Vladimir I. U. Lenin sostiene, senza mezzi termini, che assumere posizioni nazionaliste in paesi imperialisti rappresenta una forma di oppressione nei confronti dei popoli in via di sviluppo. Perciò Lenin sostiene che “il movimento nazionale dei francesi, degli inglesi, dei tedeschi è già finito da un pezzo: il momento storico si presenta qui diverso: le nazioni emancipatesi si sono trasformate in nazioni che opprimono, in nazioni che praticano la rapina imperialistica e vivono ‘alla vigilia del tramonto del capitalismo’” [1]. È, perciò evidente, che nei paesi a capitalismo avanzato il nazionalismo non può più svolgere alcun ruolo progressivo.
Perciò, anche in merito al diritto dei popoli all’autodeterminazione, bisogna distinguere con nettezza e analizzare attentamente le concrete condizioni di ogni paese. Perciò Lenin sostiene: “nelle nostre tesi (…) si dice che, per essere concreti, bisogna distinguere almeno tre diversi tipi di paesi in rapporto alla questione dell’autodecisione (...). Il primo tipo sono i paesi progrediti dell’Europa occidentale (e dell’America), dove il movimento nazionale rappresenta il passato. Il secondo tipo è l’Europa orientale, dove esso è il presente. Il terzo tipo sono le colonie e le semicolonie, dove esso è in larga misura l’avvenire. (...) Nei paesi occidentali il movimento nazionale è ormai il passato remoto. In Inghilterra, in Francia, in Germania, ecc. la ‘patria’ ha ormai cantato il canto del cigno, ha ormai assolto la sua funzione storica, come dire che il movimento nazionale non può più recare qui niente di progressivo, che elevi a una nuova vita economica e politica nuove masse di uomini. Qui, all’ordine del giorno della storia non si pone il trapasso dal feudalesimo o dalla barbarie patriarcale al progresso nazionale, alla patria civile e politicamente libera, ma il passaggio dalla ‘patria’ capitalisticamente stramatura al socialismo” [2].
Per i paesi a capitalismo avanzato la lotta per l’indipendenza nazionale poteva aver senso, al massimo, fino al 1871. In seguito, in questi paesi la difesa della patria nel confronto con altre potenze imperialiste non è altro, denuncia Lenin, che socialimperialismo, posizione di chi a parole pretende di essere socialista, pur sostenendo nei fatti il proprio imperialismo.
Dunque, osserva con la consueta lucidità Lenin: “il periodo che va dal 1789 al 1871 fu l’epoca di un capitalismo progressivo, in cui l’abbattimento del feudalesimo e dell’assolutismo, la liberazione dal giogo straniero erano all’ordine del giorno della storia. Su questa base, e su questa unica base, si poteva ammettere ‘la difesa della patria’, cioè la lotta contro l’oppressione. Oggi ancora si potrebbe applicare questa concezione alla guerra contro le grandi potenze imperialistiche, ma sarebbe assurdo applicarla a una guerra tra grandi potenze imperialistiche” [3]. Del resto, anche nel socialismo internazionale questa posizione era ancora senso comune appena due anni prima l’inizio della Prima guerra mondiale tanto che, come ricorda Lenin, il manifesto del congresso di Basilea del 1912 della Seconda internazionale “formula con lampante chiarezza, il carattere di rapina, imperialistico, reazionario, schiavista di questa guerra; il carattere cioè, che trasforma l’ammissione della difesa della patria in un’assurdità teorica e un non senso pratico. È la lotta tra i grandi pescecane per inghiottire ‘patrie’ altrui. (..) Sarebbe ‘un delitto’ per gli operai ‘sparare gli uni sugli altri’. Così parla il manifesto” [4].
