Il 2 novembre 1800, alla vigilia del suo trasferimento a Jena, Hegel scrive a Schelling una famosa lettera, dove, tra l’altro, afferma: “nella mia formazione scientifica, che cominciò dai bisogni più subordinati degli uomini, dovevo necessariamente essere sospinto alla scienza, e l’ideale dell’età giovanile doveva insieme trasformarsi nella forma riflessa, in un sistema. Mi chiedo ora, mentre sono ancora occupato in questo, come trovare un ritorno all’intervento nella vita degli uomini”[1].
Il programma filosofico futuro, anche se in modo ancora generico, è qui sufficientemente delineato. La preoccupazione espressa da Hegel sul rischio di una separazione tra l’attività teoretico-scientifica e “i bisogni degli uomini” e, inoltre, l’esigenza di trovare una via che consenta alla conoscenza filosofica una incidenza concreta nella ricomposizione della realtà umana, in linea con il suo “ideale giovanile”, rappresentano per György Lukács il segno del realismo di Hegel e della sua stretta aderenza ai problemi del proprio tempo.
L’elemento essenziale del suo progetto filosofico è lo sviluppo della tendenza oggettivistica; nei primi anni di Jena la costruzione del “sistema” non può che passare attraverso la critica dell’idealismo kant-fichtiano. Il carattere polemico delle sue prime opere pubbliche – quali la Differenza tra i sistemi filosofici di Fichte e di Schelling e Fede e sapere – non deve trarre in inganno: l’aspro confronto critico con la filosofia di Kant e di Fichte assume il significato di un esperimento, una sorta di laboratorio, in cui i singoli problemi discussi servono da “materiale da costruzione” in vista della loro sistematizzazione.
Lo stile di confutazione delle dottrine filosofiche del suo tempo, ivi adottato, rimarrà inalterato in tutta la produzione successiva di Hegel. Nella sua critica, considerazione storica e considerazione sistematica sono indissolubilmente connesse: a ciascuna filosofia viene assegnato il posto storico che le compete nello sviluppo del pensiero e, nello stesso tempo, le loro contraddizioni e i loro limiti intrinseci non sono astrattamente negati, ma accolti in una sintesi superiore. Lukács riassume così: “storicamente Hegel dimostra che l’idealismo soggettivo è sorto necessariamente dai più profondi problemi del presente; che proprio in questo consiste la sua importanza storica, la sua grandezza duratura. Ma nello stesso tempo egli mostra che l’idealismo soggettivo non può, di necessità, fare altro che sentire come problemi i problemi posti dal tempo e tradurre la loro problematica nel linguaggio della filosofia speculativa. Ma una risposta a questi problemi non può essere data dall’idealismo soggettivo: e in ciò consiste la sua insufficienza” [2].
Nei primi anni di Jena il problema fondamentale di Hegel è l’unificazione delle opposizioni, mantenute rigidamente separate nelle filosofie della riflessione, senza però annullarle come avviene nel sapere immediato di Jacobi. Sia nella Differenza che in Fede e sapere Hegel definisce il giusto rapporto che deve intercorrere tra intelletto e ragione, affinché la critica all’intelletto non si traduca in una rinuncia alla comprensione razionale della realtà: le determinazioni intellettuali, debitamente relativizzate, entrano così a far parte costitutiva della costruzione del sistema e contestualmente prende forma la fisionomia del metodo attraverso l’enucleazione delle categorie dialettiche, quali immediatezza-mediazione, parte-totalità, fenomeno-essenza, ecc.
Lukács dedica molte pagine della seconda parte de Il giovane Hegel alla fondazione hegeliana dell’idealismo oggettivo, analizzando dettagliatamente i singoli punti del confronto di Hegel con l’aspetto sia teoretico, sia pratico delle filosofie della riflessione. Senza soffermarmi ulteriormente su ciò, mi limito a osservare soltanto che l’interpretazione lukacciana mira a individuare quale sia l’elemento mediatore che consente a Hegel di ricomporre nel concreto il dualismo tra causalità naturale (regno della necessità) e libertà morale (regno dei fini).
