità sociale non dovrà limitarsi alla negazione indeterminata della proprietà privata individuale, ma dovrà giovarsi delle peculiarità individuale, in un processo di mutuo riconoscimento fatto di complesse mediazioni. Il compimento-superamento dell’eguaglianza politica sarà l’eguaglianza nella produzione, ovvero non l’intellettualistico e terroristico livellamento della proprietà individuale, ma la realizzazione di una proprietà eguale, direttamente sociale. In altri termini il progressivo togliersi della proprietà privata dovrà corrispondere a una completa individualizzazione della vita sociale, in cui la cooperazione non neghi, ma esalti il contributo particolare del singolo. La proprietà comune e la cooperazione dei produttori sono le condizioni indispensabili alla piena realizzazione della libertà dell’individuo. La stessa eguaglianza nel comunismo non potrà significare l’eliminazione delle differenze, ma la loro piena valorizzazione all’interno della totalità sociale. Allo stesso modo la fratellanza universale fra gli uomini non dovrà consistere nella negazione semplice delle differenti tradizioni nazionali, ma della loro libera espansione nel nuovo contesto internazionalista. I diritti umani trovano il loro compimento-superamento – quali determinazioni non più astratte, meramente negative quali erano nell’uomo borghese – divenendo concrete nell’uomo socialista, prodotto dell’associazione dei produttori che ha tolto dialetticamente, nel processo di transizione, tanto la forma ideale, quanto il contenuto, l’atomo astratto dalla sua essenza sociale, della Dichiarazione. Allo stesso modo ogni diritto astratto diviene concreto mediante la negazione determinata della sua forma e del suo contenuto. La libertà deve togliere dialetticamente la sua forma negativa e nel suo contenuto egoista per compiersi mediante il suo passaggio all’altro, riconosciuto come il proprio nella sua differenza. La libertà dell’altro e della comunità non sarà più il limite negativo al dispiegarsi della libertà individuale, ma presupposto necessario al suo compimento. L’eguaglianza deve far getto della sua forma meramente politico-giuridica e del suo contenuto di eguaglianza delle possibilità per realizzarsi in un’eguaglianza sociale che ricomprende in sé la disuguaglianza delle determinazioni naturali. L’eguaglianza non sarà più rappresentata quale eguaglianza giuridica e eguale libertà dalla società, ma come sua realizzazione in una vita sociale che potenzia e permette il pieno sviluppo individuale.
Più in generale, è il diritto in quanto tale a dover essere tolto dialetticamente nella suo contenuto e nella sua forma per poter essere realizzato. Nella suo contenuto moderno esso racchiude nel suo concetto l’insieme delle limitazioni in base alle quali l’arbitrio di un individuo può divenire compatibile con quello di un altro, sulla base di una legge universale della libertà. La sua forma è dualistica in quanto, anche nella forma generale dei diritti umani, riproduce la scissione fra diritto pubblico e privato. Nella comunità dei produttori il suo contenuto diviene positivo in quanto non sarà più necessario sanzionare come atomistica la sfera dell’individuo, in quanto i suoi interessi non saranno più contrapposti a quelli dell’altro e della sua libertà. Allo stesso modo la sua forma dualistica sarà superata dialetticamente in una comunità sociale che riunifica in sé l’uomo universale estraniato nei diritti di cittadinanza e l’uomo singolare ipostatizzato nei droits de l’homme.
Note:
[1] Eric J. Hobsbawm, Gli aspetti politici della transizione dal capitalismo al socialismo, in AA. VV., Storia del marxismo, vol. I, Einaudi, Torino 1978, p. 261.
[2] Karl Marx, La guerra civile in Francia, in Id., Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 919.
[3] Bruno Bauer, Karl Marx, La questione ebraica, tr. it. di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2004, p. 199.
[4] Umberto Cerroni, Marx e il diritto moderno, Ed. Riuniti, Roma 1972, p. 236.