L’amore al tempo dei social network

Nella generale mercificazione dell’umano a opera del capitale, non fa eccezione quella dei sentimenti. I social network sono un potente meccanismo di riduzione del sentimento amoroso a qualcosa di effimero e intercambiabile, spendibile in una logica di marketing del proprio io-profilo.


L’amore al tempo dei social network

Per chi oggi, fuori tempo massimo, si sente ancora un romantico, l’amore vissuto al tempo dei social non può che essere una tragicomica messa in scena beffarda, un inganno da beoti le cui dinamiche interne si manifestano evidenti – a chi le vuole vedere. Queste seguono il principio cardine della mercificazione del corpo e dei sentimenti

Il sentimento – linfa vitale del romantico – è di fatto un elemento superfluo, qualcosa addirittura di ingombrante nella nuova dimensione delle relazioni amorose massimamente dipendenti dal potere dei social network. Esso, allo stato dell’arte, e sempre più negli anni, è divenuto l’eccedenza non-remunerativa che deve essere eliminata; un sovrappiù che, essendo appunto eccessivamente romantico, deve sparire – e nei fatti lo è – dall’economia dello scambio interpersonale, ossia dello scambio dei corpi e degli accounts. Il sentimento amoroso, ridotto a residuo propagandistico o a strategia di marketing, è quindi un nulla che inceppa il processo di compravendita dei corpi esposti nelle vetrine virtuali, in quanto il suo proprium, ciò che lo rende per l’appunto sentimentale, è precisamente ciò che rischia di azzerare l’esistenza stessa del social: l’unicità. 

Al tempo del romanticismo, ossia, per intendersi, al tempo in cui Goethe cercava di romanzare inspiegabili “affinità elettive” e il lettore tentava di cavarne qualcosa, l’amore era sempre un unicum. E lo era nel senso del suo carattere di irripetibilità: l’amore morto, irrecuperabile, divenuto fantasmatico, era sempre un amore irrimediabilmente perduto e mai un amore sostituito. Tale carattere di irripetibilità, che fa ritenere al romantico il suo amore insostituibile perché morto, non permetterebbe oggi alla vita virtuale di proseguire il proprio vertiginoso corso in quanto, se qualcosa è irripetibile, o quanto meno viene vissuta come tale, allora non si può duplicare, quadruplicare ecc. e arresta il moltiplicarsi delle inter-relazioni virtuali perché non spendibile come merce

L’amore, ai tempi del capitalismo virtuale, somiglia più alle beneamate consegne a domicilio, le quali incarnano l’ideale della pigrizia attiva che il mercato impone come mantra di vita quotidiana. La merce – venduta sempre “a buon prezzo” – è recapitata a casa proprio come sono recapitate a casa, ad personam, le nuove ansie, le nuove compulsioni, le nuove manie, insomma i nuovi meccanismi che il social ci impone nel preciso istante in cui decidiamo di intraprendere una relazione amorosa – carnale – con un’altra persona. Quest’ultima, infatti, quasi sempre possiede il suo duplicato – come praticamente ogni altra cosa al mondo – in un social (più o meno esplicito in fatto di relazioni). Per tanto, ciò che il soggetto amante deve aspettarsi quando si innamora dell’altro è, oltre che la sua persona fisica, quella virtuale, accompagnata da tutto ciò che ne deriva. 

Ora, bisognerebbe chiedersi: la persona virtuale, l’account, cos’è per il soggetto e per gli altri? Esso è precisamente un ideale: l’io ideale che ognuno vorrebbe essere, ciò che ognuno desidera che gli altri – ovvero se stessi tramite gli altri – vedano. Questo io ideale, in guisa simile a quello freudiano riletto da Lacan [1], non è altri che un’immagine nel vero senso della parola, ovvero sia l’immagine ideale di se stessi nell’altro e per l’altro. L’account è, in buona sostanza, quell’io ideale verso cui il soggetto tende al fine di conformarcisi e identificarcisi. Ma esso non è solo ed esclusivamente un’immagine; esso è anche un simbolo, la sua natura è infatti duplice: è il simbolo dei nuovi (dis)valori che il mercato capitalistico mondiale ha pedissequamente forgiato seguendo la curva del guadagno