Sia Kant, sia Fichte avevano infatti rinserrato il concetto di prassi nella sfera dell’attività morale, creando una frattura tra piano teoretico e tra piano pratico che, con la cattiva infinità del dover-essere, riproduceva a livello filosofico le scissioni prodotte storicamente dalla cultura (Bildung).
Abbiamo visto quale fosse l’intenzione programmatica di Hegel: innalzare a sistema le determinazioni riflessive mediante l’istanza unificatrice della ragione, evitando però la separazione astratta della sfera teoretica dalla prassi concreta degli uomini, cioè senza abbandonare il terreno dei “bisogni più subordinati degli uomini”. Ebbene, Lukács coglie nella categoria del lavoro l’elemento mediatore tra attività soggettiva e realtà oggettiva, grazie al quale Hegel si apre a una concezione dell’uomo inserito nella totalità dei rapporti storico-sociali.
Il “lato attivo” della filosofia classica tedesca, che nella forma datagli da Kant e da Fichte impediva di indagare l’interazione tra conoscenza e prassi umana, subisce una radicale trasformazione: “questa svolta è stata l’opera di Hegel in questo periodo, e il punto cruciale nell’attuazione di questa svolta è proprio l’utilizzazione economica, sociale e filosofica della concezione del lavoro presa da Smith” [3].
Secondo Lukács l’incontro con l’economia politica ha esercitato su Hegel un effetto talmente decisivo che le categorie e i fenomeni economici (divisione del lavoro, strumento, macchina, scambio, mercato, crisi, produzione di ricchezza e di pauperismo) – oggetto di studio approfondito e di confronto con la realtà della società capitalistica – stanno a fondamento delle categorie dialettiche [4]. La sistemazione filosofica delle categorie economiche prende la forma della triade dialettica, i cui nessi si dispongono secondo la forma sillogistica tipicamente hegeliana, come si può evincere da un passo delle lezioni jenensi del 1805-06 [5]. Ivi il movimento dialettico è visto da Hegel nella sua duplicità, a parte obiecti e a parte subiecti. Nel primo caso l’oggetto, secondo Lukács, diventa oggetto reale per l’uomo, soltanto tramite la mediazione del lavoro; in questa mediazione il principio attivo, la soggettività – che nell’idealismo è il pensiero –, per essere incisivo deve rispettare la realtà così com’è: “nell’oggetto del lavoro operano leggi naturali immutabili, il lavoro può aver luogo e riuscire fecondo solo sulla base della loro conoscenza e del loro riconoscimento” [6]. Il cambiamento di forma dell’oggetto, risultato dell’attività lavorativa, è attuabile quindi soltanto se corrisponde alle leggi proprie dell’oggetto, per cui qui Lukács sta avanzando la tesi della presenza in Hegel della teoria del “rispecchiamento”.
Riguardo alla dialettica del soggetto, quest’ultimo nell’atto lavorativo diventa “cosa a se stesso”, si estranea da sé, elevando al contempo se stesso e l’oggetto a significato universale. Infatti, mentre nell’animale il soddisfacimento del bisogno avviene con la distruzione dell’oggetto nel consumo immediato, l’uomo invece pone tra il bisogno e il suo soddisfacimento l’attività trasformatrice del lavoro. La mediazione tra uomo e natura data dal lavoro trascende l’immediatezza naturale e sta a fondamento del divenire uomo dell’uomo.
La funzione decisiva del lavoro nell’evoluzione dell’umanità traspare chiaramente nella dialettica Signoria-Servitù, che Lukács qualifica come la tipica “robinsonata” dello Hegel impegnato a spiegare il passaggio dallo stato di natura alla società civile [7]. Questo tema, già presente nel Sistema dell’eticità (1802), è legato alla celebre figura dell’Autocoscienza nella Fenomenologia, alla quale si ricollega Lukács per sottolineare la “superiorità” del Servo sul Signore, perché è lui a gestire il rapporto negativo con l’oggetto, cioè il lato della trasformazione della natura mediante il lavoro. Con ciò il Servo perviene alla coscienza dell’indipendenza di sé come della cosa, dando avvio al processo della formazione-culturale, della Bildung. Non solo, ma Lukács stabilisce anche una diretta correlazione tra lavoro e conoscenza: “Hegel, che nella gioventù ha trascurato completamente la schiavitù dell’antichità e si è occupato solo dell’uomo politico, del libero che non lavora delle repubbliche cittadine, perviene qui, attraverso la dialettica del lavoro, alla conoscenza che la via maestra dell’evoluzione dell’umanità, il diventar uomo dell’uomo, la socializzazione dello stato di natura, passa solo attraverso il lavoro, attraverso quel rapporto alle cose in cui si esprime la loro indipendenza e legalità propria, in cui le cose costringono l’uomo, sotto pena di morte, a conoscerle, e cioè ad elaborare gli organi della sua conoscenza; solo attraverso il lavoro l’uomo diventa uomo” [8].