Anche in questo caso, ovvero per conoscere che posizione occorre prendere nei confronti di una guerra resta indispensabile comprenderne, secondo la lezione di Lenin, il fine politico e di classe del conflitto in corso. Perciò, osserva a tal proposito Lenin: “come scoprire, come determinare la ‘sostanza reale’ di una guerra? La guerra è la continuazione della politica. Bisogna studiare la politica che precede la guerra, la politica che porta e che ha portato alla guerra. Se la politica è stata imperialistica, ha difeso cioè gli interessi del capitale finanziario, ha depredato e oppresso le colonie e gli altri paesi, la guerra che scaturisce da una simile politica è imperialistica. Se la politica è stata una politica di liberazione nazionale, ha espresso cioè il movimento delle masse contro l’oppressione straniera, la guerra che ne deriva è una guerra di liberazione nazionale. Il filisteo non capisce che la guerra è ‘la continuazione della politica’ e quindi si limita a dire ‘il nemico attacca’, ‘il nemico invade il mio paese’, senza domandarsi per quale motivo si combatta la guerra, con quali classi, per quale fine politico” [5]. Perciò, non può essere che condannata come socialimperialista la decisione da parte di alcuni partiti della Seconda internazionale, a cominciare dalla tedesca Spd, di votare a favore dei crediti di guerra, dal momento che, come denuncia Lenin: “la guerra si svolge tra due gruppi di oppressori, tra due briganti, che bisticciano sul modo di spartirsi il bottino, per decidere che dovrà saccheggiare la Turchia e le colonie” [6].
Per altro il socialimperialismo ha delle conseguenze spaventose sul piano della storia mondiale, essendo il principale responsabile del fallimento del progetto bolscevico di rompere la catena degli Stati imperialisti nell’anello più debole, per favorire la rottura negli anelli più forti. In effetti, uno dei motivi fondamentali del fallimento della Rivoluzione in occidente è stato la corruzione del gruppo dirigente revisionista del proletariato mediante gli extra-profitti lucrati grazie all’oppressione delle nazioni più deboli da parte delle potenze imperialiste. Tali extra-profitti sono stati utilizzati per corrompere il proletariato delle nazioni imperialiste attraverso la formazione di una aristocrazia operaia. Come osserva a questo proposito Lenin: “di questo sovraprofitto [reso possibile dal dominio imperialista sui popoli oppressi] i capitalisti possono sacrificare una piccola parte (e persino assai considerevole!) per corrompere i propri operai, per creare una specie di alleanza (ricordate le famose ‘alleanze’ delle trade-union inglesi con i loro padroni, descritte dai Webb), un’unione degli operai di una nazione con i propri capitalisti contro gli altri paesi” [7].
Tale corruzione finisce con il rendere parassitario dello sfruttamento selvaggio dei popoli oppressi dall’imperialismo una parte significativa del personale politico e sociale del movimento dei lavoratori. In effetti, come denuncia Lenin: “lo sfruttamento delle colonie, da parte di un pugno di ‘grandi’ potenze, trasforma sempre più il mondo ‘civile’ in un parassita che vive sul corpo di centinaia di milioni di uomini dei popoli non civili” [8]. Così, già l’economista borghese John Hobson, che per primo ha studiato gli effetti dell’imperialismo, era in grado di prevedere la funzione nefasta che avrebbe svolto l’unione delle potenze imperialiste europee, oggi tanto ammirata dall’attuale sinistra revisionista: “‘ecco quale possibilità sarebbe offerta da una più vasta lega delle potenze occidentali, da una federazione europea delle grandi potenze. Essa non solo non spingerebbe innanzi l’opera della civiltà mondiale, ma potrebbe presentare il gravissimo pericolo di un parassitismo occidentale, quello di permettere l’esistenza di un gruppo di nazioni industriali più progredite, le cui classi elevate riceverebbero, dall’Asia e dall’Africa, enormi tributi e, mediante questi, si procurerebbero grandi masse addomesticate di impiegati e di servitori, che non sarebbero occupati nella produzione di derrate agricole o di articoli industriali, ma nel servizio personale o in lavori industriali di second’ordine, sotto il controllo della nuova aristocrazia finanziaria’ [da Hobson]” [9].
In tal modo, con delle elemosine economiche e politiche, la classe dirigente dei paesi imperialisti è riuscita a corrompere una parte consistente dei gruppi dirigenti dei partiti e dei sindacati dei lavoratori nei paesi imperialisti, finanziando la formazione di una burocrazia revisionista sempre pronta a sostenere le posizioni socialimperialiste. Per dirla con Lenin: “sulla base economica qui indicata le istituzioni politiche del capitalismo contemporaneo – la stampa, il parlamento, le associazioni, i congressi, ecc. – creano per gli impiegati e gli operai riformisti e patriottici, rispettosi e sottomessi, elemosine e privilegi politici corrispondenti alle elemosine e ai privilegi economici. Posticini redditizi e tranquilli in un ministero e nel comitato dell’industria di guerra, nel parlamento e nelle varie commissioni, nelle redazioni di ‘solidi’ giornali legali o nelle amministrazioni di sindacati operai non meno solidi e ‘obbedienti alla borghesia’: ecco con che cosa la borghesia imperialistica attira e premia i rappresentanti e i seguaci dei ‘partiti operai borghesi’” [10].