Per essere un account riconosciuto da altri accounts bisogna seguire alcuni principi, fra i più banali, come l’inserimento di una foto profilo che sia simpatica, divertente o – quasi sempre – accattivante; ovvero un’immagine di se stessi che, fissa o cangiante che sia, rispecchi i parametri di riconoscimento del mondo dei social. Con quella foto io, soggetto fisico che maneggio il mio dispositivo, mi mostro agli altri come ciò che immagino di voler essere e voglio – o almeno credo – essere; questa immagine non semplicemente rappresenta l’io ideale che voglio essere ma l’ideale dell’io che mi è stato imposto e che intendo, con tutte le forze, diventare! – anche a scapito della perdita della mia soggettività. Cioè quell’ideale dell’io che, tramite la fascinazione immaginaria, permette al capitalista di percepire un guadagno reale e al soggetto di alienarsi nel proprio doppio virtuale: il social, infatti, è pensato dal capitalista affinché ogni singolo individuo, entrandovi a farne parte, possa illudersi di mostrarsi agli altri per ciò che pensa (erroneamente) di essere e, così facendo, alimentare la catena infinita degli accounts virtuali e dei proventi derivanti dall’utilizzo dei social. 

Il soggetto fisico, in modo speculare, nel tentativo di illudere gli altri mostrandosi come ciò che pensa di voler essere – l’ideale di se stesso – si illude a sua volta, e lo fa con una tale inconsapevole forza e leggerezza d’animo da non accorgersene mai (o quasi). Quindi, che si tenti di farsi riconoscere tramite la foto della propria immagine scelta per l’occasione, o tramite la foto di un paesaggio, di un personaggio famoso e così via, non si fa altro che perpetrare, sempre e comunque, a scapito della propria libertà, il meccanismo della spendibilità della propria identità mercificata.

Per comprendere tutto ciò si pensi a come le dinamiche virtuali dei social influenzino, se non addirittura modellino, le relazioni sentimentali reali. Sono le funzioni stesse del social – come la possibilità di sapere se l’altro è online o meno, di leggerne gli “stati” per sapere cosa pensa, cosa fa o con chi è ecc. ecc. – che si sostituiscono ai meccanismi classici (potremmo dire pre-virtuali) delle relazioni amorose e ne decretano la natura sin dall’inizio. Da qui la nascita di una nuova nevrosi collettiva che appiattisce la libertà del soggetto imprigionandolo in meccanismi predisposti e ben precisi. Egli, di fatto, non è libero di chiamarsene fuori, perché nell’attimo in cui si innamora è già vittima della dimensione virtuale altrui, catapultato lì al di là della sua volontà. In poche parole, la virtualità dei social può definirsi a pieno titolo il nuovo campo in cui si giocano le tattiche della seduzione. Per esempio: se un soggetto – il quale come si è visto è inevitabilmente anche un account – pianta in asso il partner, quest’ultimo, se ancora interessato al primo, si troverà vittima, senza via di scampo, dei meccanismi del controllo illusorio dell’altra persona. Credendo di seguirne i movimenti reali tramite quelli virtuali egli infligge a se stesso una duplice ferita: da un lato deve fare i conti con la persona amata – quella fisica – che adesso è morta, dall’altro deve approcciarsi a una nuova persona virtuale che alimenta il ricordo di quella morta e parimenti costruisce l’immagine di uno zombie, un essere redivivo che porta le fattezze del morto ma che opera e pensa come un altro soggetto, come un estraneo, un altro dell’altro. Si ponga, al contrario, il caso del soggetto che lascia il malcapitato ancora innamorato. Colui che lascia, a scapito della sua stessa libertà di pensiero e azione, inizierà immediatamente a modificare i connotati della propria immagine virtuale caricandola di nuovi simboli: la disponibilità a nuovi legami, la riconquistata spensieratezza, la frivolezza ecc. ecc. Tale operazione – divenuta oramai automatica nella maggior parte delle persone che posseggono un account qualsiasi – cela dietro di sé la possibilità e la promessa di un nuovo amore, una vera e propria beffa! Il soggetto, per “rifarsi una vita”, come si suol dire, riconfigura la propria immagine eliminando sempre più qualcosa di quella a cui precedentemente si era identificato, entrando così a far parte di un processo che appiattisce inesorabilmente la propria soggettività da un lato e alimenta in modo esponenziale l’intercambiabilità degli io dall’altro; ovvero alimenta la metonimica tendenza a passare da un io all’altro con la massima leggerezza: dal mio primo io virtuale al mio secondo ecc.; dal precedente io virtuale del partner al successivo ecc.; e ugualmente, dal mio precedente amore reale al mio successivo ecc.