Note:
[1] Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, lettera a Schelling del 2 novembre 1800, citata Lukács, György, Der junge Hegel und die Probleme der kapitalistischen Gesellschaft (1948), Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, traduz. di Solmi, R., Einaudi, Torino 1975, p. 338.
[2] Ivi, pp. 369-70.
[3] Ivi, p. 451.
[4] Remo Bodei individua un suggestivo isomorfismo tra lo sviluppo economico capitalistico e il movimento della dialettica hegeliana, ma non ritiene, a differenza di Lukács, che le categorie economiche abbiano un valore fondante per la dialettica hegeliana ma, piuttosto, che siano espressive della cadenza dialettica propria dell’epoca. Cfr. Bodei, Remo, Hegel e l’economia politica; in AA.VV., Hegel e l’economia politica, a cura di Veca, S., Milano, Mazzotta editore 1975, pp. 29-60, p. 41.
[5] “Determinazione dell’oggetto. Esso è dunque contenuto, differenza e precisamente del sillogismo, individualità e universalità e un medio delle stesse. Ma a) esso è essente, immediato; il suo medio è cosalità, universalità morta, esser altro e b) i suoi estremi sono particolarità, determinatezza e individualità. In quanto esso è altro, la sua attività è quella dell’io, esso non ha di propria; questo estremo cade di fuori di esso. Come cosalità è passività, comunicazione di questa attività, che però, in quanto fluido, ha in sé come qualcosa di estraneo. Il suo altro estremo è l’opposizione (la particolarità) di questo suo essere e dell’attività. Esso è passivo; è per altro, lo tocca, è (acido) destinato in generale a consumarsi. Questo è il suo essere, ma insieme forma attiva contro di esso, comunicazione dell’altro. Rapporto inverso: da un lato l’attività è solo un che di comunicato ed esso la comunicazione, il puro accogliente, dall’altro è attivo contro altro. L’impulso soddisfatto è il lavoro tolto; ciò è questo oggetto che lavora al suo posto. Lavoro è l’immanente farsi cosa. Lo sdoppiamento dell’io che è impulso è proprio questo fare di sé oggetto. (L’appetito deve sempre cominciare da capo, esso non perviene a staccare da sé il lavoro). Ma l’impulso è l’unità dell’io in quanto fatto cosa. La semplice attività è pura mediazione, movimento; la semplice soddisfazione dell’appetito è puro distruggere l’oggetto” Hegel, G.W.F., Lezioni jenesi sulla filosofia dello spirito, cit. in Lukács, G., Il giovane Hegel…, op. cit., p. 454.
[6] Ivi, p. 455.
[7] Non è di questo avviso A. Kojève, per il quale la dialettica Signoria-Servitù sta a fondamento dell’antropogenesi, si trova quindi all’inizio della storia e la differenza tra signore e servo non ha carattere eterno: “per Hegel [...] la differenza radicale tra il Signore e il Servo esiste soltanto all’inizio e può venir soppressa nel corso del tempo. È che per lui Signoria e Servitù non sono caratteri dati o innati. In origine almeno, l’Uomo non nasce schiavo o libero, ma si crea schiavo o libero con l’azione libera o volontaria” Kojève, Alexandre, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, traduz. di Serini, P., Einaudi, Torino 1982, p. 100.
[8] Lukács, G., Il giovane Hegel…, op. cit., p. 458