Negli anni successivi alla caduta del muro di Berlino, il pensiero unico dominante aveva portato il senso comune a ritenere che l’affermarsi della società di mercato avrebbe garantito una pace duratura. In effetti, dopo l’implosione del blocco sovietico, il successo editoriale di un’opera come La fine della storia e l’ultimo uomo di F. Fukuyama si spiega con il fatto che esprimeva il senso comune che si era venuto affermando. In tal modo, la narrazione di Fukuyama era giunta a riscuotere un consenso pressoché generalizzato all’interno del mondo occidentale: il trionfo del modello liberale e del libero mercato doveva segnare l’inizio di un equilibrio mondiale duraturo.
Rileggere queste pagine, a distanza di pochi anni da quando furono scritte, fa un certo effetto: era tutto sbagliato. La fine dell’“equilibrio del terrore” della “guerra fredda” ha provocato profondi sommovimenti negli assetti geopolitici, producendo un inquietante “squilibrio del terrore”, le cui ripercussioni sono tutt’ora in corso. Così, proprio mentre si consumava la fine dell’Urss di Gorbaciov e veniva meno il pericolo di un attacco dall’“Est rosso”, la guerra tornava a essere realtà.
In tal modo, il comune sentire della fine della storia è stato smentito da una serie di conflitti scoppiati in una sequenza sempre più rapida a partire dalla Guerra del Golfo (1991), che può essere considerata la prima del mondo contemporaneo, oltre a essere la prima cui partecipa la Repubblica italiana, rimettendo in discussione l’articolo 11 della Costituzione che, sino ad allora, sembrava vietarla. Così, l’ordine bipolare della Guerra fredda aveva ceduto il passo a un’era di “disordine” e “violenza”. Abbiamo così assistito in rapida successione alla guerra del Kosovo (1999), dell’Afghanistan (2001), alla Seconda guerra del Golfo (2003), alla guerra alla Libia (2011) e alla Siria (2012). Al punto che i bookmakers di Londra accettano scommesse sui prossimi conflitti (Iran, Repubblica democratica popolare di Corea, Venezuela…?).
Con l’esaurirsi della contrapposizione ideologica della Guerra Fredda, l’individuazione di un nemico esterno appare funzionale a preservare l’identità nazionale, etnica o religiosa, per difendere la coesione interna del gruppo di appartenenza, sostituendo i perduti valori etici del mondo precedente. Più gli eventi bellici sono strumentali a tali scopi, più tendono a ridursi a evento mediatico e la spettacolarizzazione ha il sopravvento sull’informazione, sulla strategia; il cinismo dei media fa la sua zoomata sulla capacità dell’uomo di compiere il male e gli aiuti umanitari si trasformano in uno spot. Sempre più le guerre sono organizzate, i conflitti sono inscenati come uno spettacolo sempre più parte integrante dell’evento che concorre a determinare. Come se si trattasse di una messa in scena, le guerre odierne sono presentate e preparate in funzione della rappresentazione mediatica: dal raid statunitense sulla Libia (1986), programmato per svolgersi in contemporanea ai telegiornali di maggiore ascolto, allo sbarco delle truppe multinazionali in Somalia (1993), accolte unicamente da una selva di telecamere. Nel suo Cultura e imperialismo, Edward Said ha giustamente osservato, a proposito della Prima guerra del Golfo, “gli americani guardavano la guerra alla televisione, con la certezza relativamente incontestata di star osservando la realtà; quel che vedevano era, al contrario, la guerra più nascosta e meno descritta della storia”.
La fine della guerra fredda sembra aver prodotto la morte della politica e un senso di vulnerabilità alimentato dai media. Si è aperto un periodo di profondi sommovimenti, che determineranno i futuri assetti del mondo, dopo la fine dell’equilibrio del terrore della Guerra Fredda. Ma quale mondo si sta delineando? Per comprenderlo non basta seguire gli eventi man mano che si verificano. Occorre capire quali sono le linee di tendenza, a partire dalla ridefinizione dello statuto della più potente alleanza militare della storia e, al contempo, principale protagonista dei conflitti contemporanei, la Nato, in funzione di un nuovo nemico di natura multiforme. Come testimonia il “nuovo concetto strategico dell’Alleanza Atlantica” (1991), essa deve riconfigurarsi in modo multidirezionale, in quanto il nuovo nemico con cui dovrà battersi appare molto difficile da prevedere.
Peraltro, già dopo la guerra in Vietnam, in cui i media avevano mostrato la dura realtà della guerra, la censura è stata affiancata dalla gestione delle news, dal management della percezione delle notizie filtrate e selezionate e, nel caso costruite, sino alla recente “militarizzazione dell’informazione”. La “sindrome del Vietnam” è divenuta, quindi, l’ossessione di una superpotenza che mal digeriva una sconfitta militare, e la convinzione da parte del governo Usa di non aver saputo controllare e piegare ai propri fini l’apparato dell’informazione.