A questo proposito, se si soffre per amore, per esempio, il capitale virtuale offre l’immediata possibilità di interagire con l’altro per accelerare il naturale processo psicologico dell’elaborazione del lutto (il quale, è bene ricordarlo, riguarda tutti noi, se pur in grado e intensità differenti). Il partner vecchio muore psicologicamente ancora prima di come avrebbe fatto grazie alla riconosciuta, anzi acclamata, funzionalità relazionale del social. Pertanto, in un mondo che ha sempre più imposto la fluidificazione dei rapporti umani [2] – dall’avvento del capitalismo industriale fino al globalismo scellerato del guadagno – i rapporti amorosi non possono che essere destinati a un rapido declino, essendo progressivamente sostituiti dai rapporti usa e getta propinati dalla logica del consumo – molto simili a quelli descritti da Huxley nel suo Brave New World già nel 1932. Il potere del virtuale, in effetti, non è altro che la conseguenza logica di una economia che mira alla trasformazione di ogni cosa in guadagno. In primis vi è l’aspetto economico: come speculare anche sui rapporti amorosi rendendoli merci? In secundis quello logistico: come facilitare questa compravendita dei soggetti? Sia per il primo che per il secondo versante risulta chiaro che la virtualizzazione dei rapporti sentimentali è la risposta a entrambi i quesisti: trattando essi stessi e gli altri come merce spendibile sul mercato dei social i soggetti si disumanizzano e si “virtualizzano”, seguendo per filo e per segno la logica usa e getta del capitale. Ma come fa, concretamente, il capitale a specularci? Esso vi specula tramite le sue agenzie operative, ossia i mezzi di intrattenimento (tra cui i social) e di consumo di massa. Esso crea – e fa sì che si creino in modo automatico – nuovi modi d’essere, nuovi valori, nuovi dictat, nuovi esempi, nuovi ideali ecc., i quali vengono venduti al consumatore in quanto – e affinché – a essi tenda e si identifichi. Di conseguenza, il consumatore, che però è ancora anche un soggetto-amante, ama e non ama servendosi di tali linee guida, di tali modelli, perché il suo stesso pensiero, la sua stessa volontà ne sono talmente pregni da rischiare di diventarne, addirittura, il prodotto. 

L’amore romantico, ossia l’esperienza irripetibile per eccellenza, diviene ogni giorno di più una sorta di retaggio antico, un residuo fastidioso che la cultura della cancellazione del superfluo riconosce come nemico. Sostituendo l’amore morto con un altro amore tramite la fascinazione virtuale e, sopra tutto, all’insegna dell’ideale che impone “se stessi prima di tutti”, il soggetto si nega, ab originem, la possibilità di vivere il lutto che a tale amore è d’uopo riconoscere. La dimensione mortifera, melanconica, ossia l’esperienza del lutto per l’amore perduto, la si può vivere solo se l’amore, di per sé, è stata quell’esperienza irripetibile che si è dissolta con umano dolore. Ma per chi vive all’insegna dell’etica del godimento effimero degli io moltiplicabili l’esperienza della perdita, la sofferenza per il lutto subìto, è solo una impasse nella catena continua del piacere immediato e fugace dell’altro – il quale viene utilizzato alla stregua di un oggetto. Questo altro, in fin dei conti, non è forse duplicabile, ritrovabile in un altro io virtuale che si presenta come nuovo, migliore, più promettente del primo? E allora, perché soffrire per esso quando un altro può subito essermi disponibile senza particolari sforzi e sacrifici?

