Grazie alla categoria hegelo-marxista di contraddizione oggettiva, risulta più chiara, la comprensione del processo rivoluzionario, così come della storia intesa da Hegel quale “sviluppo ininterrotto di contraddizioni”. Prima di Hegel la rivoluzione veniva spiegata, dai controrivoluzionari, come un lucido complotto ordito dai suoi protagonisti, quindi come un processo guidato esclusivamente dal soggetto. Dai rivoluzionari, invece, veniva spesso associata a uno sconvolgimento naturale, al fine di dimostrarne l’ineluttabilità. Grazie a Hegel sia l’aspetto oggettivo (le contraddizioni del reale) che quello soggettivo (la coscienza di tali contraddizioni) diventano importanti nella spiegazione di tale processo.
All’indomani della Rivoluzione francese, nonostante la vittoria conseguita sull’assolutismo monarchico, non si era raggiunta la stabilità, ma nuove lotte e lacerazioni si erano presentate anche all’interno dello stesso partito rivoluzionario. Ciò “era un fatto che si prestava”, sottolinea Losurdo, “a considerazioni moralistiche e ad interpretazioni del tipo: «La rivoluzione divora i propri figli come Saturno»”. [2]. Non era caduto in questa visione moralistica Hegel che, invece, interpreta anche il periodo posteriore della Rivoluzione francese partendo dalle contraddizioni del reale, come dimostra questo passo tratto dalla Fenomenologia dello spirito: “un partito si comprova come vincitore solo perché si scinde in due partiti; e così mostra di possedere in se stesso il principio che prima combatteva, e di aver quindi tolta l’unilateralità nella quale prima sorgeva. L’interesse che si divideva tra lui e l’altro, cade ora interamente in lui, e dimentica l’altro partito, dacché proprio in questo trova l’opposizione che lo tiene occupato. Ma in pari tempo la discordia è stata elevata al superiore, vittorioso elemento, dove essa si presenta purificata. Cosicché dunque la scissione sorgente nell’uno dei partiti, pur sembrando una disgrazia, indica soltanto la sua fortuna” [3].
Inoltre Hegel, contro la teoria del complotto secondo la quale gli illuministi avrebbero ordito la Rivoluzione, è convinto che tali intellettuali né pensavano alla rivoluzione, né sapevano, se non in linee generali, cosa si dovesse fare praticamente. In effetti, come osserva a tal proposito Hegel, “per quel concerne la vita pratica dello Stato, questi scrittori non pensarono ad una rivoluzione; essi si limitavano a desiderare e chiedere miglioramenti, o meglio quelli che loro sembravano tali […]. Quei filosofi non potevano avere che una idea generale di quel che si doveva fare, non potevano tracciare essi il modo in cui farlo" [4]. Allo stesso modo le istituzioni che avrebbero dovuto, a parere di Hegel, provvedere alle riforme necessarie, erano bloccate a causa delle contraddizioni interne alla classe dominante, restia a cedere, anche solo una parte, dei suoi privilegi. Dunque, come mostra Hegel, “la rivoluzione francese è stata provocata dalla inflessibile ostinatezza dei pregiudizi, e specialmente dall’orgoglio, dalla più completa spensieratezza, dall’avidità […]. Al governo sarebbe spettato promuovere nuove istituzioni e provvedere a concreti miglioramenti, ma esso non lo seppe fare” [5]. A questo punto la rivoluzione non poteva che scoppiare violentemente. Come evidenzia Losurdo: “quando un ordinamento politico-sociale non riesce a controllare e a incanalare l’insopprimibile spinta al mutamento, quando non riesce a padroneggiare la negatività che circola inevitabilmente nelle sue strutture, è allora condannato ad essere spazzato via” [6].
Nella concezione hegeliana della rivoluzione, che nasce da un complesso intreccio di contraddizioni, è fondamentale la categoria del “negativo”, cui Hegel assegna una ruolo centrale nella Scienza della logica. In effetti, come osserva a tal proposito, il grande filosofo: “l’astratta identità con sé non è ancora vitalità, ma perché il positivo è in se stesso la negatività, perciò esso esce fuori di sé ed entra nel mutamento. Qualcosa è dunque vitale solo in quanto contiene in sé la contraddizione ed è propriamente questa forza, di comprendere e sostenere la contraddizione. Quando invece un esistente non può nella sua determinazione positiva estendersi fino ad abbracciare in sé in pari tempo la determinazione negativa e tener ferma l’una nell’altra, non può cioè avere in lui stesso la contraddizione, allora esso non è l’unità vivente stessa, non è il fondamento o principio, ma soccombe nella contraddizione” [7].