D’altra parte, tale corruzione di parti consistenti dei gruppi dirigenti del movimento dei lavoratori è essenziale per mantenere l’egemonia del blocco sociale dominante sulle classi subalterne che subiscono gli effetti più deleteri dello sviluppo in senso imperialista del capitalismo. In effetti, come non manca di sottolineare Lenin: “i trust, l’oligarchia finanziaria, il carovita, ecc., mentre permettono di corrompere piccoli gruppi di aristocrazia operaia, d’altra parte opprimono, schiacciano, rovinano, torturano sempre più la massa del proletariato e del semiproletariato” [11].
Del resto, gli scontri fra le potenze imperialiste rischiano di mettere costantemente a repentaglio le leadership revisioniste che si sono imposte grazie ai sovraprofitti imperialisti nei paesi a capitalismo maggiormente avanzato. Così, osserva Lenin: “oggi, il ‘partito operaio borghese’ è inevitabile e tipico di tutti i paesi imperialistici; e tuttavia, a causa della loro lotta accanita per la spartizione del bottino, è improbabile che un tale partito possa trionfare a lungo in una serie di paesi” [12]. A questo proposito, è emblematico il caso della Gran Bretagna, il primo paese in cui si è affermata l’aristocrazia operaia e, con essa, il socialimperialismo. “Questa situazione eccezionale, monopolistica – ricorda Lenin – aveva creato in Inghilterra condizioni di vita relativamente sopportabili per l’aristocrazia operaia, cioè per una minoranza di operai qualificati e ben pagati. Di qui la mentalità piccolo-borghese, corporativa di questa aristocrazia operaia, che si era staccata dalla sua classe, gravitava verso i liberali e aveva un atteggiamento ironico verso il socialismo, considerato un’‘utopia’. (…) Negli ultimi tempi il monopolio dell’Inghilterra è stato definitivamente scalzato. Alle precedenti condizioni, relativamente sopportabili, si è sostituita un’estrema povertà a causa del rincaro della vita. Si inasprisce in grandissima misura la lotta di classe, e, con questo inasprimento, viene scalzato il terreno su cui alligna l’opportunismo, viene scalzata la base che permetteva la diffusione nella classe operaia delle idee della politica operaia liberale” [13].
Per tale motivo diviene decisivo, per mantenere intatti i rapporti di produzione che sempre più ostacolano lo sviluppo delle forze produttive nei paesi del tardo capitalismo, mantenere da parte della borghesia questa vera e propria testa di ponte all’interno dei ceti sociali subalterni, costituita dall’aristocrazia operaia sostenitrice del socialimperialismo. Al punto che Lenin sostiene che “la borghesia dell’Europa occidentale e dell’America, se non avrà un appoggio in seno allo stesso proletariato (attraverso gli agenti borghesi della II Internazionale e dell’Internazionale due e mezzo), non sarà in grado di conservare il potere” [14].
Note:
[1] Vladimir I. U. Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo e all’economismo imperialistico [agosto-ottobre 1916], in Id., Contro l’opportunismo di destra e di sinistra e contro il trotskismo, Edizioni progress, Mosca 1978, p. 269.
[2] Ivi, pp. 269-70.
[3] Id., L’opportunismo e il crollo della II Internazionale [gennaio 1916], in op. cit., p. 245.
[4] Ibidem.
[5] Id, Intorno a una caricatura…, op. cit., pp. 263-64.
[6] Ivi, p. 264.
[7] Id., L’imperialismo e la scissione del socialismo [ottobre 1916], in Id., op. cit., p. 294.
[8] Ivi, p. 286.
[9] Ivi, p. 288.
[10] Ivi, pp. 296-97.
[11] Ivi, pp. 295-96.
[12] Ibidem.
[13] Id., Discussioni in Inghilterra sulla politica operaia liberale [ottobre 1912], in op. cit., pp. 167-68.
[14] Id., Lettera ai comunisti tedeschi [14 agosto 1921], in op. cit., p. 578.