Il soggetto amante, concepito solo nella sua singolarità, nel suo essere uno bastante a se stesso, in questo modo perde l’esperienza duale dell’amore; non dell’amore narcisistico che Freud credeva essere il solo [3], ma l’esperienza della condivisione dei propri vissuti con l’altro amato. Il singolo nell’era del capitale virtuale, al contrario, non può reggere il peso che l’irripetibilità dell’amore gli impone, in quanto ogni godimento, ogni tipo di piacere per lui è tale solo se sostituibile alla bisogna, immediatamente, e mai se è concepibile solo come unico e irripetibile. 

L’altro-oggetto, che l’etica del capitale mi impone di credere sia la soluzione migliore alle mie pene d’amore, si pone dunque nei confronti del soggetto aderendo alla modalità del ricambio, la quale fa sì che il processo psicologico-esistenziale dell’elaborazione del lutto sia, in qualche modo, surclassato – arrecando così un danno letale al soggetto: la perdita della sua più propria esperienza della morte (seppur si tratta di una morte non biologica). Ne deriva che la stessa libertà del soggetto, la sua capacità di scegliere, risulta intaccata, marchiata dal simbolo del ricambio continuo incarnatosi nelle immagini-profilo. Se tutto ciò non si comprende, possiamo dire veramente di essere in grado, oggi, di amare in modo romantico? E inoltre, una riflessione più decisa sulla questione non ci porta forse a credere che lo stesso fenomeno dell’amore muti col mutare delle relazione umane e che, come queste ultime, si dissolva progressivamente nella imperante virtualità del vivere modano?

P.S. Quando finisce un amore, uno importante, forse sarebbe il caso di allontanare da sé cellulari e simili, per permettere al romantico che è in noi di fare i conti con l’indispensabile esperienza della perdita e assumersi la responsabilità di essere un essere umano, di essere ciò che Heidegger propriamente ha chiamato un essere-per-la-morte [4]. Evitare il dolore tramite un piacere effimero e secondo i dettami della merce non rende liberi, come ingenuamente si tende a credere, ma schiavi della propria impotenza e della propria passività sentimentale, emotiva e intellettuale. Il dolore, ahi noi, è come un boomerang perfetto lanciato a elevata velocità che, per quanto lontano possa andare, è destinato sempre a ritornare al posto di partenza con una forza distruttiva pari alla distanza percorsa.

 

Note:

[1] Cfr J. Lacan, Il seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio 1957-1958, Trad. it. A. Di Ciaccia e M. Bolgiani, Einaudi, 2004.

[2] Le basi concettuali – o sarebbe più preciso dire sociologiche – di tale concetto si devono ritrovare in Bauman e nel suo lavoro più famoso “Modernità liquida”. Sebbene questo pensatore forse non spicchi particolarmente per le sue doti critiche, con questa opera è riuscito a dare da un lato un’immagine pregnante del cambiamento dei rapporti umani nella società globalizzata e, dall’altro, a farne una critica di carattere più filosofico che sociologico. Cfr. Z. Bauman, Modernità liquida (2011), trad. it. S. Minucci, Laterza, 2011.

[3] Cfr. S. Freud, Introduzione al narcisismo (1914), in Opere, vol. 7, Totem e tabù e altri scritti, trad. it. C. Musatti, Bollati Boringhieri. 1989.

[4] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. Pietro Chiodi, Longanesi, 2005.

24/09/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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