La categoria del negativo non si può comprendere, però, senza tener presente la Rivoluzione francese, che per Hegel è “il momento storico più alto e drammatico della negatività” [8]. Losurdo evidenzia, tuttavia, come per Hegel la negatività non sia un’attività meramente soggettiva, ma sia presente nella stessa oggettività. Come scrive Hegel nella famosa Prefazione alla Fenomenologia dello spirito: “ora, se da prima questo negativo appare come l’ineguaglianza dell’Io verso l’oggetto, esso è pure l’ineguaglianza della sostanza verso se stessa. Ciò sembra prodursi fuori di lei, ed essere un’attività contro di lei, è il suo proprio operare, ed essa mostra di essere essenzialmente Soggetto” [9]. Se Hegel, da una parte, critica coloro che paragonano la rivoluzione a una catastrofe naturale, sottolineando quindi anche l’importanza del momento soggettivo, tuttavia il filosofo tedesco nello spiegare i processi storici e rivoluzionari si serve spesso, a parere di Losurdo, della dialettica oggettiva, fa valere cioè in modo significativo il peso delle contraddizioni. Un esempio di tale dialettica oggettiva è proprio la Rivoluzione francese: “Parlando dell’«indirizzo negativo» assunto in Francia dall’Illuminismo, Hegel scrive che questo non fece altro che «distruggere quel che era già in se stesso distrutto», ché «le antiche istituzioni […] non corrispondevano più allo spirito che le aveva fatte sorgere». La vecchia società feudale e la sua ideologia erano ormai divenute un positivo ossificato, un positivo che era «il negativo della ragione», e che quindi era sentito e costituiva realmente un’intollerabile violenza. «L’oppressione spinse all’indagine»; lo sbocco rivoluzionario era inevitabile: «Il pensiero è divenuto violenza là dove esso aveva di fronte il positivo come violenza” [10].
Insomma, la rivoluzione vera e propria viene rappresentata da Hegel come la scintilla, momento soggettivo, che cade su una massa di polvere da sparo, ovvero le contraddizioni reali prodotte nel corso del tortuoso sviluppo storico dello spirito.
Dalla categoria di contraddizione oggettiva emerge una concezione della prassi diversa dall’altra concezione presente nell’idealismo tedesco e che risale a Fichte, il quale considerava la prassi una mera negazione dell’oggetto, ponendo quindi l’accento esclusivamente sull’aspetto soggettivo dell’attività rivoluzionaria [11]. “Il concetto di prassi in Hegel è meno enfatico, non ha nulla a che fare col titanismo dell’autocoscienza. Prima di essere un’attività del soggetto, la negatività è insita nell’oggettività” [12]. Il presupposto della prassi si trova quindi, per Hegel, prima nell’oggettività, nel reale dilaniato dalle contraddizioni.
La concezione marxiana della prassi risente, per Losurdo, più della lezione hegeliana che di quella fichtiana. Marx nella celebre Prefazione a Per la critica dell’economia politica scrive: “una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione” [13]. Quindi, se è vero che è importante l’attività del soggetto per la prassi rivoluzionaria, altrimenti si scadrebbe nel meccanicismo, è pur vero, a parere di Losurdo, che “tale momento non può essere disgiunto dalla tensione dello stesso oggetto a farsi soggetto” [14]. Tenere presente questo aspetto della teoria della prassi di Marx è importante, a parere di Losurdo, per confutare la tendenza a vedere nel pensiero di Marx la presenza, accanto al materialismo, dell’attivismo di Fichte. Tale questione è sviluppata da Losurdo nell’importante saggio su Antonio Gramsci, in cui ricorda come la tesi dell’influenza di Fichte sul giovane Marx è presente sia nel panorama italiano, per esempio in Giovanni Gentile, che in quello europeo. A tale proposito Losurdo cita i Quaderni filosofici di Lenin, dove il pensatore e rivoluzionario russo riporta (e in parte critica) l’interpretazione di Marx del tedesco Plenge che coglie in Marx molti aspetti che derivano da Fichte [15]. È importante sottolineare come Lenin, comunque, aveva accolto positivamente il saggio di Gentile La filosofia di Marx, proprio perché Gentile aveva messo in luce l’aspetto più attivo e dinamico della dialettica di Marx, aspetto sottovalutato sia dai kantiani, sia dai positivisti.
Note:
[1] Losurdo, Domenico, Ipocondria dell’impolitico. La critica di Hegel ieri e oggi, Milella, Lecce, 2001, p. 23.
[2] Ivi, p. 22.
[3] Hegel, G. W. F., Fenomenologia dello spirito, trad. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, vol II, pp. 117-118.
[4] Id., Lezioni sulla storia della filosofia, trad. it. di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1981, vol. III/2, pp. 248-49.
[5] Ivi, p. 249.
[6] Losurdo D., Ipocondria …, op. cit., p. 24.
[7] Hegel, G. W. F., Scienza della Logica, trad. di A. Moni, riv. da C. Cesa, introduzione di C. Cesa, BUL Laterza, Bari. 1988, vol. II, p. 492.
[8] Losurdo D., Ipocondria …, op. cit., p. 25.
[9] Hegel, G. W. F., Fenomenologia… op. cit., p. 29.
[10] Losurdo D., Ipocondria …, op. cit., p. 26. Cfr. Hegel, G. W. F., Lezioni sulla storia… op. cit., vol. III/2, pp. 247-48.
[11] In una famosa lettera del 1795 Fichte paragona il suo sistema alla Rivoluzione francese: “il mio sistema è il sistema della libertà. Come quella nazione libra l’uomo dalle catene esterne, così il mio sistema lo libera dai ceppi della cosa in sé, dall’influenza esterna, e lo pone, fin dal primo assioma, come ente autonomo”. Lettera (presumibilmente a J.J. Baggesen) dell’aprile 1795, in Fichte, Johann Gottlieb, Briefwechsel, a cura di H. Schulz, Leipzig, 1930; ristampa anastatica Hildesheim, Olms, 1967, vol. I, p. 449.
[12] Losurdo D., Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico», Gamberetti Editrice, Roma, 1997, pp. 105-06.
[13] Marx, Karl, Engels, Friedrich, Opere scelte, a cura di Gruppi, Luciano, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 747.
[14] Losurdo D., Antonio Gramsci…, op. cit., p. 109.
[15] Cfr. ivi, pp. 101-02.