Come ha denunciato anni fa il senatore statunitense William Fulbright, più che sulla censura si è puntato a far circolare informazioni, ovvero a quella che è stata definita la “manipolazione per inondazione”. Del resto già nell’antica Cina Sun Tzu, esperto di arte militare, teorizzava: “far sapere è spesso più importante di far ignorare”. E questa pare essere la tecnica adottata dagli odierni strateghi, ai quali è ormai chiaro che i mass media possono essere utilizzati come formidabili strumenti di propaganda, come cassa di risonanza delle decisioni prese al vertice.
Così, a partire dalla Guerra del Golfo (1991) la rappresentazione che abbiamo dei conflitti è condizionata da agenzie specializzate cui si rivolgono i belligeranti per “confezionare” le notizie o ideare pseudoeventi. Con oculata preveggenza, dopo l’invasione del Kuwait, la famiglia degli El-Sabah (emiri del Kuwait) si affidò alla maggiore agenzia statunitense di pubbliche relazioni, la Hill & Knowlton, per orientare l’opinione pubblica occidentale in senso favorevole all’intervento armato nel Golfo.
Gli specialisti della Hill & Knowlton girarono a Hollywood falsi filmini amatoriali sul Kuwait liberato, fecero raccontare alla figlia adolescente dell’ambasciatore kuwaitiano presso le Nazioni Unite (assente da anni dal suo paese) di come i soldati iracheni toglievano la corrente alle incubatrici; impedirono che venissero visti i 200mila iracheni uccisi, fecero recitare più volte ai marines la scena della riconquista dell’ambasciata americana a Kuwait City, facendo calare i soldati sui tetti dell’edificio quando la capitale era libera da due giorni.
D’altra parte molti giornalisti, salvo poi fare atto di pubblica contrizione, si prestarono senza troppo recalcitrare alla manipolazione, quando poi non ne divennero gli artefici. Reporter della Cnn prelevarono il cormorano da uno zoo e lo intrisero di petrolio, un’immagine che commosse tutto il mondo, si fecero riprendere in studio bardati con maschere antigas senza che ci fosse alcun pericolo di contaminazione, mentre fotografi dell’agenzia Reuter misero in vendita fotografie scattate durante la guerra Iran-Iraq del 1983.
In tal modo, la rappresentazione tende ad autonomizzarsi dall’evento, sino a sostituirvisi per rendere sempre più autonoma la notizia rispetto al fatto, al punto di ribaltare il rapporto, per cui la notizia diviene l’evento. La guerra combattuta anche con i media e controllata dai grandi organizzatori del consenso porta con sé anche una serie di mistificazioni e di veri e propri falsi. In tal modo la rappresentazione tende ad autonomizzarsi dall’evento, sino a sostituirvisi. Così, dopo che i teleschermi per giorni trasmisero i tracciati verdi delle contraeree nel cielo di Baghdad, fecero impressione le immagini del cormorano imbrattato di petrolio, in quanto sembrava una delle prime immagini “reali” degli effetti della guerra. Tanto che tale immagine, per quanto manipolata o meglio costruita artificialmente, è rimasta nell’immaginario collettivo l’emblema giustificatorio della guerra del Golfo. Quel cormorano non aveva mai respirato l’aria o le nubi tossiche nei pressi dei pozzi di petrolio manomessi da Saddam Hussein. Fu semplicemente una chiave emotiva per creare consenso, un’immagine che serviva a far leva sulle emozioni di un povero volatile moribondo, incapace di muoversi per la massa oleosa che ricopriva piume e penne.
Dunque, con la guerra del Golfo, inizia la mediatizzazione come messa in scena della guerra. Attraverso la televisione e più in generale i mass media la realtà della guerra è sacrificata, non solo perché se ne mostra solo ciò che è utile alla propria posizione, ma poiché il resto lo si costruisce artificialmente presentandolo come realtà.
È stato dimostrato che anche altri dei filmati più noti della Guerra del Golfo furono girati “in studio” e spacciati per veri. Alcuni hanno fatto a lungo bella mostra di sé nel portafoglio della Hill & Knowlton. Molto meno visibili furono le vittime di tali “bombardamenti chirurgici” finiti al 70% fuori bersaglio. Del resto le immagini delle ”bombe intelligenti” – che costituivano appena il 7% dell’arsenale militare americano – sembravano colpire il nemico senza danneggiare la popolazione civile, rendendo la guerra appassionante come un War Game, anche perché erano in buona parte ricostruite al computer.
Della guerra in Jugoslavia o in Medioriente si ha una percezione differente se non opposta a seconda dei mezzi di comunicazione che le media, ossia a seconda dei punti vista creati ad hoc dai mezzi di comunicazione delle differenti parti in causa. Essi selezionano sapientemente, quando non creano le immagini dei crimini da scolpire nell’immaginario collettivo. Durante la guerra in Jugoslavia si mettevano in luce unicamente i veri o più spesso presunti crimini compiuti dai serbi, mentre si tacevano del tutto quelli commessi dai croati, dai bosniaci musulmani e dall’Uck, passato improvvisamente dal rango di organizzazione terrorista a quella di fanteria della Nato. Tale guerra è stata un momento di passaggio perché si mostravano tanto le immagini dei profughi albanesi – e non quelle dei serbi – spesso in fuga a causa dei bombardamenti e non a causa della pulizia etnica serba, quanto le immagini drammatiche del conflitto, anche se presentate come effetti collaterali della guerra.